Tratto da: Ildirittoamministrativo.it 

Autore: Michele Punzi

Abstract

Il presente contributo propone una lettura della protezione civile come funzione ordinamentale a vocazione integrativa: un luogo in cui diritti fondamentali, organizzazione amministrativa e sicurezza collettiva si ricompongono in un disegno coerente. Muovendo dalla trama costituzionale e dall’evoluzione normativa e giurisprudenziale, si mette in luce il passaggio da un assetto reattivo a un modello di governance cooperativa e multilivello, che coinvolge e responsabilizza Stato, Regioni ed Enti locali nelle attività di prevenzione, pianificazione e gestione del rischio. Al centro dell’analisi si colloca il potere di ordinanza nelle situazioni di necessità e urgenza, qualificato quale forma di legalità dinamica dell’eccezione: non sospensione dell’ordinamento, ma suo adattamento provvisorio alla crisi, rigorosamente delimitato dai canoni di temporaneità, proporzionalità e controllo. La sequenza degli interventi – dalla decisione iniziale all’attuazione, dal governo delle risorse al ritorno all’ordinario e alla ricostruzione – si dispiega secondo criteri di trasparenza, tracciabilità e responsabilità. In questa prospettiva, il Prefetto si configura quale snodo istituzionale tra centro e periferia, capace di integrare componenti civili e operative e di assicurare continuità decisionale nei momenti critici. Ne discende un’amministrazione di garanzia, idonea a coniugare tecnica e solidarietà, tempestività e tutela, preservando la coerenza costituzionale anche quando l’azione pubblica è chiamata a misurarsi con l’eccezione.

Sommario: 1. La cornice teorico-sistematica della protezione civile. – 2. L’evoluzione storica e l’assetto delle competenze. – 3. Il Codice della protezione civile. – 4. Il potere di ordinanza e legalità dell’eccezione. – 4.1. La grammatica dell’emergenza: dichiarazione, deroga, rendicontazione, ricostruzione. – 5. Il Prefetto nel sistema di protezione civile: continuità istituzionale, oscillazioni normative e ruolo di “cerniera”. – 6. Conclusioni.

 

  1. La cornice teorico-sistematica della protezione civile

La disciplina della protezione civile rappresenta, oggi più che mai, un campo in costante metamorfosi, caratterizzato da una mobilità quasi “magmatica” che ne riflette la natura composita e intersettoriale. È un ambito nel quale si incontrano, talvolta in modo conflittuale, le esigenze della società, dell’economia e delle istituzioni, generando un tessuto normativo e operativo in continua ridefinizione. Tale fluidità spiega la difficoltà, più volte avvertita in dottrina, di pervenire a una definizione univoca di “protezione civile”, concetto che si rivela per sua stessa essenza problematico e plurale[1]. La materia, infatti, non può essere isolata dal contesto di altre nozioni cardine – rischio, pericolo, sicurezza – che condividono la medesima vocazione dinamica e si evolvono contestualmente al mutare della società e delle sue vulnerabilità. In questa prospettiva, la giurisprudenza costituzionale ha più volte evidenziato la natura trasversale della protezione civile[2], collocandola al crocevia tra tutela dei diritti fondamentali, organizzazione amministrativa e salvaguardia dell’ordine pubblico in senso sostanziale[3].

Lo sviluppo tecno-scientifico ha inciso in profondità non solo sulla tassonomia dei rischi oggettivi a cui la collettività è esposta – si pensi alle calamità naturali aggravate dai cambiamenti climatici, agli incidenti industriali, alle minacce informatiche – ma anche sulla percezione soggettiva del pericolo elaborata dall’uomo contemporaneo. Ne è scaturita la rappresentazione della modernità come «società del rischio»[4], nella quale la domanda di sicurezza si consolida progressivamente fino a divenire una forma di diritto collettivo fondamentale[5], espressione diretta del bisogno di protezione insito nella convivenza civile. In tale contesto, la protezione civile non può più essere confinata nel perimetro di un apparato tecnico-operativo; essa si configura, in attuazione dei principi di solidarietà[6] e di tutela della persona[7], come pilastro dell’ordinamento democratico, fattore di coesione sociale e strumento di resilienza comunitaria.

Da ciò deriva un’esigenza duplice e complementare. Da un lato, è imprescindibile disporre di strutture in grado di reagire alle emergenze con tempestività, efficienza e coordinamento; dall’altro, occorre coltivare un’autentica “cultura della protezione civile”, intesa quale patrimonio condiviso di conoscenze, responsabilità e comportamenti virtuosi. Tale cultura affonda le radici nell’educazione civica e si nutre della partecipazione attiva dei cittadini, divenendo il presupposto indispensabile di ogni strategia di prevenzione. Solo una comunità consapevole, infatti, è in grado di ridurre gli effetti dannosi di eventi naturali o antropici. In questa prospettiva, l’amministrazione pubblica esercita una regia di governance multilivello: coordina le competenze di Stato, Regioni ed Enti locali, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione (artt. 117 e 118 Cost.), e, al contempo, promuove sinergie con il volontariato, il settore privato e le comunità territoriali, chiamati a farsi parte attiva nella costruzione della sicurezza collettiva.

È in questo clima di crescente sensibilità pubblica e istituzionale che si è avvertita la necessità di un assetto normativo organico e coerente, culminato nell’adozione del Codice della protezione civile (D.Lgs. 2 gennaio 2018, n. 1). Tale intervento legislativo rappresenta non soltanto la razionalizzazione di un sistema frammentato, ma il compimento di un percorso storico e valoriale iniziato con la Legge n. 996 del 1970, proseguito con la Legge n. 225 del 1992, e consolidato attraverso una progressiva sedimentazione di principi e competenze. Il Codice, tuttavia, non si limita a ordinare: esso eleva la protezione civile a sistema integrato di previsione, prevenzione, gestione e resilienza, orientato tanto alla dimensione nazionale quanto a quella europea e sovranazionale[8].
In tal modo, la protezione civile si emancipa dalla sua originaria connotazione emergenziale, per divenire una degli architravi della moderna amministrazione di garanzia, capace di unire tecnica, solidarietà e visione.

 

  1. L’evoluzione storica e l’assetto delle competenze

In una prospettiva storica, la protezione civile non nasce come funzione autonoma dell’ordinamento, ma come naturale estensione della tradizionale tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. Le sue prime manifestazioni operative si inscrivono, infatti, nella sfera delle attribuzioni dell’Autorità di Pubblica Sicurezza[9], la quale, secondo il Testo Unico del 1931, era tenuta a prestare soccorso in caso di infortuni o calamità, esercitando un potere eminentementecentralizzato. Per lungo tempo la protezione civile fu dunque concepita come apparato di emergenza – un sistema di soccorso e assistenza destinato ad attivarsi solo in presenza di eventi eccezionali – e non come un vero e proprio settore di policy dotato di una sua autonoma razionalità giuridico-amministrativa.

Non sorprende, pertanto, che fino agli anni Novanta del secolo scorso la dottrina, nell’analizzare la figura del Prefetto, ne accostasse le competenze in materia di protezione civile a quelle relative alla sicurezza pubblica, quasi a suggellare un continuum funzionale tra i due ambiti: entrambi fondati sull’immediatezza dell’azione e sulla responsabilità dello Stato quale garante ultimo dell’incolumità collettiva[10]. Tuttavia, proprio l’esperienza amministrativa e la riflessione dottrinale maturata a partire dagli anni Sessanta misero in luce l’inadeguatezza di una simile prospettiva: la protezione civile non poteva più ridursi alla mera risposta all’emergenza, ma doveva farsi funzione preventiva e di governo del rischio, capace di operare prima, durante e dopo l’evento calamitoso.

Un primo salto concettuale avvenne con la Legge 8 dicembre 1970, n. 996”[11], che per la prima volta introdusse nel linguaggio normativo l’espressione di “protezione civile”, insieme alle definizioni di “calamità naturale” e “catastrofe”[12]. Essa tentò di fornire un confine giuridico a una materia sino ad allora indistinta, ma restò prigioniera di un paradigma ancora emergenziale, ovvero limitato alla fase del soccorso e dell’assistenza. L’assenza di una visione integrata delle fasi di previsione e prevenzione avrebbe trovato rimedio, vent’anni più tardi, con la Legge 24 febbraio 1992, n. 225, istitutiva del Servizio nazionale della protezione civile[13]. Con tale provvedimento si determinò una vera svolta sistemica: la protezione civile venne qualificata come funzione pubblica complessa, orientata alla tutela della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente, secondo un modello policentrico e sussidiario fondato sulla cooperazione tra i diversi livelli istituzionali. Per la prima volta fu affermato con chiarezza un principio tanto semplice quanto decisivo: la prima risposta deve provenire dal livello più vicino al cittadino. Il Sindaco assunse, dunque, il ruolo di Autorità di protezione civile di primo livello, mentre Prefetto, Regione e Stato intervenivano in via sussidiaria al crescere della necessità, entro una logica di sostegno progressivo. Si consolidò, inoltre, il binomio “previsione–prevenzione” quale trave portante della funzione, organicamente connessa alla pianificazione territoriale e ambientale: la sicurezza collettiva non può dipendere soltanto dalla prontezza dei soccorsi, ma esige una progettazione del territorio capace di ridurre ex ante le cause del rischio, prima che esse si traducano in pericoli.

