Tratto da: Ildirittoamministrativo.it
Autrice: Emanuela Porcelli
Abstract
La divisione dei poteri all’interno dell’ordinamento è finalizzata ad evitare possibili conflitti di attribuzione di poteri fra i vari organi. Qualora dovesse esservi un conflitto di potere deve intervenire necessariamente la Corte Costituzionale che ne fissa e ne determina i limiti e i parametri. Orbene, la declaratoria di incostituzionalità della norma attributiva del potere, con la sua portata naturalmente retroattiva, fa venire meno ex tunc il fondamento del potere esercitato dando vita ad una fattispecie in tutto analoga a quella della mancata originale attribuzione della potestà autoritativa all’amministrazione, con conseguente vizio di nullità del provvedimento.
Sommario: 1. La divisione delle competenze statali; 2. La questione sottoposta al Consiglio di Stato.
- La divisione delle competenze statali.
La Carta Costituzionale prevede la divisione dei poteri. I poteri peculiari della nostra Repubblica sono: il potere legislativo, il potere esecutivo, il potere giudiziario. La divisione dei poteri prende vita dalla divisione applicata da Montesquieu, il quale aveva teorizzato che uno Stato democratico non potesse funzionare se non attraverso una divisione tra poteri esercitati da distinti soggetti. Il filosofo francese, nello Spirito delle leggi, pubblicato nel 1748, fonda la sua teoria sull’idea che: “Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti… Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere”. Dunque, ciascuno di questi poteri è esercitato da organi diversi e tra loro indipendenti. Per potere legislativo si intende il potere di creare le leggi. Questo potere appartiene al Parlamento.
Per potere esecutivo si intende il potere di eseguire o mettere in pratica le leggi. Questo potere è esercitato dal Governo. Il governo ha anche poteri legislativi che esercita sotto il controllo del Parlamento. Può infatti emettere: decreti legge, in situazioni di necessità e urgenza, che entro 60 giorni devono essere convertiti in legge dal Parlamento; decreti legislativi, in tutti gli altri casi, muovendosi entro i limiti e i principi fissati da una previa legge delega del Parlamento. Il decreto legge ed il decreto legislativo sono due atti aventi forza di legge, costituzionalmente previsti.
Infine, il potere giudiziario viene esercitato dalla Magistratura e consiste nella facoltà di giudicare coloro che non rispettano le leggi, nonché di tutelare i concittadini che subiscono lesioni ai propri diritti. I tre poteri che connotano lo Stato italiano agiscono sinergicamente anche se indipendentemente per assicurare il funzionamento della Nazione e di tutto l’apparato democratico. Tuttavia, l’articolo 5 della Costituzione italiana ha un impatto significativo sulla divisione dei poteri in Italia. Questo articolo sancisce il principio di separazione dei poteri tra il potere legislativo, esecutivo e giudiziario, garantendo così un sistema democratico e l’equilibrio tra i diversi organi dello Stato. E’ fondamentale per la tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini italiani, che possono contare su un sistema giudiziario indipendente e su un Parlamento rappresentativo. L’incidenza dell’Articolo 5 sulla divisione dei poteri in Italia è un elemento chiave per la stabilità e il funzionamento dello Stato italiano.
È certo, comunque, che la nostra Carta fondamentale delinea in modo molto netto i contorni del potere legislativo e del potere giudiziario (come poteri dai quali è distinto il potere esecutivo-amministrativo). Infatti, la P.A. non può fare le leggi, dato che la funzione legislativa è riservata alle Camere (art. 70) e ai consigli regionali (art. 117); e non può, ovviamente, esercitare la funzione giurisdizionale, perché questa è riservata alla magistratura (nonché al Consiglio di Stato e alla Corte dei Conti). Per altro verso, però, la P.A. è soggetta alla legge, la quale stabilisce le regole di base per l’organizzazione dei pubblici uffici (art. 97 Cost.); ed è anche soggetta al sindacato dei giudici, ordinari e amministrativi, perché contro i suoi atti è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (art. 113 Cost.).
