25/02/2019 – La Consulta si esprime sulla trasparenza dei dirigenti pubblici e dà ragione al T.A.R. Lazio

La Consulta si esprime sulla trasparenza dei dirigenti pubblici e dà ragione al T.A.R. Lazio

di Amedeo Di Filippo – Dirigente comunale

Un pò di storia

L’origine della vicenda risale all’ordinanza cautelare n. 1030 del 2 marzo 2017 con cui il T.A.R. Lazio ha sospeso l’obbligo di pubblicare i dati patrimoniali dei dirigenti ai sensi dell’art. 14, comma 1, lett. c) e f), D.Lgs. n. 33 del 2013. La lett. c) riguarda i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica nonché gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; la lett. f) concerne le dichiarazioni e le attestazioni di cui agli artt. 23 e 4L. n. 441 del 1982, limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano.

Si tratta in quest’ultimo caso della dichiarazione concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, azioni e quote di partecipazione a società, l’esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società; copia dell’ultima dichiarazione dei redditi; l’attestazione concernente le variazioni della situazione patrimoniale intervenute nell’anno precedente; la dichiarazione concernente le variazioni della situazione patrimoniale intervenute dopo l’ultima attestazione.

Con l’ordinanza n. 9828 del 19 settembre successivo lo stesso T.A.R. Lazio ha sollevato la questione di legittimità costituzionale di quelle disposizioni, nella parte in cui prevedono la pubblicazione dei redditi dei dirigenti sui siti web delle amministrazioni di appartenenza.

I giudici amministrativi hanno rilevato come nella normativa europea i dati personali devono essere adeguati, pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali vengono rilevati e/o trattati e il trattamento può essere effettuato solo laddove sia necessario per adempiere a un obbligo legale al quale è soggetto il responsabile del trattamento ovvero per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il responsabile del trattamento a cui vengono comunicati i dati.

Pur prendendo atto che le norme impugnate sono inserite all’interno del contesto del sistema di prevenzione della corruzione, essi valutano la proporzionalità e la ragionevolezza delle misure adottate, escludendo che la risposta normativa possa trasmodare dagli ambiti che nella Costituzione e nella normativa europea delineano i diritti della persona.

È il caso della divulgazione dei dati riferiti ai dirigenti pubblici, primo perché non regge la equiparazione con i titolari di incarichi politici né l’assenza di qualsiasi differenziazione tra le figure dirigenziali; secondo perché una pubblicazione incondizionata risulta poco efficace agli stessi fini della lotta alla corruzione, esponendo contemporaneamente i dirigenti a violazioni della riservatezza per tutta la durata del contratto di lavoro.

La sentenza della Consulta

Ampiamente annunciata, la Sent. n. 20 del 2019 demolisce definitivamente le norme del decreto trasparenza. Esteso il ragionamento proposto dai giudici costituzionali, che iniziano proprio dalla normativa e dalla giurisprudenza europee secondo cui le esigenze di controllo democratico non possono travolgere il diritto fondamentale alla riservatezza delle persone fisiche, dovendo sempre essere rispettato il principio di proporzionalità, definito cardine della tutela dei dati personali: deroghe e limitazioni alla protezione dei dati personali devono perciò operare nei limiti dello stretto necessario e prima di ricorrervi occorre ipotizzare misure che determinino la minor lesione del suddetto diritto fondamentale e che, nel contempo, contribuiscano in maniera efficace al raggiungimento dei confliggenti obiettivi di trasparenza, in quanto legittimamente perseguiti.

Venendo alle regole nazionali, la Corte ricorda che, in base alle disposizioni generali del D.Lgs. n. 33 del 2013, le pubbliche amministrazioni procedono all’inserimento in “Amministrazione trasparente” dei documenti, informazioni e dati oggetto degli obblighi di pubblicazione, cui corrisponde il diritto di chiunque di accedere ai siti direttamente e immediatamente, senza autenticazione né identificazione.

Tutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria sono pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente, di utilizzarli e riutilizzarli. Le amministrazioni non possono disporre filtri e altre soluzioni tecniche atte ad impedire ai motori di ricerca web di indicizzare ed effettuare ricerche all’interno della sezione.

In nome di rilevanti obiettivi di trasparenza dell’esercizio delle funzioni pubbliche, afferma la Corte, il legislatore ben può appresT.A.R.e strumenti di libero accesso di chiunque alle pertinenti informazioni; purtuttavia il perseguimento di tali finalità deve avvenire attraverso la previsione di obblighi di pubblicità di dati e informazioni “la cui conoscenza sia ragionevolmente ed effettivamente connessa all’esercizio di un controllo, sia sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali, sia sul corretto impiego delle risorse pubbliche”.

Alla luce di queste coordinate, la Consulta non rileva problemi di costituzionalità della norma primaria nella parte in cui obbliga i dirigenti a pubblicare i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica, nonché gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici. In questo caso, afferma, i regime di piena conoscibilità di tali dati risulta proporzionato rispetto alle finalità perseguite dalla normativa sulla trasparenza amministrativa, in quanto consente il controllo sull’impiego delle risorse pubbliche e permette la valutazione circa la congruità di quelle utilizzate per la remunerazione dei soggetti responsabili, a ogni livello, del buon andamento della pubblica amministrazione.

In termini opposti è invece la questione circa gli obblighi di pubblicazione inerenti le dichiarazioni e attestazioni contenenti dati reddituali e patrimoniali (propri e dei più stretti congiunti), ulteriori rispetto alle retribuzioni e ai compensi connessi alla prestazione dirigenziale. Dati che non necessariamente risultano in diretta connessione con l’espletamento dell’incarico affidato ma offrono, piuttosto, un’analitica rappresentazione della situazione economica personale dei soggetti interessati e dei loro più stretti familiari senza che, a giustificazione di questi obblighi di trasparenza, possa essere sempre invocata, come invece per i titolari di incarichi politici, la necessità o l’opportunità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale, allo scopo di mantenere saldo, durante l’espletamento del mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare.

