Tratto da: Ildirittoamministrativo.it 

Autrice: Roberta Scarlato

Abstract:

Il concetto di ambiente, da sempre oggetto di discussione in ambito giuridico e politico, ha assunto un’importanza crescente negli ultimi decenni, soprattutto grazie all’evoluzione delle normative internazionali e alla crescente sensibilità verso la tutela ambientale, la sostenibilità e le generazioni future. Nel presente lavoro verranno presi in considerazione gli strumenti giuridici ed economici messi in atto per la salvaguardia delle risorse naturali e per garantire il benessere delle generazioni future, il ruolo delle associazioni ambientaliste e l’importanza del recente contenzioso climatico. Ci si soffermerà sulle prospettive emergenti in tema di legittimazione ad agire, con un ampliamento dei diritti collettivi e delle capacità legali per i cittadini e le organizzazioni. L’obiettivo è riflettere su come il diritto possa affrontare le sfide della sostenibilità e della giustizia intergenerazionale.

Sommario: 1. L’inquadramento del bene ambiente alla luce della recente riforma costituzionale e degli sviluppi internazionali. – 2. Economia circolare: una speranza per la salvaguardia della vita delle prossime generazioni – 3. Sviluppo sostenibile e strumenti a tutela delle generazioni future. 4.- Il ruolo delle associazioni ambientaliste per la protezione delle future generazioni – 5. Il recente contenzioso climatico e le nuove prospettive sulla legittimazione ad agire in materia ambientale. – 6. Considerazioni conclusive.

 

 

  1. L’inquadramento del bene ambiente alla luce della recente riforma costituzionale e degli sviluppi internazionali

La recente evoluzione del concetto di “bene ambiente” si inserisce in un quadro giuridico in trasformazione, che vede un forte impulso verso la tutela dell’ambiente inteso come bene comune e collettivo. La riforma costituzionale ha consolidato e reso più esplicito il legame tra protezione ambientale e responsabilità verso le generazioni future, favorendo un approccio sostenibile che non comprometta il godimento delle risorse naturali per le prossime generazioni.

Il termine “ambiente”, dal latino ambiens, rinvia all’idea di ciò che ci circonda, che esiste nel presente e che muta nel tempo, ma che dovrà esistere nel futuro, implicando delle responsabilità per garantirne la sua conservazione. L’ambiente, risorsa scarsa ed esauribile, porta a una riflessione sulla sua gestione. Nella società odierna, improntata alla logica del consumismo, acquista quindi rilevanza il concetto di sostenibilità, inteso come soddisfacimento dei propri bisogni senza

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* Dottoressa in giurisprudenza, Università della Calabria

compromettere l’opportunità per le generazioni future di soddisfare i loro.[1]

Il concetto di ambiente come bene comune[2] affonda le radici nel diritto romano ed è stato ulteriormente sviluppato da pensatori come Grozio e Cassese[3], che hanno sottolineato come l’ambiente, essendo essenziale per il soddisfacimento dei bisogni umani, implichi la responsabilità di preservarlo anche per le generazioni future[4]. Il punto di partenza per comprendere l’evoluzione giuridica del concetto di ambiente come bene comune, è il disegno della legge delega per la riforma della proprietà pubblica elaborato dalla Commissione Rodotà, dove il bene comune è definito come <<cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona>>.

 La definizione rimanda sia all’importanza funzionale di questi beni per la collettività, sia alla loro dimensione collettiva, legandosi strettamente al concetto di diritti inviolabili dell’individuo.

Ugo Mattei[5], uno dei principali giuristi contemporanei, approfondisce il tema dei beni comuni, evidenziando come non sono destinati all’amministrazione pubblica ma alla collettività, che ne è la vera proprietaria[6]. Altra riflessione sul concetto di bene comune emerge dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 3665 del 14 febbraio 2011, che afferma come il bene demaniale non sia una proprietà “fine a sé stessa”, ma abbia l’obiettivo di garantire l’uso della risorsa per la collettività. In particolare, la Corte sottolinea come il bene comune, specie se ambientale o paesaggistico, sia strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini e si caratterizzi per un “godimento collettivo”.[7]

Nel contesto giuridico italiano, quindi, il concetto di bene comune non è solo un aspetto normativo, ma si articola in un valore sostanziale, quello della persona umana, collegato ai diritti e alle libertà fondamentali, tra cui il diritto a un ambiente sano. È necessario sviluppare, pertanto, specifiche discipline giuridiche a tutela di questi beni da un uso mercantile rispondente solo alla logica del profitto[8]. I beni comuni devono essere concepiti come patrimoni di interesse collettivo, accessibili a tutti senza l’intenzione di appropriazione esclusiva e gestiti secondo il principio di solidarietà. Tale visione si basa sull’idea che la gestione degli stessi beni deve considerare anche le esigenze delle generazioni future, che hanno il diritto di godere degli stessi beni al fine di proteggere la dignità umana e i suoi bisogni essenziali.[9] Parallelamente, il diritto internazionale ha posto un’importante attenzione sull’ambiente come bene giuridico, in particolare nel contesto del danno transfrontaliero, ossia il danno causato a uno Stato da attività condotte in un altro Stato. Il principio di sovranità statale è stato inizialmente applicato in questo ambito, ma con il tempo la globalità del bene ambientale ha reso questa visione insufficiente. Di conseguenza, il diritto internazionale ha esteso la sua tutela ad aree al di fuori della giurisdizione statale, trattando l’ambiente come un bene condiviso, la cui salvaguardia è un interesse di tutta l’umanità. Questo concetto si concretizza nel principio del “patrimonio comune dell’umanità”, formalizzato nella Dichiarazione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sui fondi marini del 1970. Il concetto di patrimonio comune dell’umanità rispecchia anche la visione cristiana del bene comune, che affonda le sue radici nell’idea che la Creazione sia destinata all’Uomo da parte di Dio. Sebbene il termine “bene comune” sia ambiguo e in continua evoluzione, il Concilio Vaticano II definisce il bene comune come “l’insieme delle condizioni sociali che permettono agli individui e ai gruppi di raggiungere la loro perfezione”. L’Enciclica Mater et Magistra di Giovanni XXIII riconosce implicitamente l’ambiente come parte del bene comune, includendo la necessità di migliorare il tenore di vita della generazione presente in modo da garantire un futuro migliore alle generazioni future. In linea con questa visione, Papa Benedetto XVI riafferma che “l’eredità del creato appartiene all’intera umanità”. Le affinità tra la visione cristiana del bene comune e l’idea di patrimonio comune dell’umanità emergono con maggiore chiarezza nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, che definisce l’ambiente come un “bene collettivo” e un “patrimonio comune del genere umano”.[10] Sia nel contesto giuridico nazionale che internazionale, il concetto di ambiente come bene comune si configura come un patrimonio condiviso, la cui tutela è un obbligo per tutti, sia a livello individuale che collettivo e implica la necessità di un impegno globale per garantire la protezione dell’ambiente in modo sostenibile, in vista della preservazione dei diritti e dei bisogni delle generazioni future.

La crescente crisi delle risorse naturali, il progressivo inquinamento e deterioramento ambientale hanno reso necessario rivedere le fondamenta giuridiche relative alla tutela dell’ambiente. In Italia, tale riflessione si inserisce all’interno di un lungo processo evolutivo che ha visto modifiche significative nel quadro costituzionale, culminato nelle recenti riforme che hanno elevato la protezione ambientale a principio fondamentale della Repubblica.

Fondamentale per il riconoscimento giuridico del bene ambiente come valore costituzionale è la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001. L’articolo 117 inserì la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” tra le competenze esclusive dello Stato, stabilendo un riparto di competenze tra Stato e Regioni che segnò un significativo avanzamento nel riconoscere l’ambiente come bene da tutelare a livello costituzionale. Successive sentenze della Corte Costituzionale, come la n. 94/1985, hanno ulteriormente consolidato una visione dinamica e interattiva dell’ambiente, sottolineando la necessità di considerare gli effetti delle attività umane sul territorio e sulle risorse naturali. Nella sentenza si afferma che: <<la tutela del paesaggio non può venire realisticamente concepita in termini statici, di assoluta immodificabilità dei valori paesaggistici registrati in un momento dato, ma deve, invece, attuarsi dinamicamente e cioè tenendo conto delle esigenze poste dallo sviluppo socio-economico del paese per quanto la soddisfazione di esse può incidere sul territorio e sull’ambiente>>. Con la sentenza n. 210 del 1987, la Corte riconosce l’ambiente <<come diritto fondamentale della persona e interesse fondamentale della collettività, con la necessità di creare istituti giuridici per la sua protezione. Si parla di ambiente come bene unitario, comprensivo di tutte le risorse naturali e culturali. Esso comprende la conservazione, la razionale gestione, il miglioramento delle condizioni naturali, la esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale e in definitiva la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni>>.[11]

Con la sentenza n. 407/2002,[12] la Corte ha sottolineato come l’ambiente non costituisca una “materia” tecnica e ben definita,[13] ma è un interesse che si interconnette con altre competenze. L’ambiente è così concepito come una “materia trasversale”,[14] la cui tutela non può essere circoscritta ad una sola sfera di competenza statale. Con le successive sentenze n. 367 e 378 del 2007,[15] la Corte evolve la sua posizione riconoscendo l’ambiente come un “bene giuridico materiale”,[16]enfatizzando la sua concreta rilevanza giuridica senza escludere la sua valenza valoriale.[17] La giurisprudenza costituzionale amplia successivamente il concetto di ambiente, includendo non solo gli aspetti naturalistici ma anche le “condizioni ambientali” e la “qualità della vita”, ricomprendendo la tutela del paesaggio, delle risorse naturali e della gestione del territorio. Inserendo la tutela ambientale nell’art. 117 della Costituzione, il legislatore è stato chiamato a bilanciare tale tutela con altri diritti, come la proprietà e la libertà di iniziativa economica, creando una visione dinamica e attiva dell’ambiente.

La crescente attenzione globale alla tutela dell’ambiente, a partire dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul clima del 1972, ha influenzato la Costituzione, rendendo la protezione dell’ambiente un diritto fondamentale sempre più riconosciuto. La riforma costituzionale del 2022 segna un ulteriore e decisivo passo nella protezione ambientale, elevandola a principio fondamentale della Repubblica. L’articolo 9 della Costituzione è stato modificato con l’introduzione di un terzo comma che recita: “La Repubblica tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”. Questo comma sancisce l’impegno dello Stato nel proteggere le risorse naturali e nel promuovere le politiche ambientali a favore delle generazioni future, evidenziando la necessità di una visione sostenibile e di lungo periodo. Anche l’articolo 41 della Costituzione è stato modificato, introducendo un nuovo limite all’iniziativa economica privata, stabilendo che essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza e alla dignità umana. Il legislatore ha posto quindi l’ambiente tra i valori che orientano l’attività economica, sottolineando l’importanza di un equilibrio tra sviluppo economico e sostenibilità ambientale.

Introducendo l’interesse delle future generazioni si richiama, implicitamente, il principio di sviluppo sostenibile, anche se il termine non compare esplicitamente nel testo costituzionale. Questo elemento, riflettendo le preoccupazioni globali per i cambiamenti climatici e la salvaguardia della biodiversità, mira a rafforzare il legame tra tutela ambientale e responsabilità sociale ed economica nei confronti delle generazioni che verranno.

L’inquadramento giuridico del bene ambiente, alla luce della recente riforma costituzionale, non si limita a un semplice riconoscimento normativo, ma implica una riflessione sul principio di solidarietà e sulla tutela dei diritti delle generazioni future. In questo contesto, l’ambiente è considerato un bene relazionale e dinamico, dove l’uomo non è solo fruitore, ma anche custode della natura.[18] Un primo elemento cruciale che emerge dalla recente riforma costituzionale riguarda la connessione tra la tutela dell’ambiente e il principio di solidarietà.[19] La protezione dell’ambiente non si limita a soddisfare le necessità presenti, ma si estende alla salvaguardia dei diritti delle generazioni future. I cambiamenti climatici e i danni ambientali minacciano direttamente il godimento di diritti fondamentali come il diritto alla vita e alla salute, ma anche il diritto alla partecipazione sociale e politica. La visione solidaristica, quindi, si manifesta nel riconoscimento che il bene ambiente non è solo una risorsa da proteggere, ma è condizione indispensabile per la realizzazione di diritti che vanno ben oltre il presente. In tale contesto, la responsabilità individuale e collettiva emerge come un dovere giuridico ed etico. Adottare un approccio basato sui diritti fondamentali implica l’assunzione di doveri da parte di coloro che detengono tali diritti,[20] affinché le scelte ambientali non pregiudichino il benessere delle generazioni future. Le politiche pubbliche dovranno, quindi, soddisfare non solo le necessità immediate, ma anche preservare le risorse naturali per evitare danni irreversibili.

