Tratto da: Lavori Pubblici  

Come provare la datazione di un’opera “ante ‘67”? È sufficiente una dichiarazione tecnica postuma o serve una prova rigorosa dell’epoca di costruzione? E, soprattutto, la sola dimostrazione che l’opera sia anteriore al 1967 basta a sottrarla da tutti i vincoli urbanistici?

Sono interrogativi centrali in edilizia sui quali, purtroppo, esiste ancora parecchia confusione (soprattutto sul concetto di “ante ‘67”). Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 7239 dell’8 settembre 2025, ha fornito nuove e rilevanti conferme in materia di sanatoria edilizia, doppia conformità e ordine di demolizione.

La vicenda trae origine dall’accertamento, da parte del Comune, della realizzazione (ancora in corso) di un manufatto abusivo costituito da un piano terra con vano adibito a deposito e relativo porticato. L’amministrazione aveva quindi adottato un’ordinanza di demolizione, cui era seguita da parte del proprietario la presentazione di un’istanza di sanatoria edilizia ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia).

La richiesta è stata però respinta per l’assenza della necessaria “doppia conformità”, con contestuale conferma del TAR. Secondo l’amministrazione, infatti, il fabbricato insisteva su un’area parzialmente ricadente in zona agricola silvo-pastorale oltre i 300 metri di quota, con limiti volumetrici e divieti di accorpamento, e per la restante parte in “Sottozona E1”, ove erano ammesse solo costruzioni strettamente funzionali alle attività agricole e su superfici non inferiori a 2.000 mq. Circostanze queste che, nel caso concreto, non risultavano né dimostrate né provabili.

Il ricorrente, dal canto suo, aveva sostenuto che l’edificio fosse stato edificato in epoca antecedente al 1967 e che gli interventi contestati riguardassero solo opere di manutenzione straordinaria eseguite nel 2000, oltre a un completamento funzionale di un preesistente fabbricato “ante ‘67”. Secondo tale tesi, quindi, si trattava di attività rientranti nell’edilizia libera (art. 6 TUE) o comunque assoggettabili a titoli semplificati (DIA o SCIA).

Non convinto dalla decisione del TAR che aveva confermato il rigetto della sanatoria e la demolizione, il proprietario ha quindi proposto appello al Consiglio di Stato, sostenendo l’erroneità della ricostruzione del primo giudice e insistendo sull’applicabilità del regime di favore per le opere anteriori al 1967.

Per inquadrare correttamente la vicenda occorre ripercorrere, seppur rapidamente, l’evoluzione della disciplina edilizia. Fino al 1967, infatti, l’obbligo di munirsi di titolo edilizio riguardava soltanto le aree comprese all’interno dei centri abitati. Con la Legge n. 765/1967, la cosiddetta “Legge Ponte”, l’obbligo è stato esteso a tutto il territorio comunale, rendendo non più possibile distinguere tra costruzioni interne o esterne al perimetro urbano.

Pochi anni dopo, con la legge n. 10/1977 (la “Bucalossi”), il legislatore introduce la concessione edilizia e con essa il principio della corresponsione di oneri di urbanizzazione e contributi commisurati al costo di costruzione. Un passaggio decisivo che segna la trasformazione dell’attività edilizia in un atto sempre più regolato e oneroso, strettamente collegato alla pianificazione urbanistica.

Il quadro attuale è definito dal d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia). L’art. 36 disciplina l’accertamento di conformità, richiedendo la cosiddetta “doppia conformità”: l’opera deve risultare conforme sia alle norme vigenti al momento della sua realizzazione, sia a quelle in vigore al momento della domanda di sanatoria. L’art. 37, invece, consente la regolarizzazione mediante sanzione pecuniaria solo per alcune ipotesi di difformità parziale, senza possibilità di estendere la fiscalizzazione a tutte le tipologie di abuso.

A questo si aggiungono le norme di tutela ambientale e paesaggistica contenute nel Codice dei beni culturali (d.lgs. n. 42/2004), che impongono limiti ulteriori in presenza di vincoli. È evidente, quindi, che la disciplina non lascia margini: l’ordinanza di demolizione rimane un atto dovuto ogni volta che non sia possibile ricondurre l’opera abusiva alla legalità attraverso gli strumenti previsti dalla legge.

