24/12/2019 – Sanzione disciplinare per l’Ufficiale di Polizia Locale che non difende il Sindaco aggredito

Sanzione disciplinare per l’Ufficiale di Polizia Locale che non difende il Sindaco aggredito
di Roberto Rossetti – Funzionario di Polizia Locale
Un ufficiale di Polizia Locale ricorre in Cassazione per chiedere l’annullamento di una sentenza della Corte di Appello che l’aveva giudicato passibile della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per dieci giorni, perché non è intervenuto in alcun modo, per impedire l’aggressione perpetrata nei confronti del Sindaco, pur essendo presente e a pochi metri di distanza dal luogo del fatto; ciò in violazione del codice disciplinare, riguardante la violazione di obblighi di comportamento da cui sia derivato disservizio, ovvero danno o pericolo all’ente, agli utenti o a terzi (tale prescrizione è ora contenuta, per i dipendenti del comparto Regioni EE.LL., anche nell’art. 59, comma 3, lett. k), del CCNL 21 maggio 2018).
La Corte territoriale aveva ritenuto che intervenire per tutelare l’integrità del Sindaco rientrasse nei doveri del dipendente, per effetto delle funzioni di pubblica sicurezza proprie del suo ruolo e della sua qualifica (lo stesso era stato riconosciuto agente di pubblica sicurezza, ai sensi dell’art. 5L. 7 marzo 1986, n. 65, legge quadro sull’ordinamento della Polizia Locale) e, per questo, fra i suoi compiti primari dovevano annoverarsi il presidio del territorio al fine di garantire, in concorso con le forze di polizia dello Stato, la sicurezza urbana degli ambiti territoriali di riferimento e, quello più generale, di vigilanza sul mantenimento dell’ordine pubblico e sull’incolumità e la tutela delle persone, dovere rispetto al quale aveva alcuna rilevanza che la vittima del reato fosse il Sindaco o un qualunque altro cittadino.
Ai fini disciplinari tale obbligo veniva correttamente ricondotto a quello previsto dal codice disciplinare dell’Ente, che aveva ottemperato agli oneri di pubblicità. Rispetto al testo pubblicato ed affisso il D.Lgs. n. 150/2009 (nella parte in cui modifica il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, T.U. sul pubblico impiego) non aveva introdotto disposizioni rilevanti con riguardo alle sanzioni disciplinari, rimaste sostanzialmente inalterate anche nei CCNL. successivi.
Nel ricorso in Cassazione l’interessato eccepisce l’errata applicazione di norme disciplinari e la mancata affissione nei luoghi di lavoro del codice disciplinare, mancata applicazione della legislazione regionale, nella parte in cui attribuirebbe alla polizia locale autonomi poteri in materia di ordine pubblico e eccessiva gravosità della sanzione.
La Suprema Corte, riguardo alla corretta applicazione delle norme in materia di sanzioni disciplinari, osserva che i fatti in causa si sono verificati dopo l’entrata in vigore della D.Lgs. n. 150/2009 (c.d. Riforma Brunetta), che, all’art. 44-bis, D.Lgs. n. 165/2001, ha imposto una rigida sequenza cronologica scandita da termini perentori, con lo scopo di conferire maggior celerità e certezza all’accertamento dell’infrazione disciplinare (questa norma è stata poi nuovamente riscritta dal D.Lgs. n. 75/2017, ma “ratione temporis” non è applicabile alla fattispecie in esame).
Relativamente ai procedimenti disciplinari, i contratti collettivi possono solo definire la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni, di fronte, quindi, ad una disciplina legislativamente prevista, non vale, secondo la Corte, invocare la mancata affissione del codice disciplinare quale fonte di codificazione e di legittimazione delle regole. Prima della riforma del 2009, per il corretto esercizio del potere disciplinare era necessaria la materiale affissione del ‘codice disciplinare‘ in luogo accessibile a tutti (art. 7L. n. 300/1970, statuto dei lavoratori) e questa affissione costituiva una forma esclusiva di pubblicità, che non ammetteva forme alternative o diverse (cfr. Cass. Civ., S.U., 5 febbraio 1988, n. 1208 ed altre successive conformi), ma con le modifiche operate dall’art. 68D.Lgs. n. 150/2009 si è superato tale vincolo, prevedendo che, per la validità del procedimento, è sufficiente la pubblicazione del codice sul sito web dell’amministrazione (v. nuovo testo art. 55, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001) ovvero, in alternativa, l’Ente può affiggerlo all’ingresso della sede di lavoro.
Riguardo alle competenze regionali, la Corte ribadisce la competenza esclusiva dello Stato in materia di “ordine pubblico e sicurezza”, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. f), Cost. e con la norma regionale (nella fattispecie la L.R. Lombardia 14 aprile 2003, n. 4) sono state individuate solo le modalità di intervento della Polizia Locale all’interno del sistema integrato di sicurezza, prevedendo (art. 14) che “nell’esercizio delle funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza, previste dalla normativa statale, la polizia locale pone il presidio del territorio tra i suoi compiti primari, al fine di garantire, in concorso con le forze di polizia dello Stato, la sicurezza urbana degli ambiti territoriali di riferimento” e tali ‘funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza‘ trovano, un diretto riscontro nella L. n. 65/1986, legge quadro sull’ordinamento della polizia locale.