La riforma costituzionale del 2022 ha ribadito la centralità dell’ambiente come valore costituzionale, rafforzando il “diritto a un ambiente salubre”, evoluzione del diritto alla salute sancito nell’art. 32. Questo diritto non si limita alla tutela della salute fisica, ma include la qualità ambientale come elemento essenziale per il benessere dell’individuo. La Corte di Cassazione, con la sentenza 5172/1979, ha sottolineato che il diritto alla salute riguarda anche il vivere in un ambiente salubre, considerando la salute influenzata da vari fattori ambientali, come inquinamento, qualità dell’acqua e gestione dei rifiuti. La tutela dell’ambiente e della salute deve essere un obiettivo prioritario delle politiche pubbliche, sia nazionali che internazionali.[21] Il diritto a un ambiente sano non è solo una questione di benessere individuale, ma anche interesse collettivo che richiede l’impegno delle istituzioni nel garantire la protezione delle risorse naturali e nel monitorare l’impatto delle attività umane sull’ambiente. Le istituzioni devono adottare misure concrete per prevenire i danni ambientali e promuovere la sostenibilità, affinché il diritto a un ambiente sano diventi una realtà tangibile.

Questo impegno è sancito anche a livello internazionale, dove trattati e dichiarazioni, come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, hanno riconosciuto il legame tra salute e ambiente. La Corte di Strasburgo ha sviluppato una giurisprudenza che ha esteso la tutela ambientale, interpretando il diritto a un ambiente salubre come parte del diritto alla vita privata e familiare (art. 8 CEDU). Diverse sentenze hanno dimostrato come l’inquinamento possa violare questi diritti, offrendo una forma indiretta di tutela ambientale,[22] come evidenziato nel caso Lopez Ostra c. Spagna. La Corte di Strasburgo ha affermato come: <<un grave inquinamento ambientale può influire sul benessere delle persone e impedire loro di godere della propria casa in modo tale da pregiudicare la loro vita privata e negativamente la vita familiare, senza tuttavia mettere in serio pericolo la loro salute>>.

L’inquadramento giuridico dell’ambiente si è evoluto passando dalla semplice protezione del paesaggio a un concetto ampio e multidimensionale che unisce salute umana, solidarietà tra generazioni e giustizia sociale. Grazie agli sviluppi internazionali e alle politiche europee, l’ambiente è oggi riconosciuto come un bene giuridico fondamentale, tutelato da una rete di principi e norme che garantiscono la partecipazione attiva dei cittadini e la responsabilità degli Stati.

A livello internazionale, con la Dichiarazione di Stoccolma del 1972 la tutela dell’ambiente ha avuto una prima formalizzazione, introducendo la nozione di ambiente come presupposto fondamentale per la vita e la libertà dell’uomo. Fissando il principio 21 il documento riconosceva agli Stati: << il diritto sovrano di sfruttare le risorse in loro possesso, secondo le loro politiche ambientali, ed il dovere di impedire che le attività svolte entro la propria giurisdizione o sotto il proprio controllo non arrechino danni all’ambiente di altri Stati o a zone situate al di fuori dei limiti della loro giurisdizione nazionale>>. La Dichiarazione di Rio del 1992[23] e quella di Johannesburg del 2002 hanno ulteriormente evidenziato il concetto di sviluppo sostenibile, riconoscendo la necessità di una gestione equilibrata delle risorse naturali, rispettosa dei diritti delle generazioni future e della solidarietà internazionale. A Johannesburg, nel 2002, sono stati individuati i tre pilastri della sostenibilità: lotta alla povertà, cambiamento dei modelli di consumo e protezione e gestione delle risorse naturali.[24] Con la Convenzione di Aarhus del 2001 si concretizza il passaggio a normative giuridicamente vincolanti, documento fondamentale che ha introdotto formalmente il concetto di sviluppo sostenibile[25], definito come la capacità di soddisfare i bisogni attuali senza compromettere quelli delle generazioni future. Si riconosce il diritto di ogni individuo a vivere in un ambiente sano, tutelandone la salute e il benessere, mirando a preservare l’ambiente per le generazioni future. La Convenzione prevede misure sia preventive per evitare danni ambientali, sia riparative per i danni già causati, secondo il principio “chi inquina paga”. La tutela della biodiversità è al centro di tali sforzi, con la Convenzione sulla biodiversità che ha come obiettivo fondamentale la conservazione della diversità biologica, “l’uso durevole dei suoi componenti e la ripartizione giusta ed equa dei benefici derivanti dall’utilizzazione delle risorse genetiche”. Tale Convenzione, volutamente generica, si applica a tutte le componenti della biodiversità che si trovano sotto la giurisdizione di uno Stato parte e a tutte le attività realizzate sotto il suo controllo. Nel 2000, in ottica di cooperazione è stato adottato il Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza, il cui obiettivo è quello di proteggere “il trasferimento, la manipolazione e l’uso sicuro degli organismi viventi geneticamente modificati” (OGM), al fine di evitare effetti negativi per la biodiversità e l’uso sostenibile delle risorse biologiche. Questo protocollo si basa sull’approccio precauzionale, in cui, in presenza di dubbi scientifici sulla pericolosità degli OGM, gli Stati devono agire con cautela, per evitare danni alla diversità biologica. La Carta di Siracusa sulla biodiversità del G-8 del 2009 ha confermato questi impegni, ribadendo la necessità di tutelare la biodiversità in modo globale.[26]

Nel contesto europeo l’Unione ha notevolmente accresciuto la tutela dell’ambiente, integrandola progressivamente nelle sue politiche fondamentali. Dall’Atto Unico Europeo del 1987, l’ambiente è riconosciuto come un obiettivo da tutelare; è stato inserito il Titolo VII al Trattato CEE, con tre disposizioni riferite all’ambiente (130R, 130S, 130T)[27] . Gli obiettivi previsti dal nuovo Titolo erano: salvaguardia, protezione e miglioramento della qualità dell’ambiente; contributo alla protezione della salute umana; garanzia dell’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali. Si recepiscono alcuni principi che si sono sviluppati a livello internazionale quali il principio di prevenzione, il “chi inquina paga” e la codifica del principio di precauzione.[28] Il Trattato di Maastricht (1992), il Trattato di Amsterdam (1997)[29] e il Trattato di Lisbona (2009), hanno consolidato il concetto di sviluppo sostenibile come obiettivo prioritario. L’adozione di politiche di trasparenza e partecipazione attiva[30] rafforza la responsabilità delle autorità pubbliche e la qualità delle decisioni ambientali, promuovendo una gestione equilibrata delle risorse naturali in armonia con i diritti delle generazioni future. Il primo riferimento esplicito al concetto di sviluppo sostenibile si trova nel Consiglio europeo di Dublino del 1990, dove gli Stati membri riconoscono l’importanza di un’azione basata sui principi dello sviluppo sostenibile e della prevenzione, affermando che lo sviluppo economico, collegato alla creazione del mercato interno, doveva essere compatibile con l’ambiente. La dichiarazione di Dublino stabilì che lo sviluppo economico dovesse essere “sostenibile e valido dal punto di vista ambientale”. Nel 1993, il Quinto Programma comunitario di politica ambientale e azione per lo sviluppo sostenibile, intitolato “Per uno sviluppo durevole e sostenibile”, richiamò la necessità di applicare le misure concordate nella Conferenza di Rio, puntando a una “riconciliazione” tra ambiente e sviluppo. Sebbene il programma avesse una natura non vincolante, si configurava come un orientamento fondamentale, in cui lo sviluppo sostenibile era trattato come un principio imperativo da articolare in obiettivi raggiungibili progressivamente.

Con il Trattato di Amsterdam (1997), lo sviluppo sostenibile divenne parte integrante degli obiettivi dell’Unione Europea. L’articolo 2 del Trattato stabilì che il primo obiettivo dell’Unione consisteva nel promuovere un progresso economico e sociale sostenibile. Allo stesso modo, l’articolo 6, introdotto con il Trattato di Amsterdam, enunciava il principio di integrazione, sancendo che “le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni comunitarie”. Questo principio, che supera il tradizionale ambito ambientale, implica l’integrazione della sostenibilità in tutte le politiche comunitarie, rendendo la questione ambientale un aspetto trasversale.

Nel 2009, il Trattato di Lisbona ha conferito al principio di sviluppo sostenibile una connotazione ancora più marcata, riconoscendo lo sviluppo sostenibile come uno degli obiettivi principali dell’Unione Europea. L’articolo 3 del Trattato sull’Unione Europea (TUE) stabilisce che l’Unione deve promuovere lo sviluppo sostenibile basato su una crescita economica equilibrata e la protezione dell’ambiente, mirando anche al progresso sociale e alla piena occupazione. L’azione esterna dell’Unione è altresì indirizzata a favorire lo sviluppo sostenibile nei paesi in via di sviluppo, ponendo particolare enfasi sulla protezione dell’ambiente e sulla gestione sostenibile delle risorse naturali mondiali. [31]

La disciplina giuridica internazionale dell’ambiente si è evoluta principalmente a partire dagli anni ’70, segnando una significativa tappa con la Conferenza di Stoccolma, che ha avviato un processo di formazione internazionale culminato con la stipula di numerose convenzioni e il riconoscimento del principio di sviluppo sostenibile. I risultati di Stoccolma, sebbene inizialmente privi di valore giuridico vincolante, hanno influenzato profondamente la normativa internazionale, portando alla creazione di organismi permanenti, come l’UNEP (Consiglio direttivo del Programma Ambientale delle Nazioni Unite) e al consolidamento di obblighi giuridici per gli Stati, tra cui il dovere di non danneggiare l’ambiente degli altri Stati. A Rio de Janeiro, nel 1992, la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo (UNCED) ha ulteriormente rafforzato questa visione con la Dichiarazione di Rio, che ha definito 27 principi orientativi, diventati con il tempo criteri fondamentali per la disciplina giuridica ambientale. L’Agenda 21, piano d’azione non vincolante per il XXI secolo, ha posto l’accento su un approccio integrato, promuovendo una crescita ambientale, sociale ed economica in armonia con il principio di sviluppo sostenibile. A Johannesburg, nel 2002, è stato confermato questo impegno, sebbene i risultati concreti siano stati percepiti come insufficienti, segnalando la difficoltà di tradurre in azioni concrete gli obiettivi internazionali. L’adozione di trattati come la Convenzione quadro sul cambiamento climatico e il Protocollo di Kyoto ha segnato ulteriori sviluppi nel diritto internazionale ambientale, stabilendo obiettivi concreti per la riduzione delle emissioni di gas serra e la protezione della biodiversità. Tuttavia, l’approccio giuridico continua a essere caratterizzato da una certa genericità degli obblighi e da un grado di attuazione che spesso non corrisponde ai rischi ambientali reali. Nonostante ciò, la normativa ambientale internazionale ha visto un progressivo consolidamento dei principi di responsabilità comune ma differenziata, come nel caso del Protocollo di Kyoto, che prevede impegni specifici per i paesi industrializzati e l’introduzione di strumenti come il meccanismo di emission trading.[32]

Il Green Deal Europeo, lanciato nel 2019, rappresenta un passo fondamentale nella politica ambientale dell’Unione, con l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, separando la crescita economica dalle emissioni di gas serra e promuovendo un’economia verde e inclusiva. Sottolinea l’importanza della solidarietà tra Stati membri e integra la sostenibilità in tutte le politiche economiche e industriali. Un esempio di questo approccio è l’European Green Deal Investment Plan, che punta a una transizione verso un’economia climate neutral, verde, competitiva e inclusiva. Le misure proposte mirano a tutelare l’ecosistema e a promuovere la “primazia ecologica”, ponendo la protezione dell’ambiente al di sopra delle esigenze economiche.[33]

In Italia, la Legge 349/1986, istitutiva del Ministero dell’Ambiente, ha segnato l’inizio di un percorso di tutela ambientale sistematica, che si è evoluto per rispondere alle sfide globali della sostenibilità e alle normative europee. La protezione dell’ambiente è così diventata una questione di interesse collettivo, strettamente connessa alla qualità della vita e alla difesa delle risorse naturali. L’articolo 1, comma 2 della Legge 349/1986 così dispone: <<assicurare, in un quadro organico, la promozione, la conservazione ed il recupero delle condizioni ambientali conformi agli interessi fondamentali della collettività ed alla qualità della vita, nonché la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale nazionale e la difesa delle risorse naturali dall’inquinamento>>.

Il Ministero per la Transizione Ecologica ha evoluto la sua struttura per rispondere alle sfide ambientali e alle esigenze di sostenibilità, adattandosi agli sviluppi delle politiche europee e internazionali. L’istituzione, che ha cambiato denominazione dal 1986, è stata recentemente riformata dalla Legge 22/2021, che l’ha trasformato nel Ministero per la Transizione Ecologica, focalizzandosi sulla pianificazione ecologica del territorio.[34] Ulteriori rafforzamenti sono stati operati dalla Legge 173/2021, che ha ampliato il suo ruolo, integrando le competenze energetiche e ponendo in evidenza l’interconnessione tra tutela ambientale e sostenibilità energetica, in linea con gli orientamenti del Green Deal Europeo (EGD). Questo passaggio strategico sottolinea la necessità di politiche integrate che considerano gli aspetti ambientali, energetici e climatici, e la creazione di organismi interministeriali come il Comitato per la transizione ecologica, incaricato di attuare politiche sostenibili. Tali cambiamenti evidenziano l’importanza della cooperazione tra le istituzioni per affrontare le sfide ambientali e promuovere una governance sostenibile.