Le riforme di ispirazione federalista degli anni Novanta (L. n. 59/1997[14] e D.Lgs. n. 112/1998[15]) rafforzarono tale tendenza, anticipando la futura revisione costituzionale: la protezione civile divenne laboratorio di un nuovo equilibrio tra Stato e autonomie, nel quale la pianificazione urbanistica, paesaggistica e ambientale veniva saldata agli strumenti di previsione e prevenzione del rischio. Questo processo trovò il suo compimento costituzionale con la riforma del Titolo V (L. Cost. n. 3/2001), che riconobbe alla protezione civile rango costituzionale[16] e la collocò tra le materie di legislazione concorrente (art. 117, c. 3 Cost.), segnando la definitiva consacrazione di un modello decentrato, ma cooperativo, fondato sul principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni[17].

Il successivo D.L. n. 59/2012, convertito nella L. n. 100/2012, riaffermò la centralità del Sindaco come Autorità Comunale di Protezione civile, introducendo l’obbligo per i Comuni di adottare e aggiornare periodicamente i piani di emergenza, così da consolidare la logica della prevenzione strutturale. A completare il quadro giunse la Legge 16 marzo 2017, n. 30[18], che delegò il Governo al riordino complessivo della materia, sfociato nell’adozione del D.Lgs. 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile), successivamente integrato dal D.Lgs. n. 4/2020. Il Codice, lungi dal limitarsi a un’operazione di coordinamento, rappresenta una vera e propria maturazione del sistema: raccoglie l’esperienza normativa e amministrativa accumulata dal 1992, la integra con i principi della governance multilivello e la collega a settori generali dell’ordinamento – dal Codice dei contratti pubblici al diritto del Terzo Settore, fino al riordino delle autonomie provinciali.

Ne emerge un modello che definisce la protezione civile come servizio di pubblica utilità, a base cooperativa, nel quale la gestione dei rischi diviene espressione del bilanciamento tra centralità statale, autonomia territoriale e unità funzionale[19]. È qui che la protezione civile si afferma come sintesi paradigmatica di sicurezza e resilienza: un luogo di incontro tra security[20] e safety[21], tra potere e solidarietà, tra prevenzione e responsabilità condivisa. Essa non è più soltanto l’arte di reagire al disastro, ma la scienza di costruire la fiducia collettiva nelle istituzioni e nella capacità della comunità di rialzarsi.

 

  1. Il Codice della protezione civile

Il Codice della protezione civile rappresenta il più ambizioso tentativo del legislatore di ricondurre a unità un corpus normativo che, fino a quel momento, appariva disperso, stratificato e frammentato. Ma il Codice non è soltanto un’operazione di coordinamento: esso segna una svolta culturale e istituzionale, traducendo in forma giuridica una visione matura della protezione civile come funzione pubblica integrata, preventiva e partecipata. Il Consiglio di Stato, nel parere reso in sede consultiva[22], sottolineò non a caso l’opportunità di definirlo espressamente come “Codice”, riconoscendone la valenza sistematica e codificatoria, propria delle grandi riforme ordinamentali.

In continuità con la Legge n. 225 del 1992, il nuovo impianto normativo rafforza il modello policentrico e multilivello del Servizio nazionale di protezione civile[23], qualificando le proprie disposizioni come principi fondamentali ai sensi dell’art. 117, comma 3, Cost., a presidio della legislazione concorrente regionale. L’articolazione del testo – 50 articoli suddivisi in 7 capi – riflette una precisa intenzione: fondere norme di ricognizione e di innovazione in un equilibrio dinamico, capace di restituire chiarezza, linearità e coerenza ad una materia per sua natura complessa e interistituzionale.

Il Capo I individua finalità, attività e composizione del Servizio nazionale. L’art. 1 qualifica, innanzitutto, la protezione civile come servizio di pubblica utilità, destinato alla salvaguardia della vita, dell’integrità fisica, dei beni, degli insediamenti, degli animali[24] e dell’ambiente, sia di fronte a calamità naturali, sia a eventi di origine antropica. È significativa – anche sul piano simbolico – la menzione del soccorso agli animali, segno di un ordinamento progressivo che recepisce la sensibilità europea introdotta dal Trattato di Lisbona e riconosce valore alla tutela integrale degli ecosistemi. L’art. 2 del Codice delinea un sistema organico di attività fondamentali, scandite nelle fasi di previsione, prevenzione, mitigazione, gestione e superamento dell’emergenza. Particolarmente rilevante è la distinzione tra “prevenzione strutturale”, fondata sulla realizzazione di opere e infrastrutture, e “prevenzione non strutturale”, incentrata sui sistemi di allerta, sulla pianificazione e sulla formazione (anche attraverso il coinvolgimento delle istituzioni scolastiche).

Questa è una distinzione che non è solo terminologica, ma segna un vero e proprio cambio di prospettiva. La protezione civile cessa di essere mera risposta all’evento e si configura come strategia di costruzione della resilienza collettiva. Ne discende che il cittadino non è più soggetto passivo, ma componente integrante del sistema, chiamato a contribuire da protagonista alla sicurezza della comunità. In tale direzione si muove anche l’art. 18, comma 2, che valorizza la partecipazione dei cittadini, singoli ed associati, ai processi di pianificazione di protezione civile, quale garanzia di trasparenza, corresponsabilità e coesione sociale[25].

Sempre nel Capo I, l’art. 3 valorizza i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, operando una netta distinzione tra responsabilità politiche e responsabilità operative. Le Autorità di Protezione civile sono individuate nel Presidente del Consiglio dei Ministri, nei Presidenti di Regione, nei Sindaci e nei Sindaci metropolitani; alle Prefetture – Uffici Territoriali del Governo è attribuito un ruolo strutturale all’interno del Servizio nazionale, a conferma della loro funzione di raccordo istituzionale e di presidio territoriale.

In quest’ottica, si consolida una catena di comando chiara e graduata, idonea a ridurre le incertezze interpretative del passato e a garantire in situazioni di emergenza l’esercizio coordinato dei poteri.

 

Il Capo II disciplina l’organizzazione del Servizio, introducendo la tipizzazione tripartita delle emergenze (art. 7): eventi di tipo A, gestibili dai Comuni; eventi di tipo B, che richiedono l’intervento delle Regioni; ed eventi di tipo C, di rilievo nazionale, che esigono l’immediata mobilitazione delle risorse statali.

La classificazione, di evidente valore operativo, mira a rendere scalabile la risposta pubblica, ma lascia aperti interrogativi sulla capacità dei Comuni – specie di piccole dimensioni – di garantire un’efficace prima reazione in assenza di strutture e risorse adeguate. Gli articoli 9-13 precisano la ripartizione delle competenze tra Prefetti, Regioni, Province, Comuni e strutture operative nazionali, consolidando un modello cooperativo a rete[26], in cui convergono Vigili del Fuoco, Forze armate e di polizia, Servizio sanitario, volontariato organizzato, Croce Rossa e Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente.

Il Capo III affronta in chiave innovativa la previsione e la prevenzione dei rischi, introducendo un sistema di allertamento su due livelli (nazionale e regionale) e riconoscendo alla pianificazione un ruolo strutturale, non più episodico, fondato sull’analisi preventiva degli scenari di rischio.

Segue il Capo IV, dedicato alla gestione delle emergenze di rilievo nazionale: la procedura si articola in fasi ordinate – mobilitazione, dichiarazione dello stato di emergenza, stanziamento e successiva quantificazione dei fabbisogni – con un limite temporale di dodici mesi, prorogabili una sola volta.

Si tenta, così, di coniugare flessibilità e temporaneità, per evitare che l’eccezione si trasformi in regola, anche se la prassi amministrativa mostra come la proroga resti una costante del modello emergenziale italiano[27].