Pur richiamando tutte le limitazioni poste dalla normativa statale in capo alla Polizia Locale nelle materie della Polizia Giudiziaria e della Pubblica Sicurezza, la Corte ricorda l’obbligo per il personale di Polizia Locale di attenersi, nel compimento delle operazioni di pubblica sicurezza ad esso demandate, alle specifiche direttive degli organi competenti e, come giustamente ritenuto dalla Corte territoriale, grava sul personale stesso, quale addetto alla pubblica sicurezza, un generale dovere di vigilanza nel mantenimento dell’ordine pubblico e nella tutela delle persone e dei beni.
Anche al di fuori di specifiche operazioni da svolgersi su richiesta delle competenti autorità, un addetto alla pubblica sicurezza può trovarsi in situazioni in cui si sta commettendo un reato in flagranza, tale da richiedere un pronto e diretto intervento a salvaguardia dell’incolumità delle persone e dei beni.
La Cassazione ricorda che già con la sentenza n. 77/1987, la Corte Cost. ha definito la ‘sicurezza pubblica‘ come la “funzione inerente alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico” e successivamente (cfr. sentenze n. 218/1988n. 740/1988n. 162/1990 e n. 115/1995) precisato che la polizia di sicurezza ricomprende “le misure preventive e repressive dirette al mantenimento dell’ordine pubblico, da intendersi quale complesso dei beni giuridici fondamentali o degli interessi pubblici primari sui quali si fonda l’ordinata convivenza civile dei consociati“.
La Corte perciò afferma che non è escluso dai doveri degli appartenenti alla Polizia Locale (specie se, come nel caso in esame, addetti alla pubblica sicurezza) quello di vigilanza sul mantenimento dell’ordine pubblico e quello inteso alla tutela e alla incolumità delle persone e dei beni (e più in generale alla prevenzione dei reati). Si tratta di un dovere generale e non connesso a specifiche operazioni di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, che è certamente sotteso al ruolo ricoperto.
E’ stato da tempo precisato (cfr. Cass. Pen. 19 ottobre 1977, n. 15961) che in contingenti situazioni, e così “nella flagranza del reato, il pubblico ufficiale ha il potere-dovere di intervenire” e anche che “ai sensi dell’art. 5L. n. 65/1986 e dell’art. 57, comma 2, lett. b), CPP. la qualità di agenti di polizia giudiziaria è espressamente attribuita alle guardie dei comuni, alle quali è riconosciuto il potere di intervento nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza e nei limiti delle proprie attribuzioni, tra le quali rientra lo svolgimento di funzioni attinenti all’accertamento di reati di qualsiasi genere, che si siano verificati in loro presenza, e che richieda un pronto intervento anche al fine di acquisizione probatoria” (cfr. Cass. Pen. 10 marzo 1994, n. 1193).
Nel caso in esame, conclude la Corte, al momento dell’aggressione del Sindaco (avvenuta nel corridoio dell’ufficio comunale, ad opera di due soggetti dei quali uno “percuoteva con calci il Sindaco, che era a terra, e l’altro, invece, teneva socchiusa la porta del corridoio, in modo che non entrasse nessuno“), il ricorrente era in servizio e stava svolgendo i propri compiti d’ufficio nell’ambito territoriale di competenza e, quindi, è corretta l’interpretazione della Corte d’Appello che l’Ufficiale di Polizia Locale abbia violato i doveri connessi al ruolo istituzionale ricoperto, non essendo intervenuto in nessun modo, neppure pronunciando frasi del tipo ‘fermatevi polizia‘ per impedire tale aggressione, pur essendo a pochi metri di distanza e neppure inseguendo gli autori del fatto.
Per la Suprema Corte, anche la invocata sproporzione della sanzione è da rigettare, ritenendo che la Corte d’appello abbia debitamente valutato la gravità della condotta del ricorrente che “nonostante il suo ruolo e la sua qualifica (che avrebbero dovuto indurlo ad intervenire prima di tutti gli altri), rimase del tutto inerte, non intervenne neppure verbalmente e non si impegnò nell’immediato inseguimento degli aggressori, una volta terminata la colluttazione“, “nonostante fosse nelle condizioni di farlo, essendo uscito in corridoio quando l’aggressione era ancora in corso, tanto vero che intervenne in aiuto del Sindaco l’impiegata […], che si trovava in ufficio con […] e che si frappose tra il Sindaco e gli aggressori nel tentativo di farli smettere” e quindi ritenuto, rispetto ad essa, proporzionale la sanzione comminata.

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