Il Decreto Legislativo 152/2006, noto come Codice dell’Ambiente, è una delle normative principali in Italia per la gestione ambientale, con principi chiave negli articoli 3-ter a 3-sexies. Esso allinea la legislazione italiana alle direttive europee, affrontando in modo organico le problematiche ambientali. Il Codice dell’Ambiente integra inoltre principi fondamentali[35], come il principio di precauzione, di “chi inquina paga” e quello di sviluppo sostenibile, alla base della politica ambientale italiana. Questi principi, ispirati dalle normative europee, mirano a garantire che le attività umane non danneggino irreversibilmente l’ambiente e a garantire che le generazioni future usufruiscano degli stessi diritti di oggi in termini di qualità ambientale. Il principio di prevenzione, ad esempio, stabilisce che, qualora esista il rischio di danni ambientali, si devono adottare misure per prevenire il danno stesso, anche prima che si verifichi. Di grande rilievo è il principio di sviluppo sostenibile, ripreso nell’art. 3-quater, il quale stabilisce che ogni attività umana giuridicamente rilevante deve conformarsi a tale principio <<al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future».

 

2. Economia circolare: una speranza per la salvaguardia della vita delle prossime generazioni

Il principio dello sviluppo sostenibile rappresenta una delle conquiste più significative della riflessione globale sull’ambiente e sul progresso umano. Esso trova la sua origine nel Rapporto Brundtland, pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo. Il rapporto, intitolato Our Common Future, definisce lo sviluppo sostenibile come quello che <<soddisfa le esigenze del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le loro esigenze>>[36].Questa definizione, sebbene originaria, presupponeva già un principio di equità intergenerazionale, in quanto sanciva la necessità di un utilizzo delle risorse naturali che non danneggiasse la capacità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni. Il concetto di sostenibilità, emerso in un contesto in cui la crescita economica sembrava essere l’unico criterio di sviluppo, ha introdotto un’importante rivoluzione nel diritto internazionale, spostando l’attenzione dalla sovranità assoluta degli Stati sulla gestione delle proprie risorse naturali, in un contesto segnato dalla dottrina westfaliana, verso un approccio collettivo e intergenerazionale. Lo sviluppo sostenibile, infatti, non solo implica l’uso razionale e limitato delle risorse naturali, ma presuppone anche un’etica collettiva che sollecita ogni Stato a considerare le proprie azioni in relazione all’impatto a lungo termine sulle generazioni future (Dworkin, 2004). La definizione originaria di sviluppo sostenibile, pur nella sua semplicità, ha infatti posto l’accento su un’idea fondamentale: la necessità di un modello di sviluppo che rispetti i limiti della biosfera, ma che allo stesso tempo risponda ai bisogni primari dell’umanità, in particolare dei soggetti più vulnerabili.

In ambito giuridico, il principio di sviluppo sostenibile ha suscitato numerosi dibattiti sulla sua natura, sia come principio giuridico vincolante del diritto internazionale dell’ambiente, sia come un obiettivo da perseguire. In effetti, alcuni autori ritengono che si tratti di un principio che impone obblighi giuridici diretti, mentre altri lo considerano più un principio meta-giuridico o una guida per le politiche pubbliche e le azioni di sviluppo. Qualunque sia l’interpretazione giuridica adottata, è evidente che lo sviluppo sostenibile non possa essere ridotto a una formula statica: piuttosto, esso deve essere concepito come un metodo dinamico che permea tutte le politiche pubbliche, la regolazione del mercato e la formazione di nuove leggi, condizionando le scelte economiche, sociali e politiche in una prospettiva intergenerazionale.[37] Oggi, il principio dello sviluppo sostenibile appare più che mai urgente. La crisi globale, alimentata dalla globalizzazione, ha modificato profondamente i modelli di consumo, con effetti devastanti sulle risorse naturali e sull’ambiente, con un modello di sviluppo che ha avuto come effetto un consumo eccessivo di risorse naturali, non solo per soddisfare bisogni primari ma perché con il consumo <<si associa la felicità non tanto alla soddisfazione dei bisogni, ma piuttosto alla costante crescita della quantità e dell’intensità dei desideri>>[38]. Uno scenario che rischia di far trovare le generazioni future senza le risorse necessarie per un benessere simile a quello di cui oggi godiamo, un concetto che giustifica il richiamo alla sostenibilità, intesa come tutela del capitale naturale e umano.

Il termine sostenibilità deriva dal latino sustineo, inteso sia come <<reggere, tenere su>>, sia come <<farsi carico, assumere su di sé l’impegno>>. Si parla di sostenibilità come idea di conservazione, di durata, di qualcosa che esiste e deve continuare ad esistere e anche come assunzione di responsabilità da parte di qualcuno.[39]

Il principio dello sviluppo sostenibile ha trovato ripetuto riconoscimento in ambito internazionale. Tale concetto è stato al centro della Conferenza di Rio del 1992[40], dove è stata approvata l’Agenda 21[41]. Il principio è stato successivamente incorporato nei trattati europei, come il Trattato di Amsterdam e si consolida attraverso l’adozione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Gli SDGs comprendono 17 obiettivi da raggiungere entro il 2030, affrontando questioni cruciali come povertà, uguaglianza di genere, giustizia sociale e protezione dell’ambiente, consolidando l’idea che lo sviluppo sostenibile deve essere perseguito come scopo concreto. L’Europa ha incorporato la sostenibilità in trattati come il Trattato di Amsterdam e ha fissato ambiziosi obiettivi attraverso il Green Deal Europeo, con l’intento di ridurre le emissioni di gas serra del 40% entro il 2030 e diventare il primo continente a impatto zero entro il 2050. Questi obiettivi si inseriscono in un contesto globale di crescente pressione sulle risorse naturali, in parte a causa dei rapidi mutamenti demografici, che rischiano di compromettere l’equilibrio economico, sociale e ambientale del pianeta nei decenni a venire.

Lo sviluppo sostenibile è, quindi, uno degli obiettivi fondamentali dell’Unione Europea, che ha posto la tutela dell’ambiente e la coesione sociale come motori per l’innovazione, la crescita e l’occupazione. La strategia europea per lo sviluppo sostenibile si propone di definire la sostenibilità in termini ampi, indicando che le sue dimensioni economica, sociale e ambientale devono procedere di pari passo e rafforzarsi reciprocamente. In tal modo, la strategia mira a perfezionare l’elaborazione delle politiche, rendendo più coerente l’approccio e informando la cittadinanza riguardo alla possibilità di conciliare obiettivi apparentemente contraddittori. Un altro obiettivo è quello di promuovere una coerenza tra le politiche interne ed esterne dell’Unione, nell’intento di affrontare in maniera globale questioni come i cambiamenti climatici, l’uso delle risorse naturali e la gestione dei rischi per la salute e la povertà.[42]

Nel contesto italiano, il principio di sviluppo sostenibile è stato formalmente riconosciuto e incorporato nella normativa. Il Testo Unico sull’Ambiente prevede che ogni attività giuridica rilevante sia conforme al principio dello sviluppo sostenibile, considerandone l’impatto sull’ambiente e sulle generazioni future[43]. La riforma costituzionale degli articoli 9 e 41 pone enfasi sulla tutela dell’ambiente e delle risorse naturali, facendo riferimento alla responsabilità intergenerazionale e rafforzando il principio di solidarietà ambientale. Un ruolo centrale è svolto dalla giurisprudenza, che deve garantire il rispetto del principio di ragionevolezza, considerando i bisogni intergenerazionali e la responsabilità verso le generazioni future[44]. I giudici dovranno valutare il bilanciamento tra protezione dell’ambiente e attività economiche[45].

A livello nazionale, strumenti come il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC) si pongono come azioni concrete per implementare gli obiettivi di sostenibilità. Il PNIEC è uno strumento fondamentale per la transizione energetica, mirando a ridurre le emissioni di CO2, promuovere l’uso di energie rinnovabili e incentivare la mobilità sostenibile. La decarbonizzazione e l’efficienza energetica sono al centro di questo piano, che prevede una trasformazione profonda dell’economia italiana, compatibile con le sfide globali della sostenibilità ambientale.[46] Il principio dello sviluppo sostenibile sta acquisendo una valenza universale, sia nel diritto internazionale che nei sistemi giuridici nazionali più evoluti. Questo approccio globale è fondamentale per evitare il rischio di una catastrofe ecologica, come evocato dalla celebre frase di Luigi XV, “Après moi le déluge”, e per garantire un futuro più equo e sostenibile per le generazioni future.[47]

Un aspetto cruciale del principio di sviluppo sostenibile è la responsabilità intergenerazionale, cioè l’esigenza di garantire alle future generazioni le stesse opportunità di quelle attuali, tutelando le risorse che oggi, l’uomo, in nome di un maggiore benessere, mette in crisi come capacità di permanere nel tempo.[48] Occorre considerare che l’elaborazione di un programma a lungo termine serve per tutelare i bisogni, non solo dei soggetti attualmente esistenti ma anche di quelli appartenenti alla specie umana [49]che va salvaguardata nella sua interezza. Jonas, nel suo “Principio Responsabilità”, sottolinea come: <<ogni vita solleva la pretesa alla vita e questo è forse un diritto che va rispettato>>.[50]

Il principio fondamentale per lo sviluppo sostenibile è la solidarietà, un valore che guarda al passato e al futuro, particolarmente rilevante nell’ambito ambientale, in quanto impone un impegno per il benessere delle generazioni future. L’autorità di un testo costituzionale dipende dalla sua capacità di rispondere alle esigenze future. Nel caso della Costituzione italiana, il principio di solidarietà è richiamato nell’articolo 2, che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo e stabilisce i doveri di solidarietà politica, economica e sociale. Questa norma è interpretata come aperta a nuovi diritti, implicando nuovi doveri, tra cui quelli legati alla solidarietà ambientale. Inoltre, l’articolo 3, che garantisce l’uguaglianza e il pieno sviluppo della persona umana, si collega al principio di solidarietà, poiché solo in un contesto di solidarietà è possibile realizzare i diritti e i doveri necessari per uno sviluppo umano integrale. La solidarietà ambientale ha una dimensione temporale, estendendosi non solo alle persone presenti, ma anche a quelle future.

Una delle risposte più promettenti per contribuire a uno sviluppo sostenibile è l’economia circolare, un modello che si propone come alternativa al tradizionale approccio lineare dell’economia, incentrato sul consumo e lo smaltimento dei beni. L’economia circolare mira a creare un sistema rigenerativo in cui le risorse vengano utilizzate in modo più efficiente, riducendo al minimo gli sprechi e favorendo il riutilizzo, il riciclo e la valorizzazione dei materiali.

Secondo la Ellen MacArthur Foundation, l’economia circolare è <<un termine generico per definire un’economia pensata per rigenerarsi>>[51]. Questo concetto si fonda su due principi cardine: il primo è il recupero e valorizzazione dei materiali biologici, affinché possano ritornare nel ciclo naturale; il secondo è la progettazione di materiali tecnici riutilizzabili, senza contaminare l’ambiente, tramite riciclo. L’obiettivo finale è una politica “zero waste”, che riduca la produzione di rifiuti[52], estendendo la gestione dei materiali a tutto il ciclo di vita dei prodotti. Il passaggio dall’economia lineare a quella circolare implica una trasformazione profonda delle strutture produttive e dei modelli di consumo, necessari per affrontare le sfide di sostenibilità ambientale ed economica. [53]Le politiche industriali e ambientali devono supportare questo cambiamento, introducendo incentivi per l’adozione di pratiche circolari, promuovendo la ricerca e l’innovazione e sensibilizzando i cittadini sulle pratiche di consumo responsabile. Le politiche pubbliche devono integrare il principio di sostenibilità, garantendo che le scelte politiche considerino le implicazioni ecologiche, sociali ed economiche a lungo termine. Un aspetto cruciale nella gestione della sostenibilità ambientale è la pianificazione territoriale , volta a massimizzare l’efficienza nell’uso delle risorse naturali e ridurre gli impatti ambientali, promuovendo soluzioni innovative per la gestione dei rifiuti e per la riduzione dell’inquinamento A livello europeo, l’Unione Europea ha sviluppato un ampio quadro normativo per promuovere lo sviluppo sostenibile e l’economia circolare. Il Trattato di Lisbona del 2007, ha introdotto il concetto di economia circolare come parte integrante della politica ambientale europea, fissando obiettivi di protezione ambientale e promuovendo l’efficienza nell’uso delle risorse. L’articolo 192 del Trattato sottolinea l’importanza della crescita economica sostenibile e della tutela dell’ambiente come obiettivi fondamentali dell’Unione, a cui si aggiunge l’articolo 194 che definisce le politiche energetiche, centrali per la sostenibilità a lungo termine. Successivamente, iniziative come la Comunicazione “Verso un’economia circolare” del 2014 e il successivo Piano d’Azione del 2015,[54] hanno stabilito un insieme di misure per promuovere modelli di consumo sostenibili e la gestione dei rifiuti. Il “Pacchetto economia circolare” del 2018 ha introdotto una serie di direttive [55]volte a modificare le normative in materia di rifiuti, imballaggi, veicoli fuori uso e prodotti elettronici.