Il Capo V introduce una delle innovazioni più significative: il riconoscimento esplicito della resilienza comunitaria come finalità del Servizio nazionale. L’art. 31 impone alle istituzioni di promuovere la partecipazione civica e di valorizzare il volontariato organizzato, richiamando le esperienze internazionali di community resilience[28] e la tradizione anglosassone del civil protection engagement[29]. È una svolta concettuale che restituisce alla protezione civile una dimensione etica, oltre che organizzativa, ma che pone anche la sfida di integrare realmente cittadini e associazioni nei processi di pianificazione e decisione pubblica.

Infine, i Capi VI e VII raccolgono le disposizioni di carattere organizzativo, finanziario e transitorio, completando un’architettura normativa coerente, seppure non esente da fragilità. Restano, infatti, nodi ancora aperti: la debolezza strutturale dei Comuni minori, la disomogeneità dei sistemi regionali e la difficoltà di tradurre la prevenzione da enunciazione programmatica a prassi amministrativa effettiva.

In conclusione, il Codice della protezione civile rappresenta un punto di approdo e di ripartenza: un testo che codifica l’esperienza, innova i processi e sollecita le istituzioni a una nuova consapevolezza.

La protezione civile vi appare non più come un apparato burocratico di soccorso, ma come infrastruttura nazionale della resilienza, laboratorio permanente di integrazione tra sicurezza, solidarietà e governance multilivello.

In ciò risiede la sua vera portata: non soltanto un Codice, ma una visione del futuro della sicurezza pubblica in chiave democratica e partecipativa.

 

  1. Il potere di ordinanza e legalità dell’eccezione

Gli eventi di protezione civile richiedono per loro natura interventi rapidi e incisivi, finalizzati a garantire la salvaguardia dell’incolumità delle persone, la tutela dei beni e il tempestivo ripristino delle normali condizioni di vita collettiva. In tali frangenti, l’amministrazione pubblica è chiamata a coniugare l’urgenza del provvedere con il rispetto dell’ordinamento, ponendosi in quella zona di confine in cui la necessità diviene fonte di potere. Laddove gli strumenti ordinari si presentino insufficienti a fronteggiare le esigenze di un evento calamitoso, il legislatore consente all’autorità competente di ricorrere a un rimedio straordinario: l’ordinanza di protezione civile, espressione tipica del potere di necessità e urgenza. Tale istituto, ormai consolidato nell’esperienza amministrativa, garantisce la prontezza dell’azione pubblica e la continuità della funzione statale nei momenti di crisi, quando la rigidità della legge rischierebbe di tradursi in inerzia.

Le ordinanze di protezione civile sono collate nella categoria degli atti contingibili e urgenti, cioè in quella tipologia provvedimentale che trova giustificazione nel sopravvenire di circostanze straordinarie e imprevedibili, tali da esporre interessi pubblici primari – incolumità delle persone, sicurezza dei beni, salubrità dell’ambiente – a un pericolo imminente di danno grave e irreparabile. Si consideri, ad esempio, un’ordinanza prefettizia che disponga l’immediata evacuazione di un’area urbana a rischio di crollo: provvedimento che, pur operando in deroga temporanea alle ordinarie procedure amministrative e nei limiti di necessità e proporzionalità, risponde all’esigenza di tutelare in via prioritaria la vita e l’integrità fisica dei cittadini. Come ha sottolineato autorevole dottrina, l’urgenza del provvedere può raggiungere un’intensità tale da trasformarsi in vera e propria necessità: non un potere arbitrario, ma una forma di legalità dinamica, che consente all’ordinamento di reagire alla crisi senza dissolversi[30].

La peculiarità di tali provvedimenti risiede nella loro duplice natura. Da un lato, essi promanano da un’autorità amministrativa, assumendo la veste formale di atti amministrativi; dall’altro, contengono prescrizioni generali e astratte rivolte a una pluralità di destinatari, avvicinandosi così al modello normativo. Per un periodo limitato, in ragione dell’urgenza, le ordinanze possono derogare temporaneamente al diritto vigente, sospendendo l’efficacia di norme ordinarie e introducendo discipline eccezionali necessarie per la gestione dell’emergenza. Si tratta, dunque, di atti atipici, dotati di forza derogatoria e caratterizzati da una posizione di sussidiarietà rispetto agli strumenti ordinari di intervento. Tale atipicità ha alimentato, nel tempo, un ampio dibattito circa la loro natura giuridica: se dovessero cioè considerarsi atti normativi – in ragione del loro contenuto innovativo – o atti amministrativi – per via della loro efficacia transitoria e limitata nel tempo. Una parte della dottrina, valorizzando la capacità delle ordinanze di incidere sull’ordinamento, ne sosteneva il carattere normativo; la tesi prevalente, invece, ne affermava la natura amministrativa, argomentando che la temporaneità dell’efficacia e la finalità contingente non consentono una vera innovazione dell’ordinamento giuridico. Altri autori, infine, proponevano una posizione intermedia, qualificandole come atti amministrativi a contenuto normativo eccezionale.

Il dibattito è stato definitivamente superato con il riconoscimento legislativo della natura amministrativa delle ordinanze di protezione civile[31], confermato dal sistema di garanzie processuali previsto dall’art. 25, c. 9, del Codice della protezione civile (D.Lgs. n. 1/2018). La disposizione sancisce espressamente che la tutela giurisdizionale avverso le ordinanze e i consequenziali provvedimenti commissariali appartiene al giudice amministrativo, secondo le regole del Codice del processo amministrativo[32]. Il potere di ordinanza, dunque, non è sottratto al sindacato di legalità, ma vi è pienamente assoggettato: segno di una maturazione costituzionale che mantiene l’emergenza entro il perimetro dello Stato di diritto.

Per la sua forza eccezionale e la sua capacità di incidere sulla sfera delle libertà, il potere di ordinanza è stato da sempre oggetto di attenta riflessione dottrinale e giurisprudenziale. Esso rappresenta un banco di prova della tenuta costituzionale del principio di legalità, nella misura in cui consente all’amministrazione di operare in deroga alla legge per far fronte a situazioni di necessità, senza tuttavia travalicarne i limiti. La giurisprudenza costituzionale ha progressivamente definito i requisiti che legittimano l’uso di tale potere: temporaneità, necessità e urgenza, adeguata motivazione, pubblicità e conformità ai principi dell’ordinamento. Già le sentenze della Corte costituzionale n. 8 del 1956, n. 26 del 1961, n. 100 e n. 201 del 1987 e n. 4 del 1997 hanno tracciato i confini di legittimità dell’atto contingibile e urgente, ponendo l’accento sulla sua natura di strumento eccezionale, non surrogabile ma nemmeno sostitutivo della funzione legislativa. In altri termini, l’ordinanza non è un modo per “creare diritto”, ma un meccanismo di adattamento provvisorio dell’ordinamento alla realtà della crisi, volto a garantire la continuità dell’amministrazione nella legalità.

Nel bilanciamento tra esigenze di immediatezza e tutela delle garanzie, il potere di ordinanza si offre come chiave di lettura della maturità giuridica: una forma di potestà eccezionale che, nella logica della legalità dinamica, misura la capacità dello Stato di restare fedele ai propri principi proprio quando è chiamato a derogarne la forma[33].

 

4.1 La grammatica dell’emergenza: dichiarazione, deroga, rendicontazione, ricostruzione

Con l’entrata in vigore del Codice della protezione civile (D.Lgs. 2 gennaio 2018, n. 1), la disciplina del potere di ordinanza – in precedenza contenuta nell’art. 5 della Legge n. 225 del 1992 – è stata oggetto di una complessiva opera di sistematizzazione e razionalizzazione, oggi ripartita negli articoli 24, 25, 26, 27 e 28.

Il legislatore ha inteso distinguere in modo analitico i diversi profili dell’istituto: dalla dichiarazione dello stato di emergenza alla disciplina delle ordinanze, dalla gestione contabile alle procedure di rientro nell’ordinario. Ne risulta un sistema più coerente, nel quale la funzione derogatoria è ricondotta entro confini normativi definiti, senza snaturare l’esigenza di immediatezza che ne costituisce la ratio.

