tratto da biblus.acca.it

L’esposizione a fibre di amianto rappresenta una delle più gravi minacce per la salute nei luoghi di lavoro, specialmente nel settore edilizio e manutentivo, dove materiali contenenti amianto sono stati storicamente utilizzati. Un caso recente è stato discusso dalla Corte Suprema di Cassazione italiana che ha ribadito con fermezza la responsabilità del datore di lavoro nel garantire adeguate misure di sicurezza e prevenzione, anche in contesti lavorativi risalenti a decenni fa.

Il caso riguarda un lavoratore che, dal 1961 al 1996, ha svolto mansioni quotidiane di manutenzione e riparazione su condotte idriche realizzate in cemento amianto (eternit). Nonostante fosse emersa una situazione di rischio elevata, con il lavoratore riconosciuto affetto da asbestosi (una malattia professionale causata dall’inalazione delle fibre di amianto) e successivamente colpito da carcinoma polmonare metastatico, il datore di lavoro (un consorzio di bonifica) aveva negato le responsabilità.

Gli eredi del lavoratore hanno richiesto il risarcimento dei danni per il decesso legato all’esposizione ad amianto, denunciando la mancata adozione di misure di prevenzione, la mancanza di sorveglianza sanitaria, la carenza di dispositivi di protezione individuale e l’assenza di formazione e informazione sul rischio.

La difesa e la sentenza della Corte d’Appello

La Corte d’Appello aveva respinto la domanda degli eredi, basandosi su alcuni argomenti principali:

  • il ricorso era stato proposto oltre vent’anni dopo la cessazione del rapporto di lavoro, rendendo difficile dimostrare l’esatto adempimento delle misure di sicurezza;
  • le norme specifiche sull’amianto (D.Lgs. 277/1991, D.Lgs. 626/1994 e successivi) erano entrate in vigore solo negli anni ’90, quindi non potevano applicarsi retroattivamente a gran parte del rapporto;
  • la correlazione tra esposizione ad amianto e tumori polmonari era diventata “fatto notorio” solo dal 1991/1992;
  • mancanza di una quantificazione certa dell’esposizione (dose cumulativa di fibre inalate), elemento ritenuto indispensabile per provare il nesso causale.

In sostanza, la Corte d’Appello ha respinto l’eccezione di prescrizione sollevata in relazione all’azione di risarcimento del danno iure hereditatis ed ha invece accolto il motivo di ricorso relativo all’insussistenza di profili di imputabilità colpevole del Consorzio ex art. 2087.

La difesa degli eredi

Tuttavia, gli eredi hanno presentato ricorso in Cassazione con 6 motivi di accusa, contestando la sentenza della Corte d’Appello su più fronti:

  1. si contesta che la Corte d’Appello abbia sbagliato, affermando che la parte appellata non ha dimostrato l’esistenza di una specifica omissione da parte del datore di lavoro nell’adottare le misure di sicurezza necessarie, suggerite dalla natura del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, per prevenire il danno;
  2. si denuncia che non ci fossero prove sufficienti delle violazioni e falsa applicazione dell’articolo 2087 c.c. e 2697 c.c. in relazione all’articolo 360 numero 3 c.p.c. là dove la Corte di appello ha affermato che la parte appellata non aveva fornito sufficiente prova delle violazioni commesse dal datore di lavoro;
  3. si sostiene che sono state applicate male le norme, incluso l’articolo 2087 c.c e vari decreti e articoli costituzionali, sostenendo in modo ingiustificato che all’epoca in cui il lavoratore si ammalò non fosse nota la pericolosità dell’amianto;
  4. si sostiene che la sentenza è nulla per violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. in relazione all’articolo 360 n. 4 c.p.c. là dove si sostiene che nulla risulta dedotto e dimostrato in ordine all’intensità e alla durata dell’esposizione;
  5. si rileva che sono state ignorate prove fondamentali, presenti fin dall’inizio, che attestavano una esposizione continua e intensa alle fibre di amianto per circa 35 anni, con interventi di manutenzione quotidiani su condotte in eternit, e il riconoscimento medico dell’asbestosi e del carcinoma polmonare come malattie professionali derivate da tale esposizione;
  6. con il sesto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 2087 e 2697 c.c. in relazione all’articolo 360, numero 3 c.p.c., là dove viene sostenuto che nulla risulta dedotto in giudizio con riguardo all’adempimento degli obblighi di formazione e informazione e con riguardo all’obbligo datoriale di munire i lavoratori e dispositivi di sicurezza e di garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro.