In risposta alla situazione di emergenza climatica, uno degli strumenti più importanti a livello europeo è il Green Deal, che contiene misure per incentivare l’economia circolare, ripristinare e proteggere la biodiversità, ridurre l’inquinamento, identificare strumenti di finanziamento per sostenere la transizione ecologica e garantire che il passaggio a un’economia verde sia inclusivo e giusto. La strategia include anche la creazione di strumenti come l’European Raw Materials Alliance (ERMA) e l’IPCEI[56] per favorire la ricerca e l’innovazione nelle materie prime. Inoltre, la Direttiva Empowering Consumers for the Green Transition mira a rendere i consumatori più informati e responsabili, garantendo loro accesso a informazioni chiare sull’impatto ambientale dei prodotti, tramite strumenti come il PEF (Product Environmental Footprint). Tra le principali azioni previste, la Commissione Europea propone incentivi per favorire l’adozione di pratiche sostenibili nel settore tessile, un settore che ha un impatto ambientale considerevole. In particolare, questo settore è responsabile di circa il 10% delle emissioni globali di CO2 e di circa il 20% dell’inquinamento delle acque potabili, principalmente a causa dei processi di produzione, come la tintura e la finitura dei tessuti.

Il settore della moda, che si inserisce tra i maggiori responsabili dell’impatto ambientale, è al centro delle politiche europee mirate all’economia circolare. La Commissione Europea ha infatti messo a punto una serie di misure per promuovere l’innovazione e il riutilizzo nel settore tessile. Tra queste, l’introduzione di un quadro normativo per la progettazione ecocompatibile, che garantisca la circolarità dei prodotti tessili, limitando l’uso di sostanze chimiche pericolose e favorendo l’impiego di materie prime secondarie. Il Piano d’Azione per l’economia circolare prevede inoltre incentivi per il riutilizzo e il riciclo dei tessili, nonché per il miglioramento dei servizi di raccolta differenziata e di recupero dei materiali tessili, in linea con gli obiettivi di sostenibilità. Nel contesto europeo, l’economia circolare non si limita a un cambiamento nei processi produttivi, ma promuove anche un’occupazione sostenibile. Come evidenziato dalla Commissione Europea, tra il 2012 e il 2018 il numero di posti di lavoro legati all’economia circolare è aumentato del 5%, raggiungendo circa 4 milioni di occupati. Si stima che la transizione verso un’economia circolare comporterà un effetto netto positivo sulla creazione di posti di lavoro, a condizione che i lavoratori acquisiscano le competenze necessarie per adattarsi ai cambiamenti legati alla transizione ecologica.[57]

Il primo passo significativo verso una legislazione nazionale più sostenibile è stato l’introduzione della Legge n. 221/2015, il “Collegato Ambientale”[58]. Questo provvedimento ha reso concreta l’adozione degli obiettivi europei in ambito ambientale e ha stabilito basi normative per lo sviluppo di pratiche sostenibili in diversi settori, dall’economia ai trasporti, dalla gestione dei rifiuti all’energia. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) rappresenta un passo decisivo nella trasformazione dell’Italia verso una sostenibilità a lungo termine. La Missione 2 del PNRR, dedicata alla “Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica”[59], si concentra su obiettivi chiari: la promozione dell’agricoltura sostenibile, l’economia circolare e la gestione efficiente dei rifiuti. Particolare attenzione è dedicata alle aree del sud Italia, dove persistono criticità infrastrutturali. In questo contesto, sono previsti investimenti in “progetti faro” per promuovere tecnologie avanzate per il riciclo di materiali strategici come plastiche, apparecchiature elettriche ed elettroniche e carta. Un altro esempio di innovazione sono le “Isole Verdi”, piccoli laboratori sostenibili che promuovono modelli autosufficienti a livello ambientale.

La legislazione europea sui rifiuti si è sviluppata progressivamente, rispondendo alle preoccupazioni ambientali e alla necessità di una gestione sostenibile. A partire dagli anni ’70, la Comunità Economica Europea (CEE) ha introdotto normative fondamentali, come la Direttiva 442/1975, che ha posto le basi per una gestione responsabile dei rifiuti, includendo riciclaggio e recupero. Gli Stati membri hanno avuto la possibilità di adattare le normative, ma sotto un quadro comune che garantisse la protezione ambientale e la salute umana. Le direttive europee hanno stabilito requisiti rigorosi per la gestione degli impianti di smaltimento, inclusa l’obbligatorietà di una valutazione di impatto ambientale. Tra le direttive significative vi sono quelle sull’incenerimento dei rifiuti pericolosi, che fissano limiti di emissione per prevenire l’inquinamento atmosferico. Il legislatore europeo ha enfatizzato la necessità di pratiche di riciclo, recupero e bonifica, promuovendo tecnologie più pulite e sostenibili. Il 12 dicembre 1991 è stata emanata la Direttiva 689, che integra la Direttiva 156/1991, fornendo normative dettagliate sui rifiuti pericolosi, con norme per la loro gestione, identificazione e tracciabilità, imponendo che le imprese operanti siano autorizzate e sottoposte a rigidi controlli. In linea con gli sviluppi normativi, il Trattato di Maastricht e il Quinto Programma di Azione per l’Ambiente hanno rafforzato l’impegno dell’Unione Europea nella gestione sostenibile dei rifiuti, con l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale delle attività umane e promuovere la sostenibilità a lungo termine. La Convenzione di Basilea del 1989 ha fornito un quadro giuridico internazionale per la gestione dei rifiuti pericolosi, mirando a evitare l’esportazione di questi rifiuti verso Paesi in via di sviluppo, dove i costi di gestione sono più bassi e le leggi meno rigorose.[60] Aderendo a questa convenzione nel 1998, l’Unione Europea ha adottato regolamenti e direttive specifiche, tra cui il Regolamento CEE n. 259/93, che garantiscono la gestione ecologica dei rifiuti attraverso impianti adeguatamente autorizzati e monitorati. [61]La Convenzione, in particolare, ha sottolineato il principio di prossimità, secondo cui i rifiuti pericolosi devono essere gestiti nel Paese di origine per ridurre i trasporti internazionali di materiali nocivi.

Le politiche europee non si limitano alla gestione dei rifiuti pericolosi, ma abbracciano una visione più ampia che include la prevenzione della produzione di rifiuti e la promozione di un’economia circolare. Il Programma d’Azione europeo per l’ambiente del 2001 ha messo in luce la necessità di integrare la sostenibilità nelle politiche economiche, puntando alla riduzione della produzione di rifiuti e all’ottimizzazione dell’uso delle risorse. Nel 2008, la Direttiva Europea sui rifiuti ha introdotto nuove linee guida per una gestione più efficiente, enfatizzando la prevenzione, il riutilizzo e il riciclo, con l’obiettivo di garantire un futuro sostenibile per le generazioni a venire.[62] In particolare, la Direttiva 2008/98/CE ha stabilito una gerarchia dei rifiuti, con la prevenzione della produzione di rifiuti come obiettivo prioritario. In questo contesto, la legislazione ha posto particolare enfasi sul recupero delle risorse, la bonifica e la riduzione dell’impatto ambientale degli impianti di smaltimento. Un ulteriore passo importante è il “pacchetto economia circolare” adottato nel 2015, che propone strategie per un sistema economico più sostenibile, inclusi la riduzione dello spreco alimentare e la promozione del riuso.[63] Il piano ha fissato obiettivi ambiziosi per il riciclo e il recupero dei rifiuti, come il raggiungimento del 65% di riciclo dei rifiuti urbani entro il 2035[64].

In Italia, l’adozione del Codice dell’Ambiente (d.lgs. n. 152/2006) ha consolidato un sistema normativo che privilegia il recupero dei rifiuti rispetto allo smaltimento, integrando l’idea di “End of Waste”, che consente ai materiali riciclati di cessare di essere considerati rifiuti, diventando risorse per l’economia circolare.[65] Con la riforma del d.lgs. n. 205/2010, sono state introdotte modifiche per migliorare la tracciabilità dei rifiuti, ad esempio con l’adozione di tecnologie come il SISTRI (Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti), poi sostituito dal RENTRI (Registro Elettronico Nazionale per la Tracciabilità dei Rifiuti), che consente di monitorare e tracciare il flusso dei rifiuti in modo trasparente e sicuro.

Il concetto di sviluppo sostenibile, sempre più integrato nelle politiche ambientali, implica un’attenzione continua alla protezione delle risorse naturali e alla prevenzione dell’inquinamento, con particolare enfasi sulla promozione di modelli di economia circolare. In questo contesto, la gestione dei rifiuti assume un ruolo fondamentale per la protezione delle generazioni future, riducendo l’uso di materie prime e limitando gli impatti negativi derivanti da discariche e inceneritori. Questo approccio non solo limita i danni ambientali, ma genera anche opportunità economiche legate al riciclo e alla valorizzazione dei materiali di scarto. La gestione dei rifiuti, come processo interconnesso, coinvolge vari attori, ciascuno con specifiche responsabilità per garantire un ciclo sicuro e responsabile. La legislazione in materia coordina le attività di smaltimento, recupero e riciclo, stabilendo obblighi come l’ottenimento di un’autorizzazione per i nuovi impianti di smaltimento e recupero di rifiuti e introduce innovazioni come il sistema di autorizzazioni semplificate per impianti certificati, pur mantenendo rigorosi controlli sulla conformità alle normative ambientali e di sicurezza. Il sistema normativo italiano si inserisce in un quadro di politiche ambientali finalizzate a ridurre l’impatto dei rifiuti sull’ambiente e sulla salute. Il decreto legislativo n. 153 del 2024, che aggiorna il Codice dell’Ambiente, introduce misure per migliorare la sicurezza degli approvvigionamenti e promuovere la circolarità dei materiali, il riutilizzo e il riciclaggio, con un rafforzamento delle funzioni di controllo a livello locale e regionale.

La gestione dei rifiuti si fonda su una chiara ripartizione delle competenze tra Stato, Regioni, Province e Comuni. Lo Stato[66] definisce le linee guida e gli standard generali, le Regioni[67] pianificano la gestione dei rifiuti e i piani di recupero e smaltimento, le Province[68],svolgono funzioni amministrative e di controllo, mentre i Comuni [69]gestiscono i rifiuti urbani e promuovono la raccolta differenziata.

Il principio di sussidiarietà, che guida la legislazione ambientale italiana, implica che le competenze vengano esercitate al livello più vicino ai cittadini, pur rispettando le normative a livello nazionale. Questo principio è stato confermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 129 del 28 maggio 2019[70]. La Corte si è pronunciata sulla legittimità delle norme che trasferivano competenze in materia di gestione dei rifiuti dalle Province alla Regione Toscana, sollevando il TAR Toscana la questione di costituzionalità. La Corte ha evidenziato che, secondo la Costituzione, la gestione dei rifiuti deve bilanciare le competenze statali e regionali, evitando sovrapposizioni che possano compromettere la protezione ambientale. In questo contesto, il Codice dell’Ambiente stabilisce ruoli chiari per i diversi livelli di governo, garantendo un coordinamento efficace. Inoltre, il principio di sussidiarietà richiede che le competenze siano esercitate al livello più vicino ai cittadini, ma sempre nel rispetto di un quadro normativo uniforme a livello statale per assicurare un’adeguata tutela ambientale.

Il concetto di sviluppo sostenibile, quindi, permea le politiche europee e italiane in materia di rifiuti, con l’obiettivo di proteggere l’ambiente e promuovere un modello economico che riduca l’impiego di risorse naturali e minimizzi l’inquinamento. L’implementazione di politiche di prevenzione, riciclo, riutilizzo e recupero risulta fondamentale per garantire un futuro più sostenibile, in cui le risorse vengano utilizzate in modo efficiente e le generazioni future possano godere di un ambiente sano e protetto.

 

3.                                   Sviluppo sostenibile e strumenti a tutela delle generazioni future.

Il concetto di sostenibilità è divenuto centrale nelle politiche globali ed europee, in particolare per quanto riguarda la protezione delle risorse naturali e la promozione di uno sviluppo che garantisca il benessere delle generazioni future. La riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione italiana ha introdotto un nuovo paradigma per lo sviluppo economico e sociale, che integra la necessità di preservare l’ambiente con quella di soddisfare le esigenze economiche ed energetiche contemporanee.[71] Questo approccio implica che le politiche economiche debbano orientarsi verso una tutela effettiva delle risorse naturali, riducendo l’impatto ambientale e promuovendo soluzioni che possano garantire un futuro prospero per le generazioni future. In questo contesto, uno degli strumenti principali per favorire la sostenibilità è il Green Public Procurement (GPP),[72] uno strumento volto a ridurre l’impatto ambientale dei beni acquistati, ma anche un modo per stimolare l’innovazione nel settore privato e sensibilizzare i consumatori verso scelte più sostenibili. Le Pubbliche Amministrazioni, infatti, esercitando la propria funzione di acquirenti, possono indirizzare la domanda di mercato verso prodotti a basso impatto ambientale, incentivando le imprese a sviluppare e offrire soluzioni eco-sostenibili.[73] In questo modo, le politiche di acquisto pubblico possono essere un motore di crescita per un mercato più sostenibile nel lungo periodo.[74]

A livello europeo, la normativa sugli acquisti pubblici verdi ha preso piede tramite atti non vincolanti, come il Libro Verde del 2001 e la Comunicazione della Commissione Europea del 2003, che evidenziavano l’importanza di considerare l’intero ciclo di vita dei prodotti. Un momento cruciale nell’affermazione del GPP è rappresentato dalla Sentenza della Corte di Giustizia Europea “Concordia Bus Finland” del 2002. In questo caso, la Corte ha sancito che gli Stati membri sono liberi di includere criteri ambientali nei bandi di gara, purché tali criteri siano pertinenti all’oggetto dell’appalto e rispettino i principi di trasparenza e parità di trattamento.[75] La sentenza ha stabilito un importante precedente per l’integrazione degli obiettivi ambientali nelle politiche economiche pubbliche, rafforzando l’idea che la sostenibilità non debba essere vista come un valore aggiunto, ma come un obiettivo essenziale da perseguire attraverso tutte le fasi degli appalti pubblici. Successivamente, le Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE hanno ufficialmente riconosciuto la possibilità di integrare i criteri ambientali negli appalti pubblici, [76]un passo che è stato ulteriormente sviluppato dalla Direttiva 2014/24/UE. Quest’ultima ha introdotto il concetto di “life-cycle costing” (LCC), che consente alle amministrazioni di considerare i costi complessivi di un prodotto o servizio durante il suo ciclo di vita, inclusi gli impatti ambientali.