L’art. 24 del Codice disciplina la dichiarazione dello stato di emergenza di rilievo nazionale quale presupposto funzionale per l’esercizio dei poteri straordinari. Essa può essere deliberata soltanto in presenza di eventi calamitosi, di origine naturale o antropica, che, per intensità o estensione, non risultino gestibili con mezzi ordinari e richiedano, con urgenza, l’attivazione di strumenti eccezionali. Rispetto alla disciplina previgente, il nuovo impianto introduce una procedura «a doppio binario», più rigorosa e improntata a criteri di trasparenza e responsabilità. In una prima fase, di natura istruttoria, il Dipartimento della Protezione civile procede a una valutazione tempestiva, sulla base dei dati e delle segnalazioni provenienti dai territori colpiti, al fine di accertare la sussistenza dei presupposti per la deliberazione. Qualora l’esito dell’istruttoria sia positivo, si apre la seconda fase: il Consiglio dei Ministri procede senza indugio alla dichiarazione dello stato di emergenza, disponendo contestualmente lo stanziamento delle risorse indispensabili a garantire i soccorsi, l’assistenza alla popolazione e i primi interventi urgenti.

Segue, quindi, una fase successiva di ricognizione approfondita dell’impatto dell’evento, effettuata congiuntamente dal Dipartimento e dalla Regione interessata. Sulla base della relazione del Capo del Dipartimento, il Consiglio dei Ministri può autorizzare ulteriori risorse finanziarie attingendo al Fondo per le emergenze nazionali[34]. Tale meccanismo sequenziale, frutto dell’esperienza maturata nella gestione di precedenti calamità, consente di bilanciare la tempestività dell’intervento con la verifica effettiva dei danni e la proporzionalità della risposta pubblica.

La durata dello stato di emergenza è fissata in dodici mesi, prorogabili una sola volta per ulteriori dodici, entro un orizzonte temporale massimo di due anni (art. 24, comma 3)[35]. La scelta risponde all’esigenza di evitare il consolidarsi di situazioni emergenziali “permanenti”, riaffermando il principio secondo cui l’eccezione non può trasformarsi in regola. Il comma 5 dello stesso articolo conferma, inoltre, che la deliberazione dello stato di emergenza non è soggetta al controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti, ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 20 del 1994, in ragione della necessaria immediatezza dell’intervento.

Quanto alle procedure istruttorie propedeutiche alla deliberazione, il Codice rinvia a una Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 15), ridefinendo ruoli e adempimenti dei Presidenti di Regione, delle Province autonome e del Capo del Dipartimento della Protezione civile. In continuità con l’art. 1, c. 422, della Legge n. 147 del 2013, è inoltre previsto che, al termine dello stato di emergenza, le amministrazioni ordinariamente competenti subentrino nei rapporti attivi e passivi, nei procedimenti pendenti e nelle contabilità speciali. Tale disposizione, confermata anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 8 del 2016[36], realizza la transizione dall’eccezionalità all’ordinario, garantendo la continuità amministrativa e la responsabilità gestionale.

Da ultimo, il Codice prevede che, per gli eventi di rilievo non nazionale (art. 7, comma 1, lett. b)[37], le Regioni disciplinino, nei limiti della propria competenza legislativa, procedure analoghe a quelle stabilite per lo stato di emergenza nazionale, in attuazione del principio di sussidiarietà verticale.

Gli articoli 25, 26 e 27 del Codice delineano compiutamente la disciplina del potere di ordinanza in materia di protezione civile, distinguendone i profili organizzativi, funzionali e contabili. Le ordinanze costituiscono lo strumento operativo essenziale per l’attuazione degli interventi durante lo stato di emergenza: sono adottate dal Presidente del Consiglio dei Ministri, anche per il tramite del Capo del Dipartimento, d’intesa con le Regioni interessate, e possono derogare a disposizioni vigenti, purché in modo puntuale e motivato, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e del diritto dell’Unione europea.

Il contenuto delle ordinanze abbraccia un ampio spettro di materie: organizzazione e attuazione dei soccorsi e dell’assistenza alla popolazione; ripristino della funzionalità dei servizi pubblici e delle infrastrutture strategiche; gestione dei rifiuti e delle macerie, nonché interventi di natura temporanea volti a garantire la continuità amministrativa dei Comuni colpiti; misure di sostegno economico immediato alla popolazione e alle attività produttive danneggiate; opere per la riduzione del rischio residuo e per la tutela dell’incolumità pubblica e privata; ricognizione dei fabbisogni per la ricostruzione di strutture e infrastrutture, pubbliche e private, comprese quelle di interesse culturale e paesaggistico.

Le ordinanze non sono soggette al controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti; tuttavia, quando adottate oltre il trentesimo giorno dalla dichiarazione dello stato di emergenza, richiedono il concerto del Ministero dell’Economia e delle Finanze per i soli profili finanziari. Il Capo del Dipartimento della Protezione civile coordina l’attuazione delle ordinanze, avvalendosi delle componenti del Servizio nazionale e, ove necessario, di commissari delegati, autorizzati a operare fino alla chiusura delle contabilità speciali, ma in regime ordinario.

In chiave innovativa, il Codice introduce un sistema di monitoraggio e verifica dell’attuazione, anche finanziaria, delle misure previste nelle ordinanze, nonché delle ispezioni, da disciplinare con direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri.

L’articolo 26 disciplina la fase conclusiva dell’emergenza, prevedendo l’adozione delle cosiddette «ordinanze di chiusura», da emanare almeno trenta giorni prima della cessazione dello stato di emergenza. Tali atti sono destinati a governare il ritorno alla normalità e a garantire la continuità delle attività ancora in corso, evitando interruzioni o vuoti di responsabilità. Le ordinanze possono introdurre, per un periodo massimo di sei mesi non prorogabile, specifiche misure in deroga, sempre nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e del diritto dell’Unione europea. Le deroghe riguardano, in particolare, il completamento di lavori pubblici, la riduzione dei termini procedimentali o la rimodulazione dei piani di intervento, entro i limiti delle risorse disponibili.

In tal modo, il Codice disegna una chiusura ordinata del ciclo emergenziale: l’eccezione non rimane sospesa nel vuoto, ma trova una cornice di legalità; la deroga non è lasciata all’arbitrio, bensì vincolata a limiti e controlli; la transizione verso l’ordinario diviene parte integrante della gestione del rischio, restituendo equilibrio e continuità all’azione pubblica.

La protezione civile emerge, così, come funzione di garanzia, in cui la necessità non sospende il diritto, ma lo riadatta temporaneamente nel rispetto dei suoi principi fondamentali.

L’articolo 27 del Codice della protezione civile completa l’architettura del sistema emergenziale introducendo una disciplina organica delle procedure finanziarie e contabili connesse alla gestione dello stato di emergenza.

La norma, oltre a confermare la possibilità di aprire apposite contabilità speciali – già previste dalla prassi amministrativa – ne sistematizza l’utilizzo, definendo in modo puntuale gli obblighi di rendicontazione in capo ai commissari delegati e le modalità di impiego delle risorse pubbliche. Essa si configura come una disposizione di raccordo tra la fase operativa e quella gestionale, assicurando trasparenza, tracciabilità e correttezza amministrativo-contabile nell’utilizzo dei fondi destinati al superamento dell’emergenza. In tal senso, l’articolo richiama e coordina le norme concernenti il trasferimento delle risorse statali e, al contempo, autorizza l’afflusso di ulteriori risorse destinate a fronteggiare il contesto emergenziale: contributi regionali e locali, fondi europei – in particolare quelli provenienti dal Fondo di solidarietà dell’Unione europea[38] – nonché eventuali stanziamenti di soggetti pubblici o privati. Condizione imprescindibile per l’utilizzo di tali risorse è la tracciabilità dei flussi finanziari, che deve essere garantita mediante specifica previsione all’interno dell’ordinanza istitutiva della contabilità speciale.

L’impianto del nuovo art. 27 consolida così un principio di fondo: la straordinarietà dell’intervento non può tradursi in opacità contabile, ma deve rimanere saldamente ancorata ai criteri di responsabilità, pubblicità e controllo che presidiano l’azione amministrativa.

L’articolo 28 chiude idealmente il ciclo delle attività di protezione civile, segnando il passaggio dall’emergenza alla ripresa.

Esso disciplina le misure volte alla rimozione degli ostacoli al ritorno alle condizioni di normalità, regolando la fase di prima ricostruzione e di ristoro dei danni. Sulla base delle ricognizioni dei fabbisogni effettuate dai commissari delegati e trasmesse al Dipartimento della Protezione civile, il Consiglio dei Ministri, con apposite delibere, stabilisce le modalità di concessione di agevolazioni, contributi e forme di sostegno economico in favore di soggetti pubblici, privati e delle attività produttive colpite. Il legislatore ha delineato un modello di intervento fondato su criteri uniformi e proporzionati, che tengano conto della tipologia, dell’intensità e dell’estensione degli eventi calamitosi. Le misure di ristoro devono, dunque, adottare metodologie omogenee a livello nazionale, assicurando equità di trattamento e coerenza con il principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost. Particolare rilievo assume il meccanismo di integrazione assicurativa: i contributi pubblici concessi per la delocalizzazione, anche temporanea, o per la ricostruzione e il ripristino dei beni danneggiati sono riconosciuti nei limiti della differenza tra il danno effettivamente subito e le somme già indennizzate, prevedendo un’integrazione pari ai premi assicurativi versati nel quinquennio precedente l’evento.

