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Trasparenti i dati sui patrimoni solo per i vertici della Pa  

di Giovanni Negri – Il Sole 24 Ore – 22 Febbraio 2019

I dirigenti pubblici non dovranno più pubblicare online i dati di reddito e patrimonio. O meglio, lo dovranno fare solo quelli che ricoprono incarichi apicali. A questa conclusione è approdata la Corte costituzionale con una sentenza depositata ieri, la 20, scritta da Niccolò Zanon. La pronuncia ha giudicato incostituzionale l’ obbligo, che riguardava circa 140mila dirigenti, di pubblicazione digitale dei compensi percepiti per lo svolgimento dell’ incarico e dei dati patrimoniali ricavabili dalla dichiarazione dei redditi, oltre che da attestazioni sul possesso di azioni e diritti reali.

Una spigolatura dà un po’ più di sapore alla questione giuridica, visto che a sollevare la questione è stato sì il Tar Lazio ma in una controversia che ha visto Garante della privacy contro Garante della privacy. A chiamare in causa il tribunale amministrativo erano stati proprio dirigenti dell’ Authority che chiedevano l’ annullamento a valle di provvedimenti del Garante stesso (varie note del Segretario generale datate 2016) e a monte della norma introdotta nel 2013 dal decreto legislativo 33. Secondo la sentenza l’ obbligo contestato (che oltretutto poteva essere esteso, con il consenso degli interessati, anche ai coniugi e ai parenti entro il secondo grado) difetta soprattutto sul versante della proporzionalità proprio rispetto all’ obiettivo che si prefiggeva, il contrasto alla corruzione nell’ ambito della pubblica amministrazione.

La pubblicazione di quantità così massicce di dati, infatti, osserva la sentenza, non agevola affatto la ricerca di quelli più significativi contro la corruzione se non sono utilizzati efficaci strumenti di elaborazione, che è irragionevole supporre essere a disposizione dei singoli cittadini. Nel caso in esame, alla indiscutibile compressione del diritto alla protezione dei dati personali non corrisponde un paragonabile aumento né della tutela del contrapposto diritto dei cittadini a essere correttamente informati, né dell’ interesse pubblico alla prevenzione e alla repressione dei fenomeni di corruzione. Al contrario, la stessa Autorità anticorruzione, segnala che il rischio è quello di generare “opacità per confusione”, proprio per l’ irragionevole mancata selezione, a monte, delle informazioni più significative.

Per i giudici «l’ indicizzazione e la libera rintracciabilità sul web, con l’ ausilio di comuni motori di ricerca, dei dati personali pubblicati, non è coerente al fine di favorire la corretta conoscenza della condotta della pubblica dirigenza e delle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche. Tali forme di pubblicità rischiano piuttosto di consentire il reperimento “casuale” di dati personali, stimolando altresì forme di ricerca ispirate unicamente dall’ esigenza di soddisfare mere curiosità». Nel tentativo di garantire la tutela minima delle esigenze di trasparenza insieme al diritto alla privacy la pronuncia individua nei soli dirigenti di vertice (come individuati dal decreto legislativo n. 165 del 2001) quelli che devono essere soggetti all’ obbligo.

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