In Italia, la legislazione sugli appalti pubblici ha progressivamente integrato i principi della sostenibilità, come testimoniato dal Codice dei Contratti Pubblici (D.lgs. 163/2006) e dalle successive modifiche introdotte con il Decreto Legislativo 50/2016. L’articolo 2 del D.lgs., 163/2006 così stabiliva: <<il principio di economicità può essere subordinato, entro i limiti in cui sia espressamente consentito dalle norme vigenti e dal presente codice, ai criteri, previsti dal bando, ispirati a esigenze sociali, nonché alla tutela della salute e dell’ambiente e alla promozione dello sviluppo sostenibile>>. Il Codice dei Contratti Pubblici prevede che, quando vengono utilizzati criteri ambientali, questi debbano essere chiaramente indicati nel bando di gara, per garantire trasparenza e consentire a tutti i partecipanti di competere equamente.[77]

Quest’ultimo ha enfatizzato la centralità della sostenibilità negli appalti pubblici, integrando l’uso dei Criteri Ambientali Minimi (CAM) [78] nelle gare di appalto e stabilendo che tutte le amministrazioni pubbliche devono adottare misure ecologiche, in linea con gli obiettivi di sostenibilità ambientale. L’inclusione dei CAM ha portato a una maggiore trasparenza e a una riduzione degli impatti ecologici, favorendo scelte più consapevoli e orientate alla sostenibilità nelle gare. I CAM sono definiti attraverso decreti ministeriali che stabiliscono misure specifiche per diverse categorie di appalti, come i prodotti edili o i servizi energetici. Le stazioni appaltanti sono tenute a includere i CAM nelle procedure di gara e la loro introduzione assicura che gli appalti pubblici contribuiscano effettivamente alla tutela dell’ambiente, riducendo gli impatti ecologici negativi e promuovendo la sostenibilità. L’articolo 30 del D.lgs. 50/2016 sancisce che l’“economicità” debba essere perseguita nel rispetto dello sviluppo sostenibile, con particolare attenzione agli impatti ambientali e alle politiche energetiche.[79] In questo contesto, il legislatore ha cercato di promuovere un equilibrio tra efficienza economica e tutela dell’ambiente.

La versione del Codice degli Appalti del 2016 ha introdotto l’obbligo di rispettare le normative europee, nazionali e i contratti collettivi in materia di sostenibilità, superando il precedente approccio che lasciava alle stazioni appaltanti la discrezionalità nell’imporre condizioni ambientali e sociali.[80] L’articolo 34 sottolinea che tutte le amministrazioni pubbliche sono tenute ad adottare criteri ambientali minimi, garantendo che gli acquisti pubblici rispettino principi ecologici e di efficienza energetica.[81]  Questa evoluzione normativa segna un cambiamento fondamentale nel ruolo degli appalti pubblici, che non sono più solo strumenti per l’acquisizione di beni e servizi, ma anche leve per il perseguimento di politiche pubbliche orientate alla protezione dell’ambiente e al miglioramento delle condizioni di vita delle generazioni future. Il Codice dei contratti pubblici del 2023 ribadisce l’importanza dei CAM per il conseguimento degli obiettivi ambientali, attraverso l’inserimento dei CAM nella documentazione di gara.[82] Il Consiglio di Stato ha inoltre stabilito che l’assenza dei CAM nella gara comporta la sua invalidità.[83]  Pur comportando costi aggiuntivi, l’integrazione dei CAM nella progettazione degli appalti è considerata un passo necessario per garantire un impatto positivo sulle future generazioni e per contribuire al raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità a livello nazionale e internazionale.[84]

Un altro strumento fondamentale in questo ambito è rappresentato dalle certificazioni ambientali, come l’EMAS (Eco-Management and Audit Scheme) e la ISO 14001, che attestano l’impegno delle imprese nel miglioramento delle proprie prestazioni ambientali.[85] L’adozione di sistemi di gestione ambientale è di fondamentale importanza, in quanto consente alle stazioni appaltanti di selezionare fornitori che abbiano integrato nelle loro attività aziendali pratiche orientate alla sostenibilità. Riguardo ai prodotti, invece, si fa riferimento alle eco-etichette, certificazioni che attestano la conformità di un prodotto a determinati standard ambientali. Il loro scopo è semplificare la dimostrazione di qualità ambientale. Tra le eco-etichette, l’Ecolabel europeo è la più riconosciuta e rappresenta un marchio di qualità ambientale.[86]

Il principio dello sviluppo sostenibile, codificato in ambito normativo, deve orientare tutte le politiche pubbliche, affinché le decisioni politiche e amministrative rispondano a una visione a lungo termine, capace di tutelare l’ambiente e il benessere delle generazioni future. La tutela dell’ambiente, infatti, si configura come un atto di responsabilità verso le generazioni future, che sono quelle che subiranno le conseguenze delle nostre scelte, talvolta fatte senza una piena consapevolezza dell’impatto che avranno sull’equilibrio ecologico e sulla qualità della vita. Il D.lgs. 152/2006, noto anche come Codice dell’Ambiente, si propone di promuovere “dei livelli della qualità della vita umana, da realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle condizioni dell’ambiente e l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali” L’art. 3-quater, c.1, afferma che “ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile”. Il Codice disciplina la Valutazione di Impatto

Ambientale (VIA), la Valutazione Ambientale Strategica (VAS) e l’Autorizzazione integrata ambientale (AIA). La VAS è un processo preventivo che si applica a piani e programmi che possano avere impatti significativi sull’ambiente, sulla salute umana e sul patrimonio culturale. In base all’art 4, comma 4 del d.lgs. 152/06, è stabilito che la VAS ha l’obiettivo di: «garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente e contribuire all’integrazione di considerazioni

ambientali all’atto dell’elaborazione, dell’adozione e approvazione di detti piani e programmi assicurando che siano coerenti e contribuiscano alle condizioni per uno sviluppo sostenibile». La VAS, pertanto, non è un procedimento autonomo, ma una fase integrata nel processo di pianificazione, indirizzando le decisioni strategiche verso una gestione più sostenibile delle risorse.[87]

La VAS si distingue dalla Valutazione di Impatto Ambientale (VIA)[88] in quanto si concentra su piani e programmi a livello strategico, mentre la VIA si applica a progetti specifici. La VAS mira a integrare la considerazione degli impatti ambientali nelle fasi iniziali di pianificazione, prevenendo danni prima della realizzazione dei progetti. Essa contribuisce alla gestione sostenibile delle risorse e degli interventi futuri,[89] garantendo che i piani siano coerenti con gli obiettivi di sviluppo sostenibile, come la protezione della biodiversità e la gestione delle risorse naturali.

Parallelamente alla VAS, un altro strumento fondamentale per proteggere le generazioni future è la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA).[90] La VIA è un processo che si applica a progetti specifici che possono avere impatti rilevanti sull’ambiente.[91] La finalità della VIA è “proteggere la salute umana, contribuire alla qualità della vita, provvedere al mantenimento della varietà delle specie e conservare la capacità di riproduzione dell’ecosistema in quanto risorsa essenziale della vita”. Secondo il D. Lgs. 152/2006, essa ha lo scopo di “assicurare che l’attività antropica sia compatibile con le condizioni per uno sviluppo sostenibile”, nonché “di proteggere la salute umana, contribuire con un migliore ambiente alla qualità della vita, provvedere al mantenimento delle specie e conservare la capacità di riproduzione dell’ecosistema in quanto risorsa essenziale per la vita”.[92] La sua funzione è quella di anticipare gli effetti di un progetto, analizzando i suoi impatti sul suolo, sull’aria, sull’acqua, sulla fauna e flora, sulla salute umana e sul paesaggio. La VIA ha un carattere preventivo e si applica prima dell’approvazione dei progetti, affinché le decisioni siano prese in modo consapevole e responsabile. La VIA è regolata dalla Direttiva 2011/92/UE[93] e dal D.lgs. 152/2006 e viene applicata a una vasta gamma di progetti, come infrastrutture, impianti industriali e progetti energetici. Il suo scopo è evitare che lo sviluppo economico danneggi irreparabilmente l’ambiente, suggerendo soluzioni alternative che possano ridurre gli impatti o compensarli in altri modi.[94] La VIA, inoltre, implica un processo di consultazione pubblica e di coinvolgimento delle autorità competenti, che garantisce la trasparenza e l’ascolto delle istanze della comunità e degli esperti in materia ambientale.[95] L’introduzione dell’inchiesta pubblica[96] nel processo di VIA segna un passo importante verso una maggiore trasparenza e un coinvolgimento attivo della cittadinanza, fondamentale per prevenire conflitti e incomprensioni. Questo processo di partecipazione pubblica è particolarmente importante considerando le incertezze intrinseche nella conoscenza ecologica, che rendono necessario un controllo sociale per garantire che le decisioni non siano basate solo su valutazioni tecniche ma anche su un ampio consenso sociale. Nonostante le sue potenzialità, la VIA presenta alcune criticità, come la durata dei procedimenti e la necessità di un monitoraggio costante, che vanno affrontate attraverso il rafforzamento delle normative e degli strumenti di controllo. Solo con un impegno collettivo e una visione a lungo termine sarà possibile garantire che le politiche di sviluppo siano in grado di tutelare l’ambiente e di garantire un futuro prospero per le generazioni future.[97]

La riforma attuata con il Decreto Legislativo 104/2017 ha introdotto nuovi strumenti per semplificare il processo, come il Provvedimento Unico Ambientale (PUA) e il Provvedimento Autorizzatorio Unico Regionale (PAUR), che permettono di integrare le diverse autorizzazioni ambientali in un unico iter procedurale. [98]La VIA può essere quindi definita come “l’insieme di tutti gli effetti di una certa rilevanza – positivi e negativi, diretti e indiretti, temporanei e permanenti, nonché cumulativi e sinergici – che il compimento di un determinato intervento provoca a carico dei vari fattori ambientali (naturalistici e antropici) globalmente considerati; giudizio che tiene conto delle caratteristiche del progetto, delle modalità della sua realizzazione e delle peculiarità del contesto ambientale su cui è destinato ad incidere”[99]. È un “istituto che mira a definire, in modo preciso ed in via preventiva, il rapporto tra lo sfruttamento delle risorse naturali e le condizioni di vita dell’uomo”.[100]

Parallelamente, l’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), introdotta dalla Direttiva 2010/75/UE e attuata dal D.lgs. 46/2014, si applica alle attività industriali potenzialmente inquinanti, garantendo una gestione integrata degli impatti ambientali.[101]L’AIA è quindi l’autorizzazione all’esercizio di una installazione, che può avere effetti negativi sull’ambiente.[102]A differenza della VIA, l’AIA adotta un approccio globale, valutando gli impatti e stabilendo misure preventive e di riduzione dell’inquinamento[103]. Essa è focalizzata sulla prevenzione e riduzione integrata dell’inquinamento in tutte le sue forme (aria, acqua, suolo, rifiuti) e mira a garantire che le attività industriali rispettino i più elevati standard ambientali. Un aspetto distintivo dell’AIA è la sua attenzione alle Best Available Techniques (BAT),[104] ossia alle migliori tecniche disponibili per ridurre l’inquinamento e ottimizzare l’uso delle risorse, contribuendo così alla sostenibilità. La possibilità di monitorare costantemente l’attività industriale e l’obbligo di aggiornamento delle autorizzazioni in base all’evoluzione delle tecnologie e delle normative europee sono elementi che rafforzano la capacità di protezione ambientale. Gli strumenti di VIA e AIA rappresentano il cuore della politica ambientale italiana, mirata a tutelare le generazioni future da impatti ambientali dannosi. È fondamentale che il sistema normativo continui a evolversi per affrontare le sfide legate alla durata dei procedimenti, alla trasparenza e al monitoraggio, assicurando che queste procedure siano efficaci nel promuovere la sostenibilità e nel proteggere le future generazioni.