La norma valorizza così una logica di corresponsabilità e prevenzione, premia i comportamenti virtuosi dei cittadini e favorisce la diffusione della copertura assicurativa contro i rischi catastali, in coerenza con quanto previsto dalle strategie europee di risk sharing[39].

 

Non meno importante è il principio di legalità edilizia, sancito dall’esclusione degli edifici abusivi distrutti o danneggiati dall’accesso alle misure di ristoro. Tale clausola, già presente nella legislazione di settore, riafferma che la solidarietà pubblica non può estendersi a situazioni giuridiche illegittime, traducendo in “norma di chiusura” il binomio etico-istituzionale di solidarietà e legalità.

Con gli artt. 27 e 28, il Codice conferisce compiutezza sistemica alla gestione dell’emergenza, delineandone un ciclo integrale e continuo: dall’attivazione tempestiva degli interventi alla loro rendicontazione, dalla gestione della spesa alla ricostruzione, dal soccorso immediato sino alla ripresa economica e sociale dei territori colpiti. Ne emerge un modello di protezione civile maturo, non solo reattivo ma capace di accompagnare la comunità nel processo di rinascita. In questa prospettiva, la gestione del rischio si traduce in un esercizio di buona amministrazione e di responsabilità condivisa, in cui efficienza e solidarietà si intrecciano entro un disegno unitario di tutela e ricostruzione.

 

  1. Il Prefetto nel sistema di protezione civile: continuità istituzionale, oscillazioni normative e ruolo di “cerniera”

Il Prefetto, quale rappresentante del Governo sul territorio e Autorità Provinciale di Pubblica sicurezza, ha storicamente occupato – pur tra fisiologiche oscillazioni normative – una posizione di vertice nell’architettura della protezione civile. In questa prospettiva, quale ultimo passaggio metodologico volto ad affinare la comprensione sistemica del quadro già ricostruito, è opportuno ripercorrere, in forma essenziale, l’evoluzione legislativa delle attribuzioni prefettizie in materia.

Ancor prima dell’introduzione di specifiche disposizioni sulla protezione civile, i Prefetti, in forza delle attribuzioni di tutela della pubblica sicurezza e, dunque, dell’incolumità delle persone, hanno storicamente assicurato in ambito provinciale le attività di gestione dell’emergenza. La Legge 8 dicembre 1970, n. 996[40] traccia il primo riconoscimento formale: essa attribuisce al Ministero dell’Interno i compiti di soccorso e assistenza alle popolazioni colpite da calamità. Nel regolamento di esecuzione[41] della medesima Legge il Prefetto è, per la prima volta, definito «organo ordinario di protezione civile», con l’affidamento espresso di compiti gestionali in emergenza.

Il salto di qualità si compie con la Legge 24 febbraio 1992, n. 225, istitutiva del Servizio nazionale: l’art. 14 individua nel Prefetto il perno del sistema, tanto sul piano provinciale quanto su quello nazionale, attribuendogli funzioni operative, di coordinamento, di pianificazione e di raccordo interistituzionale. In sintesi, la legge colloca il Prefetto al centro della protezione civile in ragione del tradizionale ruolo di cerniera tra centro e periferia; della capacità di attivare sul territorio le forze statali, con particolare riguardo al Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, componente fondamentale del Servizio nazionale; della facoltà di impiego di strumenti straordinari, assicurando la prontezza della risposta all’evento calamitoso. Su tale impianto si innesta il processo di riforma istituzionale di fine anni Novanta e dei primi anni Duemila: la devoluzione di funzioni agli Enti territoriali, unitamente alla riforma del Titolo V (L. Cost. n. 3/2001), conduce la protezione civile nell’alveo della legislazione concorrente. Ne discende un rafforzamento delle responsabilità di Regioni ed Enti locali in ordine alla prevenzione dei rischi sul territorio regionale, in coerenza con la disciplina del governo del territorio; al soccorso e alla pianificazione dell’emergenza per gli eventi di tipo A) e B); agli interventi di ripristino della normalità, che, in linea con la prevenzione, ricadono nella competenza regionale.

Nel medesimo contesto, il D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112[42] attribuisce alle Province la competenza – sino ad allora prefettizia – alla predisposizione dei Piani provinciali di protezione civile[43]. Prima di tale intervento, le Province esercitavano prevalentemente una funzione di programmazione preventiva e previsionale, che costituiva un prius logico nel processo di pianificazione dell’emergenza.

A distanza di tre anni, pressoché in coincidenza con la riforma costituzionale, il D.L. 7 settembre 2001, n. 343, conv. in L. 9 novembre 2001, n. 401, all’art. 5, c. 4[44], richiama espressamente l’art. 14 della Legge n. 225/1992[45]. La disposizione – che affida al Presidente del Consiglio, o al Ministro dell’Interno delegato[46], l’avvalimento del Dipartimento della Protezione civile per esercitazioni periodiche, informazione alle popolazioni, prime attività tecnico-operative in concorso con le Regioni e in raccordo con i Prefetti e i Comitati provinciali – è stata letta, nella prassi, nel senso di confermare al Prefetto il compito di assicurare il concorso dello Stato e delle sue strutture periferiche nell’attuazione degli interventi urgenti, attivando i mezzi e i poteri statali e assumendo iniziative straordinarie per i primi soccorsi, fino all’adozione delle ordinanze ex art. 5 della Legge n. 225/1992 (poi sostituite dal Codice). Una parte della dottrina, muovendo da una diversa prospettiva interpretativa, ha ritenuto che tale richiamo avesse la funzione di confermare in modo pieno e continuativo l’insieme delle attribuzioni prefettizie quali Autorità Provinciale di Protezione civile, comprendendo anche la competenza alla predisposizione e all’attuazione dei piani operativi.

A valle di tale percorso, già prima del Codice si era consolidato (nella prassi e nella dottrina) un nucleo di attribuzioni prefettizie: il Prefetto quale componente essenziale del Servizio nazionale di protezione civile; la capacità di attivare, in qualunque tipologia di evento, le forze statali – in primis il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco e le Forze dell’Ordine – assicurando l’avvio tempestivo dei primi soccorsi e l’adozione dei provvedimenti urgenti a tutela di persone, beni e ambiente; il ruolo di cerniera, nel segno della leale collaborazione, che garantisce l’unità della presenza dello Stato sul territorio in un sistema che richiede il concorso coordinato di più componenti. Sul punto, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito – a fronte di leggi regionali volte a disporre direttamente dell’impiego di strutture statali – che gli Enti territoriali non possono utilizzare autonomamente le strutture nazionali[47]. Le forme di collaborazione e di coordinamento che coinvolgono compiti e attribuzioni di organi statali non sono, infatti, unilateralmente disciplinabili dalle Regioni: richiedono un fondamento in leggi statali che le prevedano o le consentano, ovvero in accordi tra gli enti interessati.

Ne discende, in definitiva, la fisionomia del Prefetto quale garante dell’unità dell’intervento pubblico in emergenza: un presidio di legalità ed efficienza che tiene insieme la prossimità territoriale e la coerenza dell’azione statale.

 

  1. Conclusioni

La riforma del Codice della protezione civile segna un passaggio culturale prima ancora che normativo: da apparato reattivo, spesso evocato solo nei momenti critici, il sistema viene oggi riconfigurato come una vera e propria funzione di garanzia dell’ordinamento. Non più una risposta straordinaria scollegata dal diritto, ma una stagione amministrativa coerente, in cui l’eccezione è disciplinata secondo una “grammatica” procedurale chiara e verificabile – dichiarazione dello stato di emergenza, attivazione di deroghe mirate, rendicontazione delle risorse, ricostruzione e ritorno all’ordinario. L’emergenza, dunque, non si configura più come una sospensione della legalità, ma come una parentesi giuridicamente strutturata, in cui tempi, poteri e responsabilità si muovono entro confini determinati, fino alla fase finale di rendicontazione e alla chiusura formale dello stato emergenziale. In tal modo, l’ordinamento riafferma la propria capacità di presidiare anche i momenti di crisi, evitando che la deroga si trasformi in regola e garantendo un ritorno programmato alla normalità istituzionale.