La potestà legislativa è esercitata dallo Stato [70 e segg.] e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonchè dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Il Riparto della Potestà Legislativa è stato uno dei punti su cui più significativamente è intervenuta la riforma del 2001. Nel 1948 “le regioni avevano la potestà legislativa cosiddetta concorrente solo in un elenco tassativo di materie” (precedente formula Costituzionale). Le regioni dovevano rispettare i principi posti dallo Stato con le leggi statali che sono state battezzate leggi quadro o cornice. In tutte le altre materie la potestà spettava allo Stato e la regione non vi poteva intervenire. Fino al 2001 la potestà legislativa delle regioni era sottoposta a forti limiti. Le materie di spettanza regionale erano previste in un tassativo elenco. Esse erano di tipo concorrenziale pertanto allo Stato spettava il compito di dettarne i principi. Vi era il Principio dell’Interesse Nazionale pertanto lo Stato in qualsiasi momento poteva avocare a sé il compito di legiferare. Vi era un controllo preventivo dello Stato sulle leggi regionali. Nel 2001 viene ribaltato il criterio di riparto delle competenze legislative che adesso risulta essere il seguente: vi è un elenco tassativo per lo Stato di materie di sua esclusiva competenza. Vi sono materie in cui Stato e regioni esercitano insieme la competenza concorrente. Le materie non esclusive dello Stato e né concorrente tra Stato e regione sono di potestà residuale regionale. Sono scomparsi l’interesse nazionale e il controllo preventivo.
Ai sensi dell’articolo 117 Costituzione, lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:
- a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea;
- b) immigrazione;
- c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;
- d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;
- e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei bilanci pubblici; perequazione delle risorse finanziarie;
- f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;
- g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;
- h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale;
- i) cittadinanza, stato civile e anagrafi;
- l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;
- m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;
- n) norme generali sull’istruzione;
- o) previdenza sociale;
- p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane;
- q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale;
- r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno;
- s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.
Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.
Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.
Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza.
La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Le leggi regionali, inoltre, rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive.
La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni. Nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato.
Spesso accade che sorgano conflitti fra stato e regioni e l’organo a dirimere eventuali conflitti di attribuzione è la Corte Costituzionale, che ne definisce i contorni, i limiti e i parametri con le proprie decisioni.
Occorre precisare che la pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge comporta non già l’abrogazione, o la declaratoria di inesistenza o di nullità, o l’annullamento della norma dichiarata contraria alla costituzione, bensì la disapplicazione della stessa, dando luogo ad un fenomeno che si colloca, sul piano effettuale, in una posizione intermedia tra l’abrogazione, avente di regola efficacia ex nunc, e l’annullamento che, normalmente, produce effetti ex tunc. Pertanto, la norma dichiarata costituzionalmente illegittima deve essere disapplicata con effetti ex nunc o con efficacia ex tunc, a seconda che tale diversa efficacia nel tempo della dichiarazione di incostituzionalità discenda dalla natura o dal contenuto della norma illegittima, oppure dalla portata del precetto costituzionale violato o dal diverso grado di contrasto tra quest’ultimo e la norma di legge, ovvero, infine dalla natura del rapporto sorto nel vigore della norma successivamente dichiarata incostituzionale. Fuori delle ipotesi, aventi carattere di eccezionalità, in cui essa travolge tutti gli effetti degli atti compiuti in base alla norma illegittima, la dichiarazione di incostituzionalità (avuto riguardo al precetto costituzionale violato, alla disciplina dettata dalla norma riconosciuta costituzionalmente illegittima e alla natura del rapporto disciplinato da quest’ultima) comporta la caducazione dei soli effetti non definitivi e, nei rapporti ancora in corso di svolgimento, anche degli effetti successivi alla pubblicazione della sentenza della corte costituzionale, restando quindi fermi quegli effetti anteriori che, pur essendo riconducibili allo stesso rapporto non ancora esaurito, abbiano definitivamente conseguito, in tutto o in parte, la loro funzione costitutiva, estintiva, modificativa o traslativa di situazioni giuridicamente rilevanti (v. Cass. Civile, sez. III, 11-04-1975, n. 1384).
E’ notorio, infatti, che una sentenza della Corte Costituzionale statuisce soltanto per il futuro e non per il passato facendo quindi salvi i diritti acquisiti.
L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. Dalla carenza in astratto del potere esercitato deriva, per pacifica giurisprudenza civile ed amministrativa, la nullità del provvedimento che ne costituisce estrinsecazione.
Le sentenze di incostituzionalità producono effetti retroattivi erga omnes, con il limite dei rapporti
esauriti; esse non travolgono, pertanto, le situazioni consolidate. Fra le quali è annoverata l’ipotesi della decadenza dall’impugnativa di un provvedimento amministrativo, ovvero della mancata tempestiva proposizione di un motivo di ricorso avente ad oggetto il contenuto precettivo della norma dichiarata incostituzionale.