Un elemento cruciale per la tutela ambientale è la circolazione delle informazioni. Un ampio accesso a tali dati promuove la consapevolezza collettiva e rafforza la “responsabilità ambientale”, ossia la capacità di ogni individuo di adattare il proprio comportamento verso la sostenibilità.[105] La legislazione italiana in materia di accesso alle informazioni ambientali è tra le più avanzate, con la legge 241/90[106] che garantisce, sin dall’inizio, il diritto di accesso ai documenti amministrativi, inclusi quelli di natura ambientale. L’articolo 3-sexies del Codice dell’Ambiente, in particolare, sancisce il diritto per tutti i cittadini di accedere alle informazioni relative allo stato dell’ambiente, senza necessità di dimostrare un interesse giuridico specifico, in linea con la Convenzione di Aarhus del 1998.

La rilevanza del diritto di accesso alle informazioni ambientali è stata ulteriormente consolidata a livello europeo e internazionale. La Direttiva 90/313/CE dell’Unione Europea ha infatti ribadito l’importanza di rendere accessibili a tutti i dati relativi all’ambiente, garantendo che ogni individuo abbia la possibilità di ottenere informazioni senza dover giustificare un interesse specifico. [107]Questo principio è stato consolidato anche dalla Convenzione di Aarhus, che ha definito l’accesso alle informazioni ambientali come un diritto fondamentale e l’Europa ha sviluppato una rete di agenzie nazionali, tra cui l’Agenzia Europea dell’Ambiente (AEA) [108] e l’ISPRA in Italia, per raccogliere e diffondere tali dati. La tecnologia ha un ruolo fondamentale nella diffusione capillare delle informazioni ambientali. Le amministrazioni pubbliche sono chiamate a sfruttare le tecnologie disponibili per aggiornare annualmente le banche dati e garantire che le informazioni siano facilmente accessibili. [109]La circolazione delle informazioni assume particolare rilevanza in contesti di rischio ambientale, dove la disponibilità tempestiva dei dati consente di adottare misure preventive efficaci. La normativa prevede infatti che, anche nei procedimenti amministrativi e autoritativi, le informazioni non solo vengano diffuse, ma siano anche facilmente comprensibili.[110] La sentenza 442/2016 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che l’accesso alle informazioni ambientali debba comprendere non solo i dati attuali, ma anche una valutazione delle implicazioni future, con particolare attenzione agli impatti a medio e lungo termine sull’ambiente. La Corte ha sottolineato che le eccezioni all’accesso dovrebbero essere interpretate in modo restrittivo, soprattutto quando possono compromettere la protezione dell’ambiente.[111]

L’Italia, con il decreto legislativo 33/2013 e la successiva riforma del 2016, ha istituito l’accesso civico generalizzato1[112], che consente a chiunque di consultare i documenti pubblici, compresi quelli relativi all’ambiente, senza dover fornire una motivazione. L’obiettivo di questa misura è garantire maggiore trasparenza e promuovere una partecipazione attiva dei cittadini nella gestione delle risorse naturali.[113]

Il Decreto Trasparenza aggiunge un nuovo importante elemento, all’art. 40 infatti impone l’obbligo alle P.A. di facilitare la circolazione dei dati ambientali, agevolando il pubblico a riconoscerle ed a consultarle. [114]L’art.40 sarà importante anche nel successivo Decreto Clima quando si parla di obblighi dei concessionari pubblici in ordine ai servizi ambientali, i quali non solo devono fornire dati ed informazioni aggiornate ma hanno anche l’obbligo di controllare e verificare che le informazioni rivenienti da sistemi di rilevazione siano corrette. Un elemento distintivo degli strumenti giuridici di tutela ambientale è la loro capacità di garantire una protezione che va oltre le esigenze del presente, mirando a preservare l’ambiente per le generazioni future. In questo contesto, la circolazione delle informazioni e l’accesso a dati ambientali non sono solo questioni di trasparenza e partecipazione, ma rappresentano anche una strategia per costruire una coscienza collettiva orientata alla sostenibilità. L’approccio intergenerazionale alla tutela dell’ambiente implica che le politiche ambientali non siano solo reattive rispetto alle problematiche attuali, ma che prendano in considerazione le implicazioni a lungo termine delle azioni economiche e amministrative.

 

4.              Il ruolo delle associazioni ambientaliste per la protezione delle future generazioni

 

L’interesse per l’ambiente rappresenta uno dei più significativi esempi di interesse diffuso. La sua cura e protezione hanno iniziato a emergere con chiarezza a partire dagli anni ’70, come un bene che appartiene non a singoli individui, ma all’intera comunità. La salvaguardia di questo interesse assume nuove dimensioni, guadagnando un’importanza fino ad allora inedita, soprattutto quando si considera che l’interesse diffuso, quale quello ambientale, non è attribuibile a singoli individui ma è condiviso da tutti gli individui di una società non organizzata e non facilmente identificabile.[115] Si fa riferimento a un interesse adespota, che non è attribuibile a nessun individuo specifico. Questa caratteristica complica la tutela legale, ma la dottrina e la giurisprudenza hanno cercato di superare tale difficoltà sostenendo che tale interesse possa essere rappresentato da un ente collettivo che agisce in nome di un gruppo organizzato.

Inizialmente, la protezione di tali interessi è stata negata, a causa dell’assenza del requisito di differenziazione, fondamentale per qualificare un interesse come legittimo. La giurisprudenza escludeva qualsiasi forma di tutela per questi interessi. Solo a partire dagli anni ’70[116] si è affermata l’idea che, in base anche all’articolo 24 della Costituzione, fosse possibile riconoscere un interesse legittimo di natura collettiva, rappresentabile da un ente, in possesso di determinati requisiti. L’individuazione di enti esponenziali che agiscono formalmente e statutariamente per proteggere un interesse diffuso, diventando così portatori di una “posizione soggettiva” giuridicamente rilevante, permette che, attraverso il loro riconoscimento, si possano impugnare provvedimenti amministrativi che si considerano lesivi degli interessi che tali organismi collettivi rappresentano. Tali enti hanno la legittimazione a contestare le decisioni della PA quando queste danneggiano gli interessi della collettività che rappresentano. Con la creazione dell’ente esponenziale, gli interessi diffusi acquistano la capacità di essere tutelati in tribunale, difesi attraverso azioni legali.[117] Il legislatore ha introdotto una serie di disposizioni per consentire la tutela di specifici interessi diffusi, affidando tale responsabilità a enti e associazioni. Per quanto riguarda gli interessi ambientali[118], la custodia è stata assegnata, in base agli articoli 13[119] e 18[120] della legge 349 del 1986, ad associazioni di difesa ambientale designate attraverso un apposito decreto. L’art 18 è stato modificato con la legge 152/2006. Ad oggi, il codice dell’ambiente ha innovato la disciplina prevista nel 1986, recependo la direttiva comunitaria 2004/35/CE, in particolare con gli articoli 309 e 310 dedicati alle associazioni ambientaliste.

Le associazioni devono ottenere riconoscimento dal Ministero attraverso criteri oggettivi e devono soddisfare quattro requisiti fondamentali:

  • Requisito territoriale: L’associazione deve avere una presenza nazionale o deve operare in almeno cinque regioni italiane.
  • Statuto: Lo statuto dell’associazione deve avere come obiettivo principale la tutela dell’ambiente e deve essere fondato su principi democratici, garantendo così una gestione equa e partecipativa.
  • Continuità dell’azione: L’associazione deve dimostrare un impegno costante nel tempo; non può essere creata solo per affrontare un singolo caso legale o per promuovere un giudizio, ma deve avere attività continuative.
  • Rilevanza esterna: Le finalità dell’associazione devono essere concrete e attuabili, non devono rimanere solo a livello teorico o programmatico. Questo significa che l’associazione deve dimostrare di svolgere attività tangibili e pratiche per raggiungere i suoi obiettivi.

Attualmente, la legittimazione processuale delle associazioni ambientaliste si basa sul principio del “doppio binario,”[121] che prevede due forme di legittimazione: legittimazione ex lege e legittimazione giudiziale. [122] Quest’ultima è riconosciuta solo quando sono soddisfatti tre presupposti:

  • L’associazione deve perseguire in modo non occasionale obiettivi di conservazione degli habitat naturali, come stabilito nel proprio statuto.
  • Deve possedere un adeguato grado di rappresentatività e stabilità.
  • Deve avere un’area di afferenza che sia collegabile alla zona in cui si trova il bene di fruizione collettiva che si ritiene danneggiato.

Per poter agire in giudizio, elemento necessario è quello della vicinitas, inteso come un legame stabile e duraturo con il territorio.[123] Questo significa che non possono essere riconosciuti come legittimati a intraprendere azioni legali quei comitati che si formano solo per opporsi a iniziative specifiche, senza un radicamento permanente nella comunità. La giurisprudenza ha ripetutamente escluso la possibilità che gruppi temporanei di cittadini possano presentare azioni legali, dato che la loro finalità è limitata a situazioni specifiche e non rappresentano un interesse più ampio e duraturo per la tutela ambientale. Ciò che viene messo in evidenza è l’importanza che ha assunto il principio della sussidiarietà orizzontale, a seguito della modifica del titolo V della Costituzione. L’intervento delle istituzioni pubbliche è giustificato solo quando i cittadini e le loro associazioni non sono in grado di soddisfare da soli gli interessi e le esigenze della comunità. In altre parole, il pubblico dovrebbe intervenire solo se il privato non riesce a farlo in modo efficace. Questo approccio promuove una maggiore responsabilità e partecipazione dei cittadini e delle associazioni nel soddisfare le esigenze collettive. I cittadini e le associazioni hanno il diritto di contestare legalmente l’operato delle istituzioni pubbliche se ritengono che queste non stiano rispettando il principio di sussidiarietà o non stiano operando nel migliore interesse della comunità. Nella nota sentenza del TAR Liguria del 2004,[124] il giudice, riprende le indicazioni fornite dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato, nel parere n. 1440/2003, in tema di sussidiarietà orizzontale: <<Il dettato costituzionale, precisa l’Adunanza Generale, delinea una condizione di autonomia slegata da qualsiasi obbligo di riconoscimento, autorizzazione o, qualsivoglia, qualificazione istituzionale delle attività di interesse generale poste in essere da soggetti comunitari, per cui l’autonomia appare più semplicemente correlata alla società civile e al suo sviluppo democratico a livello quasi sempre volontario.>> De Leonardis afferma:<<il principio di sussidiarietà in senso orizzontale sembra giocare un ruolo fondamentale nel favorire la responsabilizzazione dei privati, singoli o nelle loro forme associative, proprio in relazione alla delicatezza della materia, nei confronti dell’ambiente: l’insieme dei soggetti che curano l’interesse generale in campo ambientale è oramai plurisoggettivo dal momento che assieme ai soggetti pubblici istituzionali competenti, svolgono ruoli sempre più attivi oltre ai cittadini le associazioni ambientaliste e le stesse imprese>>. [125]Anche Paolo Carpentieri ritiene che la direzione da seguire sia “quella della sussidiarietà orizzontale, della partecipazione democratica delle persone, singole o associate, perché facciano sentire il peso dell’interesse generale, in sussidio e in supplenza rispetto alle amministrazioni competenti. È del resto noto e condiviso il ruolo centrale svolto dalla partecipazione attiva dell’associazionismo in campo ambientale”[126] La tutela del paesaggio, conclude Carpentieri, “deve essere integrata dal protagonismo attivo delle associazioni ambientaliste e dei cittadini comunque organizzati, al fine di dare corpo e sostanza all’interesse diffuso alla tutela paesaggistica, altrimenti destinato a soccombere al più pervicace interesse economico produttivo che mira al consumo del territorio”.[127] Inizialmente veniva data un’interpretazione letterale e restrittiva dell’art 13 del codice dell’ambiente, riconoscendo legittimazione ad agire in giudizio solo a quegli organismi inseriti nell’elenco ministeriale[128]. Un cambiamento decisivo vi è stato con la sentenza n. 182 del 1996 del Consiglio di Stato: il giudice deve accertare che l’associazione possieda determinate caratteristiche che la rendano rappresentativa degli interessi collettivi. Questo può includere il numero di membri, la partecipazione attiva nella comunità o l’esperienza nel campo della tutela ambientale. Il giudice verifica il grado di rappresentatività dell’ente e il suo impegno concreto e continuo nella tutela dell’ambiente. Con riferimento alle articolazioni territoriali, inizialmente se ne escludeva la loro legittimazione ad agire in giudizio, solo nel 2012 il Consiglio di Stato ha riconosciuto la legittimazione a proporre azioni giudiziarie oltre che al Presidente dell’associazione anche ai rappresentanti delle sedi regionali.[129] Il Consiglio di Stato ha riconosciuto a un’articolazione territoriale la possibilità di agire in giudizio purché rappresenti un interesse pregiudicato dall’atto impugnato e purché lo statuto dell’associazione nazionale preveda che la rappresentanza legale non è solo riservata al Presidente nazionale ma anche ai presidenti delle sezioni regionali. La sentenza riconosce che la legittimazione ad agire può essere derivata dalle norme statutarie delle associazioni, consentendo quindi flessibilità nell’interpretazione di chi può rappresentare l’associazione in giudizio. La mancata legittimazione degli enti territoriali entrerebbe in contrasto con quanto previsto nell’art 9 della Convenzione di Aarhus, [130]ratificata dall’Italia e con l’art 10bis della Direttiva europea 85/337/CE. Ulteriore elemento a favore della legittimazione a ricorrere delle associazioni ambientali locali è il principio di sussidiarietà orizzontale, così come previsto oggi all’art. 118 della Costituzione.[131]

Altra questione che bisogna affrontare riguarda l’estensione della legittimazione processuale delle associazioni ambientaliste, in particolare riguardo alla loro capacità di contestare atti di natura urbanistica, edilizia, accogliendo una definizione estesa di interesse ambientale. Inizialmente vi era una interpretazione restrittiva della legittimazione ad agire, potendo gli organismi collettivi ambientali intervenire solo per la tutela di interessi strettamente ambientali.[132] Ad oggi i tribunali hanno stabilito con alcune pronunce il diritto delle associazioni ambientaliste a contestare atti urbanistici ed edilizi.[133]Questo perché la materia ambientale ha caratteristiche uniche che la collegano a diversi beni della vita, e quindi la sua tutela è considerata un aspetto fondamentale anche nelle decisioni urbanistiche. L’ambiente non è visto come un settore isolato, ma piuttosto come un insieme che interagisce con vari ambiti giuridici e competenze amministrative. Fondamentale a tal punto è la sentenza del Consiglio di Stato n.36 del 2014 che afferma: <<gli atti che costituiscono esercizio di pianificazione urbanistica, la localizzazione di opere pubbliche, gli atti autorizzatori di interventi edilizi, nella misura in cui possano comportare danno per l’ambiente ben possono essere oggetto di impugnazione da parte delle associazioni ambientaliste, in quanto atti latamente rientranti nella materia ‘ambiente’, in relazione alla quale si definisce (e perimetra) la legittimazione delle predette associazioni>>.