La legalità dell’eccezione diviene, in questa prospettiva, il vero banco di prova della civiltà giuridica. Il potere di ordinanza non sostituisce la legge. Ne consente un adattamento temporaneo alla crisi, entro confini chiari e controllabili; vive di temporaneità, di puntuale motivazione e di controllo giurisdizionale, con piena legittimazione solo quando è accompagnato da trasparenza, proporzionalità e verifiche sull’efficacia delle misure adottate. Anche nel culmine dell’emergenza, l’ordinamento riafferma così il primato della giustiziabilità e della tracciabilità dell’azione amministrativa, impedendo che la deroga si cristallizzi in regola. Su tale base si innesta una concezione matura della sicurezza come bene relazionale[48]: la resilienza non è un riflesso spontaneo della società ma un risultato costruito dall’amministrazione, progettato attraverso la pianificazione, alimentato dalla partecipazione, valutato mediante procedure uniformi e verifiche ex post. Nella stessa logica, il Codice valorizza la dimensione comunitaria: i cittadini e il volontariato non sono più solo interlocutori consultivi, ma parti vive del processo decisionale. La prevenzione assume così un valore strutturale, non più meramente programmatico, divenendo fondamento di un modello di sicurezza condiviso, consapevole e duraturo.

La tenuta del sistema dipende, però, dalla qualità del raccordo istituzionale. In questo senso, la Prefettura riafferma la propria funzione di trait d’union tra centro e territori: presidio di legalità unitaria e, al contempo, piattaforma operativa che rende progressiva la risposta, soprattutto nei contesti a più bassa capacità amministrativa. L’architettura a rete – Prefetti, Regioni, Comuni, strutture operative – riduce le ambiguità del passato e rende esigibili cooperazione e responsabilità, pur lasciando aperta la sfida del rafforzamento dei segmenti più deboli della catena. Ne deriva una vera e propria consegna, tanto per il decisore politico quanto per gli apparati amministrativi: investire in una pianificazione realmente partecipata e in valutazioni d’impatto fondate su criteri verificabili; garantire al cittadino la piena trasparenza dell’intero ciclo delle risorse, dal primo stanziamento alla ricostruzione; rafforzare, infine, presso i Prefetti, strumenti permanenti di interoperabilità informativa e di coordinamento interistituzionale. È in questa sintesi tra tecnica e garanzia, tra potere e controllo, che la protezione civile si afferma come laboratorio di buona amministrazione: un’amministrazione capace non solo di reggere la prova dell’eccezione, ma di trasformarla in occasione di lesson learned istituzionale, costruendo una normalità più sicura, più giusta e più prevedibile di quella che l’ha preceduta.

 

 Bibliografia

 

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  • L. 30 dicembre 2019, n. 162 “Disposizioni urgenti in materia di proroga di termini legislativi, di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nonché di innovazione tecnologica” convertito, con modificazioni, dalla L. 28 febbraio 2020, n. 8
  • L. 14 agosto 2020, n. 104 “Misure urgenti per il sostegno e il rilancio dell’economia” convertito, con modificazioni, dalla L. 13 ottobre 2020, n. 126
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  • Corte cost., 7 maggio 2004, n. 134

 

Sitografia

 

 

* Ufficiale dell’Arma dei Carabinieri

[1] Cfr. Meoli C.., La protezione civile, in Cassese S., Trattato di Diritto Amministrativo, Seconda edizione, Giuffré Francis Lefebvre, 2003 e Morbidelli G., La protezione civile nell’intreccio delle fonti normative. Riflessi sulla forma di governo, in Ferroni G.C., Morisi M., Il governo delle nuove emergenze. La Protezione civile in tempo di Covid, il Mulino, Bologna, 2023

[2] La Corte costituzionale ha chiarito che la disciplina in materia non è riconducibile in via esclusiva né al settore della sicurezza né a quello dell’organizzazione amministrativa, richiedendo piuttosto un bilanciamento tra esigenza di tutela dell’ordine pubblico e garanzie dei diritti fondamentali della persona. In tal senso, è stato affermato che gli interventi adottati devono coniugare la salvaguardia della sicurezza collettiva con il rispetto dei valori costituzionali primari (5 aprile 1995, n. 127; 7 aprile 2011, n. 115). La giurisprudenza successiva ha qualificato la protezione civile come una funzione pubblica complessa e multilivello, connotata da una competenza concorrente a prevalenza statale, nella quale l’unità dell’indirizzo e del coordinamento nazionale si armonizza con l’autonomia territoriale, in attuazione dei principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale collaborazione. La Corte sottolinea come tale materia, pur strutturandosi su una rete di competenze diffuse, esiga una direzione unitaria dello Stato nei casi di emergenza, al fine di assicurare certezza giuridica, tempestività decisionale ed effettività dell’azione pubblica. In questa prospettiva, la protezione civile si configura quale spazio di cooperazione istituzionale, volto a coniugare la pluralità dei livelli di governo con l’esigenza di una risposta integrata e coordinata alle crisi che coinvolgono la collettività nazionale (30 ottobre 2003, n. 327; 23 dicembre 2019, n. 286; 17 febbraio 2021, n. 22)

[3] Santoianni F., Protezione civile. La pianificazione e la gestione dell’emergenza nelle aree urbane, R. Noccioli, 1993

[4] AA.VV., La Protezione civile nella società del rischio. Comunicazione del rischio, sicurezza dei cittadini e responsabilità penale. Ambizioni, limiti e prospettive, Dipartimento della Protezione Civile e Fondazione Cima, Edizioni ETS, 2022 e Beck U., La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci Editore, Roma, 2000

[5] Cfr. https://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0078_giupponi.pdf. Consultato il 05/10/2025. Per ulteriori approfondimenti, Giupponi T.F., Le dimensioni costituzionali della sicurezza, Bonomo Editrice, Bologna, 2010

[6] L’art. 2 della Costituzione non si limita a enunciare i diritti inviolabili dell’uomo, ma li integra in un equilibrio dinamico con i doveri inderogabili di solidarietà, espressione della partecipazione responsabile di ciascuno alla vita della comunità. Tale disposizione, nelle sue dimensioni politica, economica e sociale, delinea il principio di coesione e corresponsabilità collettiva su cui si fonda l’intero ordinamento repubblicano

[7] L’art. 32 della Costituzione riconosce la salute quale diritto fondamentale dell’individuo e, al contempo, interesse della collettività, ponendola al crocevia tra tutela personale e responsabilità pubblica. La norma garantisce prestazioni gratuite agli indigenti, affermando un principio di eguaglianza sostanziale nell’accesso alle cure. Ogni trattamento sanitario, pur subordinato a una previsione di legge, trova il suo limite invalicabile nel rispetto della dignità e dell’integrità della persona umana, valori che costituiscono l’architrave etica dello Stato costituzionale

[8] Si vedano – in particolare – gli artt. 2, 3 e 7 del D.Lgs. 1/2018, che delineano la fisionomia del Servizio nazionale della protezione civile, specificandone la struttura, le componenti e le modalità di coordinamento operativo; nonché il Regolamento (UE) 2021/836, con il quale è stato istituito il Meccanismo unionale di protezione civile, volto a promuovere una risposta solidale e integrata tra gli Stati membri nelle situazioni di emergenza

[9] L’art. 1 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773 “Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” (T.U.L.P.S.), annovera, tra le attribuzioni dell’Autorità di Pubblica Sicurezza, anche il dovere di prestare soccorso in occasione di infortuni pubblici o privati, riconoscendo così la dimensione solidale e di protezione immediata insita nella funzione di pubblica sicurezza, intesa non solo come prevenzione dei pericoli, ma anche come tutela attiva dell’incolumità e dell’assistenza alla popolazione

[10] Mascambruno M.C., Il Prefetto. Funzioni di rappresentanza, di coordinamento e poteri di polizia, Volume 2, Giuffré Francis Lefebvre, 1992

[11] L. 8 dicembre 1970, n. 996 “Norme sul soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità”

[12] Meoli C., Protezione civile, Digesto delle Discipline Pubblicistiche, Volume XII, 1997. CfrCapozzi S., Calamità pubbliche, Enciclopedia Giuridica Treccani, 1988 e Meoli C., Calamità pubblica, Digesto delle Discipline Pubblicistiche, Torino, 1987