Il provvedimento emanato in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale dà luogo ad una
fattispecie di invalidità “sopravvenuta” o “derivata”, che non attribuisce al giudice amministrativo la
indiscriminata disponibilità del provvedimento; in questa ricostruzione si coglie la logica di una
precarietà dell’atto (medio tempore legittimo ed efficace), connessa alla precarietà della stessa norma
potenzialmente oggetto dello scrutinio di costituzionalità e la configurazione di un vizio originario quanto alla decorrenza, vista la retrodatazione ex tunc delle sentenze del giudice delle leggi, ma sopravvenuto quanto alla riconoscibilità.
Gli effetti della pronuncia di incostituzionalità sul giudizio amministrativo si diversificano a seconda che la norma scrutinata dal giudice delle leggi attribuisca all’amministrazione il potere ovvero ne regoli i modi di esercizio: nel primo caso il giudice può procedere all’annullamento officioso del provvedimento sottoposto ritualmente al suo sindacato nel secondo caso, invece, potrà farlo solo se il ricorrente abbia articolato, nella sostanza, una censura avente ad oggetto il cattivo esercizio della funzione pubblica regolato dalla norma poi eliminata dalla Consulta.
Per completezza, si segnala in senso difforme il Consiglio di Stato, sez. V, 4 giugno 2024, n. 4998 secondo cui l’atto amministrativo adottato sulla base di una legge dichiarata incostituzionale è annullabile, anche nel caso in cui la norma dichiarata costituzionalmente illegittima sia l’unica attributiva del potere. Tuttavia, l’orientamento prevalente è quello che afferma la nullità.
- La questione sottoposta al Consiglio di Stato.
Il Consiglio di stato, di recente, è intervenuto poiché sollecitato da parte della Regione Emilia Romagna per la riforma di una sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, nei confronti di alcuni privati. In particolare, il gravame è stato affidato alle seguenti censure:
1) Violazione di legge per falsa ed erronea interpretazione ed applicazione degli artt.1 e 2 della legge 20 novembre 2017 n.168. Violazione della normativa tuttora vigente sugli usi civici (legge n. 1766 del 1927 e regolamento di esecuzione R.D. 332 del 1928). Conseguente violazione della legislazione regionale dell’Emilia Romagna sui controlli amministrativi sui predetti Enti, come identificata al punto 2 della premessa. Motivazione erronea, carente, contradittoria e perplessa. Illogicità;
2) Violazione dei principi generali sottesi al controllo pubblico cui sono assoggettati gli Enti esponenziali di diritti della collettività. Erronea e travisata applicazione delle norme statali che regolano le competenze e le funzioni amministrative regionali. Erronea e carente motivazione. Erronea interpretazione del profilo di valenza paesaggistico- ambientale riconosciuta ai beni gravati da usi civici e dei “domini collettivi”;
3) Erronea, perplessa nonché carente motivazione in ordine alla equiparazione delle Partecipanze agrarie alle associazioni private, come tali tutelabili con le azioni di annullamento delle delibere assunte dall’assemblea contro la legge, di cui all’art. 23 del Codice civile e non piuttosto assimilabili alle fondazioni, di cui all’art. 25 del c.c..
A questo punto si costituivano gli odierni appellati- ricorrenti in primo grado sollevando questione di legittimità costituzionale degli artt. 49 e 50 della legge della Regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 6, nonché dell’art. 29 della legge della Regione Emilia-Romagna 27 maggio 1994 n. 24 per contrasto con gli artt. 9 e 117 c. 2 lett. s) Cost. e in via ulteriormente subordinata anche violazione della legge n. 6/2004, in particolare artt. 49 e 50. – violazione della l.r. n. 24/1994, in particolare art. 29. incompetenza, eccesso di potere in tutte le figure sintomatiche, in particolare: difetto assoluto di istruttoria e di motivazione. La sesta sezione, pertanto, precisava con ordinanza cautelare n. 3041 del 2023 accogliendo ai sensi dell’art. 55 comma 10 c.p.a. l’istanza cautelare proposta da parte appellante osservando che “le ragioni dell’appellante, anche alla luce delle sopravvenienze fattuali rappresentate in punto di periculum dalla difesa di parte appellata, siano tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio nel merito, sede nella quale potrà, in particolare, essere esaminata funditus la questione della permanenza del potere regionale di controllo sulle partecipanze agrarie”.