Come abbiamo avuto modo di vedere la tutela dell’ambiente ha acquisito sempre maggiore rilevanza all’interno del nostro ordinamento, ma c’è un altro elemento che è strettamente legato a tale tema ed è lo sviluppo sostenibile e la tutela delle generazioni future, che troviamo espressamente tutelato nell’art 3-quater del codice dell’ambiente.[134] Si pone un dovere di solidarietà intergenerazionale, non si può non tenere conto del dovere di preservare il pianeta per chi verrà dopo di noi.[135] Il concetto di responsabilità intergenerazionale è, in effetti, richiamato in numerosi strumenti di diritto internazionale, in particolare in relazione al principio di sviluppo sostenibile. Secondo questa visione, il dovere di preservare l’ambiente non riguarda soltanto le generazioni presenti, ma si estende alle future generazioni, le quali sono titolari di specifici diritti in materia di tutela dell’ambiente. Il principio di responsabilità intergenerazionale viene richiamato anche da figure autorevoli come Benedetto XVI, il quale, nel Messaggio per la XLIII Giornata Mondiale della Pace, sottolinea l’importanza di tale dovere, evidenziando la gravità e l’irreversibilità del deterioramento ambientale. Il Papa afferma infatti che <<l’eredità del Creato appartiene [..] all’intera umanità, ma che l’attuale ritmo di sfruttamento delle risorse naturali mette seriamente in pericolo non solo la disponibilità di queste risorse per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future>>. Tale riflessione si inserisce in un contesto più ampio che evidenzia come la responsabilità verso l’ambiente non possa essere limitata alla sola dimensione temporale attuale, ma debba estendersi nel lungo periodo, come un legame di solidarietà tra le generazioni. [136]La Convenzione di Aarhus, all’art. 1 prevede:<< Per contribuire a tutelare il diritto di ogni persona, nelle generazioni presenti e future, a vivere in un ambiente atto ad assicurare la sua salute e il suo benessere, ciascuna parte garantisce il diritto di accesso alle informazioni, di partecipazione del pubblico ai processi decisionali e di accesso alla giustizia in materia ambientale in conformità delle disposizioni della presente convenzione>>. Il problema più rilevante nella tutela dei diritti delle generazioni future, risiede nella loro “giustiziabilità”, cioè la possibilità di farli valere in giudizio. Il problema principale è che le generazioni future, per definizione, non esistono ancora e quindi non hanno un titolare che possa legalmente agire per difendere tali diritti. Di conseguenza tali diritti non sarebbero azionabili, cioè non potrebbero essere difesi. [137]Proviamo però a cambiare prospettiva, come affermato da Luciani, per il quale, non dovremmo declinare l’esigenza di tutela in termini di diritto delle generazioni future, ma di dovere della generazione presente.[138] La Convenzione di Aarhus, all’articolo 9, offre una possibile soluzione, stabilendo che ciascun Paese deve garantire a chi ha un “interesse sufficiente” o che faccia valere una violazione di un diritto, l’accesso a una procedura di ricorso[139]. Sebbene la Convenzione favorisca un ampio accesso alla giustizia, lascia alle legislazioni nazionali la definizione dei criteri di ammissibilità dei ricorsi, garantendo così il rispetto della sovranità nazionale. Rinviare agli ordinamenti interni per determinare le condizioni di ammissibilità del ricorso può comportare difficoltà per il singolo individuo che desidera accedere alla giustizia. In alcuni casi, le regole nazionali potrebbero limitare l’accesso dei cittadini a tribunali imparziali e indipendenti, o potrebbero ostacolare il diritto dei singoli a contestare decisioni che li riguardano in materia ambientale. L’art.1 della convenzione supporta la legittimazione ad agire “uti civis”, tuttavia l’art 9 che si occupa in modo specifico dei diritti legati all’ambiente, non supporta allo stesso modo tale legittimazione ad agire del singolo cittadino, favorendo maggiormente le associazioni ambientaliste nel presentare i ricorsi.[140]

La tutela delle generazioni future trova riscontro sia nella legge positiva che nella giurisprudenza[141], occorre ora capire con quali strumenti rendere effettiva tale dovere. Vi sono due strumenti che vengono presi in considerazione: uno amministrativo e l’altro giurisdizionale. Un esempio rilevante è l’istituzione, in Francia, del Consiglio per i diritti delle generazioni future, creato nel 1993 con il compito di rappresentare gli interessi di lungo periodo. A livello globale, sono stati proposti organi internazionali, come un Ombudsman planetario, che potrebbero monitorare e intervenire su questioni ambientali di rilevanza per le generazioni future. Le Nazioni Unite hanno supportato la creazione di tali istituzioni, sebbene l’introduzione di nuovi organismi potrebbe comportare difficoltà finanziarie e sollevare il dibattito sulla loro effettiva necessità. Tuttavia tali soluzioni potrebbero far emergere alcune difficoltà, in particolare quelle finanziarie. La creazione di nuovi organismi comporta inevitabilmente dei costi e ciò solleva il problema se sia giustificabile istituire strutture aggiuntive. Alcuni si chiedono anche se non sia possibile raggiungere gli stessi obiettivi di protezione senza ricorrere alla creazione di nuovi enti, magari cercando soluzioni alternative per rendere effettiva la tutela delle generazioni future senza aumentare la spesa pubblica.[142]

Accanto alla soluzione amministrativa, la seconda strada consiste nell’ampliare la legittimazione ad agire in sede giurisdizionale, ossia nella possibilità di più soggetti, di intraprendere azioni legali per difendere l’ambiente. Questo ampliamento implica una maggiore diffusione del potere giuridico, attraverso un rafforzamento delle attribuzioni e dei diritti già posseduti dalle associazioni ambientaliste, riconoscendo una sorta di legittimazione collettiva.[143] Michele Ainis condivide questa visione, proponendo che il processo di ampliamento della legittimazione si sviluppi dal basso verso l’alto, cioè partendo dalle realtà civili, come le associazioni, che sono più vicine ai cittadini e alla loro quotidianità. Ainis, sottolinea che nell’ambito della tutela ambientale, le associazioni riconosciute possiedono già una funzione di “difensore civico”, ma si differenziano dal tradizionale ombudsman perché operano in modo collettivo e non monocratico.[144]

Una delle pronunce più significative sul riconoscimento del diritto delle generazioni future a far valere i propri interessi è il caso Minors Oposa v. Secretary of the departement of environment and natural resources. Nel caso Minor Oposa, un gruppo di minorenni, i loro genitori e un’associazione ambientalista hanno fatto ricorso contro il Ministero delle Risorse Naturali per fermare la deforestazione causata dal governo. La Corte Suprema delle Filippine ha riconosciuto la legittimazione ad agire per le generazioni future, considerando che anche esse devono essere legalmente rappresentate in ambito ambientale.[145] Questa decisione è storica per due ragioni principali:

  • Riconoscimento della legittimazione ad agire per le generazioni future: la Corte ha riconosciuto che anche le generazioni future devono essere rappresentate legalmente quando si tratta di questioni ambientali, un principio che fino a quel momento non era stato ampiamente riconosciuto nelle corti internazionali.
  • Primo precedente giuridico per il riconoscimento dei diritti delle generazioni future in un contesto giuridico concreto, come quello ambientale.

La sentenza della Corte Suprema delle Filippine, riveste un’importanza storica poiché rappresenta il primo caso, in cui le generazioni future sono state riconosciute come aventi diritto di agire in giudizio. la Corte ha conferito un legittimo interesse alle generazioni a venire per intraprendere azioni legali a tutela dei propri diritti, un principio che potrebbe aprire la strada all’effettività del principio intergenerazionale.

 

5.           Il recente contenzioso climatico e le nuove prospettive sulla legittimazione ad agire in materia ambientale.

Il tema della legittimazione processuale è tornato ad oggi a essere centrale, in virtù dei contenziosi in tema di cambiamento climatico, noti come “climate change litigation”. Si fa riferimento ai procedimenti legali che hanno lo scopo di garantire che le politiche climatiche siano allineate al principio dello sviluppo sostenibile, con una visione orientata a proteggere il futuro del pianeta. In questo ambito, diversi attori, tra cui associazioni ambientaliste e singoli cittadini, possono intraprendere azioni legali in difesa non solo di interessi personali, ma di un interesse collettivo e transgenerazionale che abbraccia anche le generazioni future.

L’Accordo di Parigi, adottato durante la 21ª Conferenza delle Parti [146]della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici[147], una volta ratificato dai singoli Stati, contribuisce a definire le politiche nazionali in materia di clima ed energia. Esso costituisce, inoltre, un punto di riferimento obbligato per le Corti nazionali nell’interpretazione delle normative interne pertinenti. Le Parti firmatarie dell’Accordo si sono impegnate a rispettare le misure delineate nei loro Contributi Determinati a livello Nazionale (NDCs)[148] e pertanto qualsiasi azione che contrasti con tali impegni è da considerarsi illegittima. Questo aspetto riveste particolare rilevanza nel contesto del contenzioso climatico. Con la sottoscrizione dell’Accordo, le Parti hanno riconosciuto le evidenze scientifiche sui cambiamenti climatici presentate dal Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici [149]e si sono impegnate a limitare l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali. Tale impegno fornisce argomentazioni cruciali a favore della giustiziabilità delle obbligazioni relative al cambiamento climatico. Sebbene l’Accordo non stabilisca un limite vincolante per le emissioni di ciascun Paese, esso consente di trarre indicazioni sui limiti e sulle azioni da adottare dai contributi volontari dei singoli Stati e permette, altresì, di valutare l’adeguatezza di tali misure in relazione all’obiettivo globale definito dalla comunità internazionale.

Un caso di rilevanza significativa è la decisione in merito alla Legge tedesca sul clima del 2019, che imponeva al Governo federale l’obbligo di ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, senza tuttavia considerare gli impegni internazionali assunti dalla Germania, primo fra tutti l’Accordo di Parigi del 2015, che stabilisce specifici obblighi di contenimento dell’aumento della temperatura globale da rispettarsi entro il 2050, al fine di raggiungere la c.d. “neutralità climatica”. La pronuncia, articolata, ha avuto il merito di aver introdotto la dimensione temporale nel linguaggio del giudice federale tedesco. Il Tribunale ha dichiarato incostituzionale la legge, nella parte in cui non contemplava disposizioni relative alla riduzione delle emissioni di gas serra per il periodo successivo al 2030. Secondo quanto affermato dalla Corte, l’obiettivo fissato dalla Legge del 2019 avrebbe imposto alle generazioni future oneri di riduzione delle emissioni di gas serra significativamente più gravosi, da attuarsi a partire dal 2031, con conseguente esenzione eccessiva degli oneri per la generazione presente, in violazione dell’articolo 20a della Costituzione tedesca, che impone allo Stato di tutelare l’ambiente e di adottare soluzioni adeguate a contrastare il cambiamento climatico. In sostanza, i giudici hanno riconosciuto nelle disposizioni impugnate un “effetto anticipato di interferenza” con i diritti delle generazioni future.[150] Come evidenziato dalla sentenza, «Lo spostamento in avanti dei limiti di inquinamento viola l’obbligo di lasciare alla posterità condizioni tali per cui non si trasferiranno alle future generazioni i sacrifici che oggi si rinviano»[151]. La sentenza assume una valenza particolarmente significativa per il fatto che per la prima volta un giudice di tale rilevanza porta una norma costituzionale ad avere effetti in un contesto intertemporale, cioè capace di attraversare e influenzare diverse generazioni, non limitandosi al presente ma considerando anche il futuro. Il Tribunale non si limita a risolvere una questione giuridica immediata, ma amplia il suo orizzonte, riconoscendo che le decisioni legali devono tener conto anche delle implicazioni a lungo termine, non solo in relazione alle generazioni attuali ma anche rispetto a quelle che ancora devono nascere.