[13] L. 24 febbraio 1992, n. 225, cit. Il testo è stato abrogato dall’art. 48, comma 1, lett. a), del D.Lgs. 2 gennaio 2018, n. 1, recante “Codice della protezione civile”. Ai sensi dell’art. 47, comma 1, del medesimo Decreto, ogni richiamo alla Legge n. 225/1992 contenuto in altre disposizioni deve intendersi riferito al nuovo Codice, che ne ha assorbito integralmente la disciplina, dando vita a un sistema unitario e codificato delle funzioni e delle strutture del Servizio nazionale della protezione civile

[14] L. 15 marzo 1997, n. 59 “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa”

[15] D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59”

[16] Assumono particolare rilievo la classificazione degli eventi calamitosi, le attività di protezione civile, la dichiarazione dello stato di emergenza e l’esercizio del potere d’ordinanza. La normativa ha progressivamente ridefinito la fase iniziale dell’emergenza, valorizzando il fattore tempo quale elemento determinante per l’efficacia dell’intervento pubblico e per la salvaguardia del principio di legalità. Ne discende che gli strumenti e i poteri straordinari destinati alla gestione delle calamità devono essere impiegati entro limiti temporali rigorosamente predeterminati, evitando che l’eccezione si traduca in regola e preservando, così, l’equilibrio tra necessità e diritto

[17] Gandini F., La protezione civile. Profili costituzionali e amministrativi, riflessi penali, Giuffré Francis Lefebvre, Milano, 2007

[18] Con la Legge 16 marzo 2017, n. 30, recante “Delega al Governo per il riordino delle disposizioni legislative in materia di sistema nazionale della protezione civile”, il Parlamento ha conferito al Governo una delega legislativa finalizzata all’adozione di Decreti Legislativi diretti alla ricognizione, al riordino, al coordinamento e, ove necessario, alla modifica e integrazione della normativa vigente concernente il Servizio nazionale della protezione civile e le funzioni ad esso attribuite (art. 1, comma 1). La disposizione ha segnato un passaggio di rilievo nel processo di sistematizzazione e modernizzazione della materia, ponendo le basi per un quadro normativo organico e coerente con la dimensione multilivello della governance delle emergenze

[19] Il Servizio nazionale della protezione civile si qualifica come un sistema di pubblica utilità incaricato di esercitare la funzione di protezione civile, intesa quale complesso coordinato di competenze e attività rivolte alla tutela della vita, dell’integrità fisica, dei beni, degli insediamenti, degli animali e dell’ambiente da danni (o dal pericolo di danni) derivanti da eventi calamitosi, siano essi di origine naturale o connessi all’attività umana. La norma valorizza una visione estensiva e integrata della funzione, che travalica la mera gestione dell’emergenza per configurarsi come strumento permanente di sicurezza collettiva e prevenzione sistemica (art. 1, D.Lgs. n. 1/2018)

[20] Nel linguaggio giuridico-amministrativo, la security rappresenta la sicurezza in senso soggettivo, volta alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini contro minacce intenzionali o dolose, quali atti criminali, terroristici o di turbativa della convivenza civile. Essa trova fondamento nell’art. 1 del T.U.L.P.S. (R.D. 18 giugno 1931, n. 773) e nelle attribuzioni del Ministero dell’Interno, configurandosi come funzione pubblica primaria, esercitata attraverso attività di prevenzione, informazione e controllo da parte delle Forze di Polizia, in attuazione del principio di coordinamento unitario dell’Autorità di Pubblica Sicurezza

[21] In ambito di diritto amministrativo e di legislazione di pubblica sicurezza, il termine indica la sicurezza intesa in senso oggettivo, riferita alla prevenzione dei rischi accidentali e alla protezione dell’incolumità pubblica e privata da eventi lesivi non dolosi, derivanti da fattori naturali, tecnologici o organizzativi. Essa si concretizza nell’adozione di misure amministrative di prevenzione, vigilanza e controllo, poste in essere da autorità pubbliche e soggetti privati, nel rispetto dei principi di precauzione, proporzionalità e responsabilità amministrativa

[22] Cfr. Cons. Stato, Ad. 19 dicembre 2017. Essa mette in luce una riforma di sistema, non mero riordino, orientata a superare la logica emergenziale e a delineare la protezione civile come funzione pubblica unitaria e permanente. Il Consiglio sottolineò la necessità di un equilibrio tra indirizzo statale e competenze territoriali, la centralità del Dipartimento nazionale e la valorizzazione del principio di sussidiarietà, configurando il nuovo Codice come strumento di governo dell’unità repubblicana nella gestione del rischio e della crisi

[23] Si pensi all’art. 1, comma 3, D.Lgs. n. 1/2018

[24] La previsione, per la prima volta, del soccorso e dell’assistenza agli animali coinvolti in eventi calamitosi segna un’evoluzione di rilievo nel sistema della protezione civile, ponendosi in linea con i principi sanciti dall’art. 13 del Trattato di Lisbona, che riconosce agli animali la qualità di esseri senzienti e impone alle istituzioni l’obbligo di tener conto del loro benessere nell’attuazione delle politiche pubbliche. Tale innovazione riflette un approccio integrato e antropocentrico-solidale alla gestione delle emergenze, in cui la tutela della vita, umana e animale, concorre alla protezione complessiva dell’ambiente e della collettività

[25] L’art. 18, comma 2, del Codice della protezione civile prevede la partecipazione dei cittadini, singoli o associati, al procedimento di formazione della pianificazione di protezione civile, secondo modalità stabilite dalla direttiva di cui al comma 4, volte ad assicurare adeguati livelli di trasparenza e condivisione pubblica. La disposizione valorizza il principio di amministrazione partecipata, riconoscendo nella collaborazione tra istituzioni e comunità un elemento essenziale per la costruzione di un sistema di protezione civile democratico, inclusivo e orientato alla prevenzione

[26] Cfr. art. 6, comma 1, lett. b), n. 1 e 2, del D.Lgs. 6 febbraio 2020, n. 4, che ha modificato l’attuale comma 3, sostituendo il riferimento al livello «comunale o di ambito» con quello all’«organizzazione dei presidi territoriali», in coerenza con il modello di cooperazione a rete delineato dagli artt. 9-13 del Codice della protezione civile. La novella recepisce una logica di integrazione funzionale e territoriale, volta a rafforzare la connessione tra i diversi livelli istituzionali e a garantire una risposta coordinata e policentrica nella gestione delle emergenze

[27] Nella disciplina previgente, lo stato di emergenza poteva essere dichiarato per una durata massima di sei mesi, con la facoltà di proroga per un ulteriore periodo di pari entità, configurandosi così un meccanismo temporale flessibile ma limitato, volto a preservare il carattere eccezionale e transitorio dei poteri straordinari riconosciuti all’Autorità di Protezione civile

[28] Il concetto di community resilience trova le sue origini nella letteratura anglosassone sulla gestione delle emergenze e sul disaster risk management, dove indica la capacità di una comunità di anticipare, assorbire, adattarsi e riprendersi da eventi traumatici di origine naturale o antropica, senza perdere a propria funzionalità essenziale. In tale prospettiva, la resilienza non si riduce a un attributo tecnico dei sistemi di risposta, ma si configura come una qualità sociale (United Nations Office for Disaster Risk Reduction, Sendai Framework for Disaster Risk Reduction, 2015-2030)

[29] Il concetto di civil protection engagement nasce nell’esperienza britannica e statunitense, dove la protezione civile si è sviluppata come spazio di cooperazione civico-istituzionale tra autorità pubbliche e società organizzata. In tale quadro, l’engagement non si esaurisce nella mera partecipazione formale, ma esprime un coinvolgimento attivo e continuativo del tessuto civile nella prevenzione, nella preparazione e nella risposta alle crisi. Si tratta di un modello che attribuisce valore giuridico alla partecipazione comunitaria come risorsa di sicurezza collettiva (UK Public General Acts, Civil Contingencies Act, 2004)

[30] Giannini M.S., Diritto amministrativo, Volume II, Giuffrè, Milano, 1988

[31] Cfr. art. 7 del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo (Codice del processo amministrativo), che attribuisce alla giurisdizione amministrativa le controversie concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, anche quando questo si esprima mediante atti atipici o extra ordinem, quali le ordinanze di protezione civile. Solo un’interpretazione restrittiva della disposizione, conforme agli artt. 24 e 113 Cost., consente di garantire la piena tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, evitando che la natura eccezionale degli atti emergenziali si traduca in un vulnus al diritto di difesa e ai principi di legalità e giustiziabilità dell’azione amministrativa