Orbene, con sentenza non definitiva n. 10507 del 5 dicembre 2023 la suddetta Sezione definitivamente pronunciando sull’appello n. R.G. 5527/2023 proposto dalla Regione Emilia-Romagna, lo ha accolto; non definitivamente pronunciando sui motivi riproposti da parte appellata ex art. 101, comma 2, c.p.a. ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 49 comma 1 lett. b) della legge della Regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 6, nel suo combinato disposto con gli artt. 25 e 29 della legge della Regione Emilia-Romagna 27 maggio 1994 n. 24, per contrasto con gli artt. 3, 9 e 117, comma 2, lett. l) e s) Cost.;
ha sospeso, per l’effetto, in parte qua, ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il giudizio previa trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione del suindicato incidente di costituzionalità.
Successivamente, con sentenza n. 152 del 26 luglio 2024 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, lettera b), della legge della Regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 6 (Riforma del sistema amministrativo regionale e locale. Unione europea e relazioni internazionali. Innovazione e semplificazione. Rapporti con l’Università), limitatamente alle parole “ ferma restando l’eventuale applicazione del titolo III, capo II, della legge regionale n. 24 del 1994”.
In seguito, la Regione Emilia Romagna ha chiesto ex art. 80, comma, 1 del c.p.a. la prosecuzione del giudizio mentre la difesa di parte appellata si è opposta alla richiesta formulata da parte appellante di dichiarare la cessazione della materia del contendere ed ha insistito per la reiezione nel merito dell’appello.
In limine, è da disattendere la richiesta, formulata dalla difesa regionale, di declaratoria della cessazione della materia del contendere.
Ed infatti, difettano ictu oculi i presupposti previsti dall’art. 34, comma 5, c.p.a. per rendere siffatta pronuncia di merito in favore della Regione Emilia- Romagna.
Quest’ultima, infatti, non ha visto, neppure in parte, soddisfatta la propria pretesa ma è, anzi, uscita soccombente dal giudizio di impugnazione dei propri atti in ragione, come si dirà infra, dell’accoglimento dei motivi riproposti da parte appellata ex art.101, comma 2, c.p.a.
Con la sentenza parziale n. 10507 del 5 dicembre 2023, la Sezione, ha già definitivamente pronunciato sull’appello proposto dalla difesa regionale sicché tale mezzo di gravame (con il relativo rapporto processuale) sono ormai usciti fuori della giuridica disponibilità del proponente.
Per delineare il quadro giuridico, occorre, dunque, procedere, a valle della pronuncia della già citata sentenza parziale n. 10507 del 5 dicembre 2023 e della definizione dell’incidente di costituzionalità con essa instaurato, con lo scrutinio dei motivi riproposti da parte appellata ex art.101, comma 2, c.p.a..
In particolare, con il secondo motivo del ricorso di primo grado qui riproposto ex art. 101, comma 2, c.p.a. si è sollevata questione di legittimità costituzionale degli artt. 49 e 50 della legge della Regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 6, nonché dell’art. 29 della legge della Regione Emilia-Romagna 27 maggio 1994 n. 24 per contrasto con gli artt. 9 e 117 c. 2 lett. s) Cost..
Secondo parte appellata sostenere la vigenza della normativa regionale importerebbe evidentemente una violazione degli artt. 2, 3, 9 e dell’art. 117, comma 2, lett. l) e lett. s) Cost., perché invaderebbe, rispettivamente, la materia dell’ordinamento civile e della tutela dell’ambiente, espressamente riservata alla competenza statale.
Anzitutto si osserva che l’ordinamento civile si pone quale limite alla legislazione regionale, in quanto fondato sull’esigenza, sottesa al principio di uguaglianza, di garantire nel territorio nazionale l’uniformità di disciplina dettata per i rapporti interprivati. La materia dell’ordinamento civile, quindi, è una materia riservata alla competenza esclusiva della legislazione statale e il regime dominicale degli usi civici attiene (proprio) alla materia ordinamento civile di competenza esclusiva dello Stato (v. sent. Corte Cost. 31 maggio 2018, n. 113). Pertanto, se l’individuazione della natura pubblica o privata dei beni appartiene all’ordinamento civile, dovrebbe concludersi che le disposizioni regionali censurate, nel qualificare la partecipanza come ente dipendente regionale, subordinato alla Regione, introducano dei limiti ai diritti del dominio collettivo non previsti dalla normativa statale in materia (legge n. 168/2017).
