Tratto da: Lavori Pubblici
Una SCIA alternativa al permesso di costruire può essere utilizzata per interventi di demolizione e ricostruzione con ampliamento? La disciplina della ristrutturazione edilizia introdotta dal D.L. n. 76/2020 (Decreto Semplificazioni) consente davvero di qualificare come ristrutturazione ciò che, di fatto, appare come una nuova costruzione? E ancora, il Comune può dichiarare improcedibile la dichiarazione di efficacia di una SCIA alternativa a permesso di costruire quando ritiene che l’intervento non rientri nel perimetro della ristrutturazione?
Sono domande a cui, guarda caso, risponde il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia che, con la sentenza n. 2757 del 23 luglio 2025, ha risposto ad un ricorso presentato per l’annullamento di un provvedimento del Comune di Milano che aveva dichiarato improcedibile una dichiarazione di efficacia di una SCIA alternativa a permesso di costruire – art. 23, d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) – presentata per avviare un intervento di:
- demolizione di un immobile di due piani fuori terra suddiviso in due unità immobiliari autonome di cui la prima, al piano terra, ad uso autorimessa e la seconda, al piano primo, ad uso residenziale;
- e ricostruzione al suo posto di una palazzina ad uso residenziale di cinque piani fuori terra, oltre il piano interrato, composta da otto appartamenti e da sette posti auto pertinenziali.
Il privato aveva qualificato tale intervento come “ristrutturazione edilizia”, sostenendo che la disciplina introdotta dal D.L. 76/2020 consentisse demolizioni e ricostruzioni con diversa sagoma e caratteristiche. Il Comune, invece, aveva ricondotto l’intervento nell’ambito della nuova costruzione, non consentita in base agli indici del Piano di Governo del Territorio. In particolare, secondo il Comune, considerato che l’intervento non potrebbe essere qualificato come intervento di ristrutturazione edilizia ma dovrebbe essere qualificato come nuova costruzione, non risulterebbe rispettato il parametro relativo alla superficie coperta previsto dall’art. 21, comma nono, lettera b), della NA del Piano delle Regole del PGT che, per le nuove costruzioni, deve essere inferiore al 60% della superficie fondiaria.
Il nodo della questione, dunque, è relativo alla qualificazione dell’intervento di demolizione e ricostruzione come “ristrutturazione edilizia” o “nuova costruzione”.
Dinanzi al TAR Lombardia, il ricorrente (una società) contesta:
- che il Comune abbia fondato il provvedimento non sull’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001, ma su una disposizione di servizio interna. Secondo la tesi difensiva, un atto dirigenziale non può modificare né la normativa primaria né le previsioni del PGT. Inoltre, tale disposizione sarebbe stata adottata per adeguarsi a un’interpretazione penalistica contestata dallo stesso Comune, con conseguente vizio di eccesso di potere per sviamento;
- che la nuova versione dell’art. 3, lett. d), del TUE, nella versione modificata dal D.L. 76/2020, avrebbe ampliato la nozione di ristrutturazione edilizia fino a ricomprendere anche demolizioni e ricostruzioni con caratteristiche diverse dal preesistente. Da qui la convinzione che l’intervento proposto con SCIA fosse pienamente legittimo, tanto più che la nuova costruzione avrebbe comportato una superficie coperta inferiore a quella dell’edificio demolito;
- che la lettura restrittiva adottata dal Comune sia fondata su precedenti giurisprudenziali in larga parte anteriori alla riforma del 2020. A suo dire, anche ammettendo quella tesi, l’intervento avrebbe comunque mantenuto elementi di continuità con l’edificio originario, almeno sotto il profilo funzionale e residenziale, e avrebbe quindi dovuto essere assentito come ristrutturazione edilizia.
Preliminarmente, il TAR Lombardia ha ribadito che la SCIA non instaura un procedimento amministrativo ordinario, ma rappresenta una dichiarazione del privato che trova fondamento diretto nella legge, per cui non si applica il preavviso di rigetto ai sensi dell’art. 10-bis della Legge n. 241/1990.
Entrando nei motivi del ricorso, i giudici di primo grado hanno confermato che la disciplina introdotta dal D.L. n. 76/2020 ha certamente ampliato il concetto di ristrutturazione edilizia, ammettendo demolizioni e ricostruzioni con diversa sagoma, sedime, prospetti e caratteristiche tipologiche ma anche che resti necessario che vi sia una certa continuità urbanistica con l’edificio preesistente. Quando il nuovo manufatto comporta un salto dimensionale e funzionale, con aumento del carico urbanistico, si entra nell’ambito della nuova costruzione.
In questo senso, il TAR ha richiamato anche orientamenti giurisprudenziali formatisi in epoca precedente al 2020, fondando su questi il ragionamento che porta a qualificare l’intervento contestato come nuova costruzione e non come ristrutturazione.
Il nodo interpretativo ruota attorno all’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001. Prima della modifica del 2020, la ristrutturazione edilizia per demolizione e ricostruzione era ammessa solo a condizione di rispettare la volumetria preesistente (e, in alcuni casi, anche la sagoma). Il D.L. 76/2020 ha esteso l’ambito applicativo, consentendo la ricostruzione con caratteristiche anche molto diverse, purché resti accertabile la consistenza originaria.
La questione è che questa apertura non elimina la necessità di distinguere tra interventi che mantengono un legame con l’edificio precedente e nuove costruzioni che generano un carico urbanistico del tutto differente.
Sul piano procedimentale, la SCIA alternativa è disciplinata dall’art. 23 del TUE e dal d.lgs. 222/2016: si tratta di uno strumento semplificato che sostituisce il permesso di costruire per determinati interventi, ma la sua utilizzabilità dipende in modo vincolante dalla corretta qualificazione dell’opera.
Il TAR Lombardia ha scelto di impostare il ragionamento confrontando la normativa attuale con quella previgente al D.L. 76/2020. Una ricostruzione che può lasciare perplessi: se è vero che la giurisprudenza formatasi prima della riforma continua a richiamare la necessità di un vincolo di continuità, è altrettanto vero che il legislatore del 2020 ha inteso semplificare e ampliare il concetto di ristrutturazione edilizia proprio per favorire la rigenerazione urbana.
L’impressione è che la decisione si regga su un approccio prudenziale: un edificio che da due piani diventa una palazzina di cinque, con otto unità abitative, difficilmente può essere considerato come ristrutturazione, anche alla luce del nuovo testo dell’art. 3. In questo senso, la sentenza è condivisibile nel risultato, pur con un percorso motivazionale non del tutto lineare.
Appare utile ricordare uno dei periodi della citata lettera d), comma 1 art. 3, del TUE:
“Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico. L’intervento può prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana”.
In conclusione, il TAR Lombardia ha respinto il ricorso, confermando la legittimità del provvedimento comunale di inibizione della SCIA alternativa al permesso di costruire.
Alcune indicazioni pratiche:
- la SCIA alternativa non può essere utilizzata quando l’intervento, pur dichiarato come ristrutturazione, comporta un incremento evidente del carico urbanistico;
- la riforma del 2020 ha ampliato la nozione di ristrutturazione edilizia, ma non l’ha resa illimitata: secondo il TAR Lombardia resta necessario un minimo di continuità con l’edificio preesistente;
- la valutazione sull’esistenza di questa continuità spetta al Comune, con margini di discrezionalità tecnica difficilmente sindacabili;
- quando l’intervento si traduce in una nuova costruzione (nuova sagoma, nuove volumetrie, nuova destinazione urbanistica), resta obbligatorio il permesso di costruire, con i limiti e i parametri dettati dal PGT e dalla normativa nazionale.