Dopo i motivi esposti dai familiari la Cassazione – Sezione Lavoro – ha accolto il ricorso degli eredi, cassando la sentenza d’appello e rinviando nuovamente alla Corte territoriale in diversa composizione. Nello specifico:

Onere della prova e art. 2087 c.c.: la Corte ha ribadito che la responsabilità del datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 2087 del Codice Civile, ha natura contrattuale. Pertanto, il lavoratore o i suoi eredi devono allegare e provare l’esistenza del rapporto di lavoro, il danno subito e il nesso causale tra il danno e la prestazione lavorativa. È invece onere del datore di lavoro provare di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza, adottando tutte le misure necessarie per prevenire il danno, e che l’evento dannoso sia stato determinato da una causa a lui non imputabile. La Corte d’Appello aveva erroneamente invertito tale onere, richiedendo agli eredi di dimostrare una specifica omissione da parte del datore di lavoro.

Prevedibilità del rischio e normativa applicabile: un punto cruciale della sentenza riguarda la conoscenza della nocività dell’amianto. Contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte d’Appello, la Cassazione ha sottolineato che la pericolosità di tale materiale non era un fatto ignoto, neppure in epoche passate. L’asbestosi, una patologia direttamente collegata all’esposizione all’amianto, era già stata inserita nell’elenco delle malattie professionali fin dalla Legge n. 455 del 1943. Inoltre, la Corte ha specificato che il datore di lavoro era tenuto a rispettare la normativa preesistente, in particolare l’articolo 21 del D.P.R. n. 303 del 1956, che si riferiva genericamente alla protezione dalle polveri.

Causalità e causalità individuale: la Cassazione ha criticato la Corte d’Appello per aver richiesto la dimostrazione di specifici “parametri quantitativi dell’esposizione” per accertare il nesso causale. Ha ribadito che non è necessaria una certezza assoluta, ma è sufficiente una relazione di tipo probabilistico, che attinga a un livello di “alta probabilità logica”. La presenza di asbestosi nel lavoratore, riconosciuta anche dall’INAIL, è stata definita una malattia “sentinella”, indicativa di un’esposizione qualitativamente e quantitativamente elevata, che si pone come antecedente causale altamente probabile per il successivo carcinoma polmonare.

L’ambiente di lavoro e l’esenzione di responsabilità: la sentenza ha chiarito che il fatto che il lavoratore operasse in un ambiente aperto non esime il datore di lavoro dagli obblighi di protezione. Il rischio di esposizione era infatti diretto e ravvicinato, dato che il dipendente interveniva direttamente sulle tubazioni in amianto. La responsabilità non deriva dall’attività in sé, ma dal modo in cui è stata esercitata l’attività, ovvero dall’omissione di cautele doverose e conosciute all’epoca.

La decisione della Corte di Cassazione riafferma la tutela del lavoratore e dei suoi familiari in un contesto di grave malattia professionale. Ribadisce che l’onere di provare il rispetto delle norme di sicurezza ricade sul datore di lavoro e che la causalità può essere stabilita anche in assenza di dati quantitativi specifici, basandosi su elementi clinici e logici consolidati. La sentenza rappresenta un importante punto di riferimento per le future controversie in materia di danno da amianto, sottolineando l’importanza di una rigorosa applicazione dei principi di responsabilità civile e della tutela della salute dei lavoratori.

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