Sotto un secondo profilo si osserva che le norme regionali censurate contrasterebbero anche con gli artt. 9 e 117, comma 2, lett. s), Cost.. Osserva, in particolare la difesa di aperte appellata che il Giudice delle Leggi ha già da tempo affermato che la conservazione ambientale e paesaggistica spetta, in base all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., alla cura esclusiva dello Stato e ciò in aderenza all’art. 9 Cost., che sancisce quale principio fondamentale quello della tutela del paesaggio, inteso come morfologia del territorio, cioè l’ambiente nel suo aspetto visivo. In sostanza, è lo stesso aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, che è di per sé un valore costituzionale. Quanto agli usi civici in particolare, la competenza statale nella materia trova attualmente la sua espressione nell’art. 142 del codice dei beni culturali e del paesaggio, le cui disposizioni fondamentali sono state qualificate come norme di grande riforma economico-sociale. Vi è, dunque, una connessione inestricabile dei profili economici, sociali e ambientali, che configurano uno dei casi in cui i principi combinati dello sviluppo della persona, della tutela del paesaggio e della funzione sociale della proprietà trovano specifica attuazione, dando origine ad una concezione di bene pubblico quale strumento finalizzato alla realizzazione di valori costituzionali” (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza n. 3811 del 2011, a proposito della fattispecie analoga delle “valli da pesca“). È la logica che ha ispirato questa Corte quando ha affermato che la sovrapposizione fra tutela del paesaggio e tutela dell’ambiente si riflette in uno specifico interesse unitario della comunità nazionale alla conservazione degli usi civici, in quanto e nella misura in cui concorrono a determinare la forma del territorio su cui si esercitano, intesa quale prodotto di ‘una integrazione tra uomo e ambiente naturale (cfr. Corte Cost. 31 maggio 2018, n. 113).
Tutto ciò trova fondamento anche alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 152 del 26 luglio 2024. Con quest’ultima pronuncia, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, lettera b), della legge della Regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 6 (Riforma del sistema amministrativo regionale e locale. Unione europea e relazioni internazionali. Innovazione e semplificazione. Rapporti con l’Università), limitatamente alle parole “, ferma restando l’eventuale applicazione del titolo III, capo II, della legge regionale n. 24 del 1994”.
Ebbene, va rilevato che la previsione di legge regionale dichiarata incostituzionale dal Giudice delle Leggi costituisce la norma attributiva dei poteri esercitati a mezzo dell’adozione degli atti gravati in prime cure (id est i poteri di scioglimento degli organi statutari della partecipanza agraria e di conseguente nomina di un commissario). Ne discende che quest’ultimi, i quali sono stati tempestivamente impugnati deducendo specificatamente tale vizio derivato di incostituzionalità, sono nulli ex art.21-septies della l. n. 241 del 1990 per “difetto assoluto di attribuzione” (v. Cons. Stato sez. IV, 3 marzo 2014, n.993).
Basandosi sul dato letterale e sistemico, in detta ipotesi tipizzata di nullità rientrano solo i casi di carenza “in astratto” e non anche “in concreto” del potere sicché tale figura si ha solo ove manchi del tutto la base legale del potere, mentre ogni ipotesi di mancanza dei presupposti per il suo esercizio, ancorché si tratti di condizioni essenziali, è destinato a rifluire nella semplice illegittimità del provvedimento (Cons. Stato, Adunanza plenaria, 7 maggio 2024, n. 11). In questo senso, la declaratoria di incostituzionalità della norma attributiva del potere, con la sua portata naturalmente retroattiva, fa venire meno ex tunc il fondamento del potere esercitato dando vita ad una fattispecie in tutto analoga a quella della mancata originale attribuzione della potestà autoritativa all’amministrazione.
Al Consiglio di Stato, ergo, non resta, quindi, che dichiarare ex art. 31, comma 4, c.p.a., in accoglimento del secondo motivo del ricorso di primo grado) la nullità degli atti gravati in prime cure.
Per le ragioni sopra esposte, il primo dei motivi riproposti da parte appellata (corrispondente al secondo motivo del ricorso di primo grado) è fondato e va accolto.
Per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, il ricorso di primo grado va accolto ma con diversa motivazione. Per ulteriore effetto va dichiarata la nullità ex art. 31, comma 3 c.p.a. degli atti con esso gravati.