Come tale, l’obbligo risulta sproporzionato rispetto alla finalità principale perseguita (contrasto alla corruzione), in quanto la pubblicazione di quantità così massicce di dati non agevola affatto la ricerca di quelli più significativi se non sono utilizzati efficaci strumenti di elaborazione, che non è ragionevole supporre siano a disposizione dei singoli cittadini. Con la conseguenza che, utilizzando i comuni motori di ricerca, si rischia di arrivare a “conclusioni” non del tutto o affatto aderenti alla realtà.

Ma è sproporzionato anche perché non opera alcuna distinzione all’interno della categoria dei dirigenti in ordine al livello di potere decisionale o gestionale, quando è chiaro che tale livello influenza sia la gravità del rischio corruttivo che le conseguenti necessità di trasparenza e informazione.

La Corte offre un appiglio per l’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni, ricorrendo alla differenziazione che opera l’art. 19D.Lgs. n. 165 del 2001 tra Segretari generale di Ministeri e dirigenti generali, titolari di compiti di elevatissimo rilievo, per i quali non è irragionevole il mantenimento degli obblighi di trasparenza.

T.A.R. Lazio vs Anac

A ridosso dell’emanazione dell’ordinanza cautelare n. 1030 del 2 marzo 2017, l’Anac ha adottato la Del. n. 382 del 12 aprile, con cui ha sospeso l’efficacia della Del. n. 241 del 2017 recante le Linee guida sull’attuazione dell’art. 14D.Lgs. n. 33 del 2013, limitatamente alle indicazioni relative all’applicazione del comma 1, lett. c) ed f) per tutti i dirigenti pubblici, in attesa della definizione nel merito del giudizio o in attesa di un intervento legislativo chiarificatore

Col Comunicato del 17 maggio, il Presidente dell’Anac ha informato che il Consiglio dell’Autorità ha ribadito che l’obbligo di pubblicazione degli emolumenti complessivi a carico della finanza pubblica percepiti dai dirigenti, disposto dall’art. 14, comma 1-ter, “debba ritenersi non sospeso e, dunque, da rispettare”. E questo in quanto l’ordinanza non richiama in alcun modo il comma 1-ter dell’art. 14 né tale disposizione è stata oggetto di censura davanti al T.A.R..

Col Comunicato dell’8 novembre 2017, il Presidente dell’Anac, preso atto dell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, ha ulteriormente ribadito che il Consiglio “ha ritenuto di confermare la decisione assunta precedentemente, rilevando che avere sollevato d’ufficio l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-ter, D.Lgs. 33 del 2013 non ha alcun effetto sospensivo”.

La questione ora è definitivamente risolta dalla Corte costituzionale con la Sent. n. 20, che cancella le due lettere dell’art. 14 e con esse l’obbligo per i dirigenti “non generali” di pubblicare i propri redditi che non siano direttamente correlati all’incarico.

Ma esistono margini affinché i singoli enti, nel mantenere l’impegno a pubblicare dati ulteriori rispetto a quelli obbligatori, pubblichino comunque i dati e le informazioni relativi ai compensi dei dirigenti? Sembra proprio di no, fondandosi il giudizio della Corte costituzionale sulla violazione di principi eurounitari di salvaguardia del preminente interesse del singolo alla tutela della riservatezza dei propri dati personali.

C’è da dire che la Corte, nel corso della sentenza, valorizza alcune soluzioni prospettate dal giudice a quo, quali la predefinizione di soglie reddituali il cui superamento sia condizione necessaria per far scatT.A.R.e l’obbligo di pubblicazione; la diffusione di dati coperti dall’anonimato; la pubblicazione in forma nominativa di informazioni secondo scaglioni; il deposito delle dichiarazioni personali presso l’autorità di controllo competente.

Quest’ultima soluzione, evidenzia la Consulta, è stata adottata prima del D.Lgs. n. 97 del 2016 dall’art. 13, commi 1 e 3, D.P.R. n. 62 del 2013 (il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici), che impone ai titolari d’incarichi dirigenziali l’obbligo di fornire alle amministrazioni di appartenenza, con onere di aggiornamento annuale, le informazioni sulla propria situazione reddituale e patrimoniale, che però non erano rese pubbliche (se non su apposita istanza) e, comunque, non con le modalità previste dal D.Lgs. n. 33 del 2013.

Soluzioni che la Corte prospetta a mo’ di suggerimento al Legislatore nazionale, ma che allo stato non sono nella disponibilità delle singole amministrazioni.

Restano comunque per i dirigenti gli obblighi dell’art. 13 del Codice di comportamento, che impone loro di comunicare all’amministrazione le partecipazioni azionarie e gli altri interessi finanziari che possano porlo in conflitto di interessi con la funzione pubblica che svolge e di fornire “le informazioni sulla propria situazione patrimoniale e le dichiarazioni annuali dei redditi soggetti all’imposta sui redditi delle persone fisiche previste dalla legge” (comma 3).

Informazioni e dichiarazioni che rimangono depositate presso la segreteria dei singoli enti e che non possono essere divulgate attraverso la sezione “Amministrazione trasparente”, pena la violazione dell’obbligo di riservatezza dei dati personali.

Corte Cost., Sent. 21 febbraio 2019, n. 20

Art. 14, comma 1, lett. c) e f), D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33 (G.U. 5 aprile 2013, n. 80)

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