Un punto spesso trascurato, ma fondamentale, riguarda proprio il concetto di “ante ‘67”: non basta richiamarlo genericamente. Molti Comuni si erano già dotati, prima di quella data, di strumenti urbanistici che estendevano l’obbligo del titolo edilizio anche fuori dai centri abitati. In tali casi, l’esenzione dall’obbligo non può essere invocata.

Analisi tecnica

Il Consiglio di Stato ha confermato la decisione del TAR ribadendo, innanzitutto, un principio cardine: l’onere della prova sull’epoca di realizzazione di un manufatto grava interamente sul privato. Non è sufficiente richiamare genericamente l’anteriorità al 1967, né allegare relazioni tecniche postume o dichiarazioni sostitutive di atto notorio: occorrono documenti oggettivi e verificabili, come rilievi aerofotogrammetrici, mappe catastali storiche, fotografie datate o atti d’archivio.

In questo contesto, assume rilievo quello che può essere definito principio di ribaltamento della prova: solo la deduzione da parte del privato di concreti elementi di fatto relativi all’epoca dell’abuso consente di trasferire sull’amministrazione l’onere della prova contraria. In altri termini, spetta al ricorrente fornire un primo nucleo probatorio serio e circostanziato; solo allora l’amministrazione è chiamata a confutarlo con elementi di segno opposto.

I giudici di Palazzo Spada hanno anche precisato che, sebbene il criterio della “vicinanza della prova” possa essere temperato dal ricorso a presunzioni (ad esempio in contesti dove la documentazione storica è scarsa), ciò richiede comunque una base probatoria iniziale. Nel caso in esame, invece, il ricorrente non aveva prodotto alcun elemento concreto: le aerofotogrammetrie depositate dall’amministrazione hanno anzi dimostrato inequivocabilmente che il manufatto non esisteva prima del 2003 ed era visibile solo dal 2009, smentendo radicalmente la sua tesi.

Infine, la sentenza ha ribadito che la sanatoria ex art. 36 TUE presuppone la doppia conformità urbanistica e paesaggistica, requisito insussistente nel caso concreto: l’opera insisteva su aree agricole vincolate, con limiti volumetrici e prescrizioni insuperabili. Da qui la conferma dell’impossibilità di regolarizzare l’intervento e la legittimità dell’ordine di demolizione, che non può essere sostituito da sanzione pecuniaria al di fuori dei ristretti casi previsti dall’art. 37 TUE.

Il Consiglio di Stato ha respinto l’appello, confermando la legittimità del diniego di sanatoria e dell’ordine di demolizione. Da queste premesse discendono alcune regole operative di immediata utilità:

  • la semplice invocazione dell’“ante ‘67” non è sufficiente: occorre dimostrare documentalmente che l’opera sia stata effettivamente realizzata prima di quella data, verificando anche la presenza di piani regolatori già vigenti;
  • le prove devono essere oggettive e rigorose (aerofotogrammetrie storiche, mappe catastali, documenti d’archivio), mentre relazioni tecniche postume o dichiarazioni sostitutive hanno valore residuale;
  • il principio di ribaltamento della prova rappresenta una chiave di lettura operativa: solo la produzione di elementi concreti da parte del privato trasferisce sull’amministrazione l’onere della confutazione;
  • la doppia conformità rimane condizione imprescindibile: senza conformità urbanistica e paesaggistica, nessuna sanatoria è ammissibile;
  • la fiscalizzazione non è una soluzione generalizzata: può operare solo nei casi limitati di parziale difformità previsti dall’art. 37 TUE;
  • l’ordine di demolizione è un atto dovuto, la cui legittimità non può essere esclusa per ragioni di opportunità o equità.

In definitiva, la sentenza n. 7239/2025 del Consiglio di Stato ribadisce che in materia di abusi edilizi non esistono scorciatoie: la regolarizzazione è possibile solo a fronte di prove solide e di piena compatibilità con gli strumenti urbanistici e paesaggistici vigenti.

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