[32] Il sindacato giurisdizionale sulle ordinanze di protezione civile rientra, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. p), del Codice del processo amministrativo, nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quanto attiene all’esercizio di poteri pubblici straordinari connessi alla gestione dell’emergenza. Tali controversie sono, inoltre, comprese tra quelle soggette al rito abbreviato, previsto dall’art. 119 c.p.a., il cui comma 1, lett. h) dispone che “le disposizioni di cui al presente articolo si applicano nei giudizi aventi ad oggetto le controversie relative a […] ordinanze adottate in tutte le situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell’articolo 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225, e ai conseguenziali provvedimenti commissariali”. Il riferimento alla citata Legge n. 225/1992 deve oggi intendersi rivolto agli artt. 24, 25 e 26 del D.Lgs. 2 gennaio 2018, n. 1, in virtù di quanto stabilito dall’art. 47, comma 1, lett. i), del medesimo decreto, che ha ricondotto la disciplina previgente nel Codice della protezione civile, garantendo così la continuità sistematica e processuale del quadro normativo

[33] Per ulteriori approfondimenti circa il potere di ordinanza nel sistema giuridico italiano, si rimanda a Punzi M., Il tempo dell’eccezione: la gestione della sicurezza tra legalità e poteri straordinari, Il Diritto Amministrativo, 2025

[34] Il comma 8 introduce una disciplina specifica per le deliberazioni relative agli episodi di inquinamento marino-costiero, prevedendo il necessario concerto con il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, in coerenza con quanto disposto dall’art. 11 della Legge 31 dicembre 1982, n. 979, e dal Piano nazionale di pronto intervento per la difesa del mare da inquinamenti da idrocarburi o altre sostanze nocive derivanti da incidenti marini. La disposizione mira a garantire un coordinamento tecnico-operativo unitario tra autorità ambientali e sistema di protezione civile, assicurando tempestività d’intervento e tutela integrata dell’ecosistema marino-costiero

[35] Al riguardo, in deroga a quanto disposto dal comma 3 dell’art. 24 del Codice della protezione civile, cfr. art. 1, comma 4-bis, del D.L. 17 ottobre 2016, n. 189, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 dicembre 2016, n. 229, come successivamente modificato dall’art. 1, comma 1, del D.L. 29 maggio 2018, n. 55, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 luglio 2018, n. 89; dall’art. 15, comma 1, del D.L. 30 dicembre 2019, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 febbraio 2020, n. 8; nonché dall’art. 57, comma 8, del D.L. 14 agosto 2020, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla L. 13 ottobre 2020, n. 126, e, da ultimo, dall’art. 1, comma 1, del D.L. 7 ottobre 2020, n. 125, convertito, con modificazioni, dalla L. 27 novembre 2020, n. 159. Tali interventi normativi, emanati in via eccezionale e derogatoria, hanno consentito la proroga e l’adattamento dei poteri emergenziali, al fine di garantire la continuità amministrativa e operativa nella gestione degli eventi calamitosi di particolare gravità

[36] La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni in materia di stato di emergenza e poteri commissariali, ribadendo che, anche in situazioni eccezionali, l’esercizio dei poteri straordinari deve rispettare i principi di legalità, proporzionalità e temporaneità, non potendo incidere in modo stabile sull’assetto delle competenze costituzionalmente garantite. La decisione riafferma la necessità di un equilibrio tra esigenze emergenziali e tutela dell’ordine costituzionale delle fonti, ponendo limiti alla deroga come strumento di governo dell’emergenza

[37] Si fa con ciò riferimento alle emergenze connesse ad eventi calamitosi, sia di origine naturale sia riconducibili all’attività dell’uomo che, per natura o estensione, richiedono l’intervento coordinato di più enti o amministrazioni. Tali eventi devono essere fronteggiati mediante l’impiego di mezzi e poteri straordinari, da esercitarsi entro limiti temporali rigorosamente predeterminati, secondo quanto disciplinato dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano nell’esercizio della rispettiva potestà legislativa, nel rispetto dei principi di leale collaborazione e proporzionalità

[38] https://eur-lex.europa.eu/IT/legal-content/summary/the-european-union-solidarity-fund.html. Consultato il 15 ottobre 2025. In particolare, il Regolamento (CE) n. 2012/2002 del Consiglio, istituisce il Fondo di solidarietà dell’Unione europea (FSUE) che offre un aiuto finanziario ai Paesi dell’Unione europea colpiti da catastrofi naturali

[39] Il risk sharing esprime il principio della condivisione del rischio tra soggetti pubblici e privati, attraverso strumenti di mutualizzazione e ripartizione delle perdite derivanti da eventi calamitosi. Tale approccio, promosso anche in sede europea, mira a ridurre l’esposizione finanziaria dello Stato, incentivando la partecipazione responsabile dei cittadini e del mercato assicurativo nella gestione del rischio, secondo una logica di prevenzione, sostenibilità e solidarietà economica

[40] L. 996/1970, cit.

[41] D.P.R. 6 febbraio 1981, n. 66 “Regolamento di esecuzione della legge 8 dicembre 1970, n. 996, recante norme sul soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità”

[42] D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59”

[43] Il Piano provinciale di protezione civile si configura come un dispositivo strategico e operativo, volto a tradurre in prassi coordinata la complessità della gestione dell’emergenza. Non è un mero repertorio tecnico, ma un documento dinamico che, muovendo da un’attenta analisi del territorio, mira a ottimizzare le risorse disponibili e a delineare con chiarezza le azioni da adottare tanto in condizioni ordinarie quanto in situazioni di crisi. La sua architettura si articola in due dimensioni complementari: la prima, conoscitiva, dedicata alla ricognizione dei rischi e alle attività di prevenzione; la seconda, organizzativa, incentrata sulla definizione delle procedure e delle strutture deputate al coordinamento degli interventi di soccorso. In tal senso, il Piano assurge a strumento di direzione e di sintesi istituzionale, capace di restituire unità d’indirizzo e continuità decisionale al sistema provinciale di protezione civile, coniugando previsione, prontezza operativa e capacità di resilienza collettiva

[44] D.L. 7 settembre 2001, n. 343 “Disposizioni urgenti per assicurare il coordinamento operativo delle strutture preposte alle attività di protezione civile” convertito, con modificazioni, in L. 9 novembre 2001, n. 401. Ai sensi dell’art. 5, comma 4, il Presidente del Consiglio dei Ministri, ovvero il Ministro da lui delegato, si avvale del Dipartimento della Protezione Civile per lo svolgimento delle attività previste, attribuendogli anche il compito di promuovere periodiche esercitazioni, in intesa con le Regioni e gli Enti locali, al fine di garantire la prontezza operativa, la coordinazione interistituzionale e la verifica dell’efficacia dei Piani di emergenza

[45] L’art. 14 della Legge 24 febbraio 1992, n. 225 attribuisce al Prefetto un ruolo centrale nel sistema di protezione civile, quale autorità provinciale di coordinamento. Egli predispone il Piano d’emergenza provinciale, ne cura l’attuazione e, in caso di eventi calamitosi di rilievo, assicura la direzione unitaria dei servizi di soccorso, coordinando gli interventi dei Sindaci e disponendo i provvedimenti necessari per i primi aiuti. A seguito della dichiarazione dello stato di emergenza, il Prefetto opera come delegato del Presidente del Consiglio dei Ministri (o del Ministro competente), esercitando i poteri straordinari previsti dall’art. 5. Per l’organizzazione e l’attuazione dei servizi di emergenza si avvale della struttura della Prefettura e della collaborazione degli Enti territoriali e istituzionali coinvolti

[46] I riferimenti al Ministro dell’Interno sono stati successivamente abrogati dall’art. 4 del D.L. 31 maggio 2005, n. 90 “Disposizioni urgenti in materia di protezione civile” convertito, con modificazioni, dalla L. 26 luglio 2005, n. 152, segnando così il trasferimento delle funzioni di indirizzo e coordinamento al Presidente del Consiglio dei Ministri, quale Autorità Nazionale di riferimento in materia di Protezione civile

[47] La Corte costituzionale, con sentenza 7 maggio 2004, n. 134, ha chiarito che le competenze in materia di protezione civile hanno natura trasversale e composita, in quanto coinvolgono interessi tanto statali quanto regionali. Pur riconoscendo alle Regioni una competenza legislativa concorrente ai sensi dell’art. 117, comma 3, Cost., essa ha ribadito che allo Stato spetta la determinazione dei principi fondamentali e la direzione unitaria degli interventi nei casi di eventi di rilievo nazionale, così da assicurare un coordinamento effettivo e una gestione coerente e tempestiva delle emergenze

[48] https://www.labsus.org/2016/02/la-vera-sicurezza-e-un-bene-relazionale-fondato-sul-rafforzamento-dei-legami-comunitari/. Consultato il 23 ottobre 2025

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