Analogo atteggiamento di avanguardia, sembra aver assunto, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Duarte Agostinho[152], che coinvolge un gruppo di sei giovani portoghesi che hanno denunciato 33 Stati membri, Italia inclusa, per la mancata adozione di misure sufficienti a contrastare i cambiamenti climatici, con l’accusa di violare i loro diritti fondamentali. I ricorrenti, giovani di età compresa tra i 10 e i 23 anni, sostengono che gli incendi boschivi, le ondate di calore e le calamità naturali che affliggono annualmente il Portogallo, a partire dal 2017, siano un effetto diretto del cambiamento climatico. Il rischio per la loro salute è presentato non solo come un danno fisico, ma anche come un trauma psicologico derivante dalla paura di vivere in un ambiente sempre più ostile, sia per loro che per le future generazioni. I ricorrenti citano una violazione degli articoli 2 (diritto alla vita) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, sostenendo che gli Stati accusati non abbiano adottato le misure necessarie per ridurre le emissioni inquinanti, contravvenendo così agli impegni presi con l’Accordo di Parigi del 2015. Inoltre, viene invocato l’articolo 14 della CEDU (divieto di discriminazione), poiché i ricorrenti, in quanto giovani, sarebbero colpiti in modo particolarmente grave dal riscaldamento globale, un effetto che non riguarda con la stessa intensità le generazioni più anziane. In questo senso, il caso assume una rilevanza particolare, in quanto affronta la responsabilità degli Stati rispetto al cambiamento climatico attraverso una prospettiva giuridica innovativa.[153] La Corte di Strasburgo ha deciso di trattare il caso con urgenza, riconoscendo l’importanza delle questioni sollevate e rimettendo il caso alla Grande Camera, confermando così la “strategicità” della causa.[154]

Le politiche climatiche inevitabilmente si legano con il concetto di sviluppo sostenibile, che implica una visione orientata al lungo periodo per salvaguardare il futuro del pianeta. Nella lettura del contenzioso climatico, la solidarietà assume un ruolo fondamentale, riconoscendo che vari attori, non solo le associazioni ambientaliste, ma anche singoli cittadini che subiscono danni concreti dalla crisi climatica, possano intraprendere azioni legali. Questo approccio allarga il concetto di interesse, non limitandolo al piano individuale ma estendendolo a una dimensione collettiva e transgenerazionale, che abbraccia le generazioni future. In questo contesto, si pone l’accento sulla possibilità di impugnare decisioni amministrative, ovvero atti della Pubblica Amministrazione che non rispettano lo sviluppo sostenibile o che non adottano misure adeguate a contrastare il cambiamento climatico. La finalità è forzare le istituzioni pubbliche a rispettare gli impegni internazionali, come quelli derivanti dagli Accordi di Parigi sul clima,[155] affinché adottino azioni concrete contro il riscaldamento globale. Un tema centrale nel contenzioso climatico è la “legittimazione attiva”, ovvero la questione di chi abbia effettivamente il diritto di avviare un’azione legale. Tradizionalmente, solo chi ha un interesse qualificato e specifico può agire in giudizio. Tuttavia, questa concezione sembra entrare in conflitto con la Convenzione di Aarhus, che promuove una legittimazione più ampia per consentire una protezione efficace dell’ambiente. Il tema della legittimazione, quindi, è controverso, poiché spesso nelle azioni legali relative al clima l’attore non può facilmente dimostrare un danno immediato, dato che si chiede ai governi di adottare misure di mitigazione delle emissioni che avranno effetti positivi solo a lungo termine, in un futuro stimato di decenni.[156]

In tema di contenzioso climatico, nei sistemi di common law, vengono utilizzati strumenti come la Public Trust Doctrine e la Public Interest Litigation. [157] La Public Trust Doctrine stabilisce che certe risorse naturali (come l’acqua, l’aria, le terre pubbliche) devono essere protette e gestite dallo Stato per il bene della collettività. L’applicabilità di questa dottrina al contenzioso climatico è stata oggetto di discussione, in quanto essa implica che lo Stato abbia il dovere di tutelare l’ambiente e, di conseguenza, potrebbe essere coinvolto in cause legali relative al cambiamento climatico. La PIL invece consente a chiunque di portare in giudizio questioni di rilevanza pubblica, incluso il diritto all’ambiente sano, promuovendo un principio di accesso alla giustizia che ha origine dal diritto romano.

Sicuramente un caso emblematico, che ha dato il via al contenzioso climatico in Europa è Urgenda c. Paesi Bassi, del 2015, dove la Corte Suprema dei Paesi Bassi ha condannato il governo olandese a ridurre le proprie emissioni di gas serra almeno del 25% entro la fine del 2020, un obiettivo più ambizioso rispetto agli impegni assunti dai Paesi Bassi con il Protocollo di Kyoto. [158] La Corte olandese ha stabilito che tale riduzione non fosse un impegno politico, ma un dovere giuridico vincolante, a tutela del “diritto al clima”, che è inteso come diritto fondamentale alla sopravvivenza.

Altri casi significativi sono Zoe Foster & Stella Foster v. Washington State e Juliana v. USA, che hanno riconosciuto l’interesse delle generazioni future e il diritto a un ambiente sano come base per la legittimazione processuale. In Juliana v. USA aspetto centrale di questa è che la Corte federale dell’Oregon, nella sentenza del novembre 2016, ha ammesso la legittimazione processuale degli attori, includendo anche l’interesse delle generazioni future. Questo punto è particolarmente significativo perché si è basato sull’applicazione della Public Trust Doctrine.[159]

Al di fuori dell’Europa il primo caso di climate change litigation è Massachussetts v. Epa. Il 2 aprile 2007, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha preso una decisione significativa in un ambito relativamente nuovo ma di grande rilevanza: la protezione dell’ambiente contro il fenomeno del surriscaldamento globale, i cambiamenti climatici e il controllo dell’effetto serra. Il caso riguardava l’interpretazione di una sezione specifica del Clean Air Act (CAA), precisamente il paragrafo 202, che stabilisce che la Environmental Protection Agency (EPA), l’agenzia federale incaricata della protezione ambientale, abbia l’obbligo di adottare misure per limitare le emissioni di inquinanti atmosferici. La Corte Suprema ha confermato che l’EPA ha l’autorità e l’obbligo di regolamentare le emissioni di gas serra, rafforzando la necessità di politiche ambientali più rigorose per fronteggiare il riscaldamento globale e proteggere la salute pubblica.[160]

Nonostante fino a questo momento in Italia, non siano stati avviati ricorsi amministrativi riguardo al cambiamento climatico, in altri Paesi esistono esempi significativi di azioni legali. Famoso è il caso Affaire du Siècle. La sentenza del 3 febbraio 2021 emessa dal Tribunale Amministrativo di Parigi rappresenta un importante punto di riferimento giuridico nella questione della responsabilità statale in relazione alla crisi climatica. In questa decisione, il tribunale ha riconosciuto per la prima volta che lo Stato francese è responsabile per la gestione inadeguata della crisi climatica, attribuendo la colpa alla sua carenza di azioni efficaci per ridurre le emissioni di gas serra, in violazione degli impegni assunti a livello nazionale e internazionale. Ha dunque confermato l’esistenza di un danno ecologico, sottolineando come il mancato rispetto degli obiettivi di riduzione delle emissioni da parte dello Stato abbia contribuito direttamente al peggioramento della situazione. Il Tribunale ha riconosciuto che il fallimento dello Stato nel rispettare i suoi impegni climatici impedisce alle associazioni ricorrenti, che difendono i diritti umani e l’ambiente, di tutelare efficacemente gli interessi collettivi legati alla protezione dell’ambiente e della salute pubblica. Di conseguenza, il tribunale ha ordinato un risarcimento simbolico di un euro alle associazioni come compensazione per il danno morale subito a causa della violazione degli impegni statali.[161]

Ad oggi i casi di contenzioso climatico in Italia sono due. Il primo è conosciuto come “Giudizio Universale”, azione civile intrapresa di recente presso il Tribunale di Roma da 203 ricorrenti, che comprende sia associazioni che cittadini[162] e Il secondo caso, noto come “Giusta Causa”, è stato avviato nel 2023, da singoli cittadini e da Greenpeace e ReCommon, contro la compagnia petrolifera Eni, davanti al Tribunale di Roma per non aver rispettato gli obiettivi climatici internazionalmente riconosciuti, che dovrebbero essere in linea con gli impegni dell’Accordo di Parigi e con gli scenari scientifici elaborati dalla comunità internazionale. Secondo la loro tesi, ciò comporterebbe una violazione degli articoli 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani e un’eventuale responsabilità extracontrattuale, in base all’articolo 2043 del codice civile italiano, il quale tutela i diritti umani da danni ingiusti. In subordine, qualora non si riconoscesse la responsabilità di Eni, gli attori avanzano anche la possibilità di invocare la responsabilità da attività pericolose, ai sensi degli articoli 2050 e 2051 del codice civile. Gli attori chiedono al tribunale di condannare Eni ad adottare misure concrete per ridurre le proprie emissioni di CO2, con una riduzione di almeno il 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020.

Nel febbraio 2024, il Tribunale di Roma ha emesso la sua sentenza sul caso Giudizio Universale, respingendo la causa e dichiarando un difetto di giurisdizione, ritenendo che la domanda avanzata fosse diretta a contestare la politica nazionale in materia di cambiamento climatico, il che esula dalle competenze giurisdizionali del tribunale. Questa conclusione è stata considerata da alcuni come un approccio più limitato rispetto alla decisione della Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), che nella causa Klima Seniorinnen[163] ha riconosciuto il ruolo attivo dei giudici, inclusi quelli nazionali, nel tutelare i diritti umani in contesti legati al cambiamento climatico. La sentenza di primo grado del Tribunale di Roma è stata dunque impugnata e si prevede che la Corte d’Appello possa tenere conto delle riflessioni fatte dalla Corte EDU, che sono viste come una guida per il futuro di questo tipo di contenzioso. Le organizzazioni coinvolte hanno fatto ricorso alla Corte di Cassazione, chiedendo chiarimenti sulla giurisdizione per garantire l’accesso alla giustizia climatica in Italia, sollevando così la questione della responsabilità legale dello Stato e delle imprese per i danni ambientali. Questo ricorso nasce dalla preoccupazione che la Corte possa confermare il “difetto assoluto di giurisdizione”, come accaduto in precedenti contenziosi, escludendo così la possibilità di portare cause climatiche davanti a un tribunale italiano. Le organizzazioni chiedono una risposta chiara e decisa, ritenendo che l’inerzia nell’affrontare i danni ambientali causati dalle attività umane sia una minaccia per il futuro del pianeta.

In numerosi casi, eventi climatici estremi possono determinare situazioni di instabilità tali da obbligare le popolazioni di specifiche aree geografiche a lasciare le proprie terre di origine. L’Ordinanza n. 5022/21 della Corte di Cassazione offre significativi spunti di riflessione in merito alla definizione di nuove categorie di migranti, i cosiddetti “ambientali,” i quali, pur emergendo da un contesto giurisprudenziale, non hanno ancora trovato una regolamentazione normativa chiara.

Un ulteriore aspetto di rilevanza riguarda la Convenzione di Ginevra del 1951 e la sua attuale inadeguatezza nel rispondere alle esigenze di coloro che, legittimamente o meno, richiedono protezione internazionale per motivi legati a disastri ambientali. Secondo l’articolo 1 della suddetta Convenzione, lo status di rifugiato è concesso a chi, a causa di un fondato timore di persecuzione per ragioni di razza, religione o opinioni politiche, si trova al di fuori del proprio paese e non può o non vuole avvalersi della protezione di quest’ultimo. È evidente che tale previsione non può essere estesa al rifugiato ambientale.

Nonostante l’assenza di specifiche disposizioni normative relative alla protezione dei migranti causata da eventi ambientali, l’Ordinanza della Corte di Cassazione, sebbene non recente, continua a costituire un riferimento significativo per includere i disastri ambientali tra le circostanze che giustificano la protezione umanitaria, al di fuori del contesto conflittuale. In tale caso, un cittadino della regione del Delta del Niger, area ricca di giacimenti petroliferi sfruttati da compagnie internazionali e gravemente danneggiata da tali attività, aveva chiesto protezione. Il Tribunale aveva rigettato la sua richiesta, ritenendo che il disagio subito non fosse dovuto a conflitti armati o a una situazione equivalente. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, affermando che la protezione umanitaria può essere concessa anche in presenza di disastri ambientali che mettano a rischio il diritto alla vita e all’esistenza dignitosa. Il pericolo per la vita, infatti, non deve necessariamente derivare da conflitti armati, ma può emergere anche da situazioni di degrado socio- ambientale.

La Corte ha sottolineato che la protezione non deve limitarsi ai conflitti armati, ma deve estendersi anche a contesti di grave deterioramento ambientale, qualora questi mettano in pericolo i diritti fondamentali dell’individuo, come il diritto alla vita, alla libertà e all’autodeterminazione. Inoltre, ha evidenziato che un ambiente socio-ambientale compromesso può costituire un rischio tale da minacciare gravemente la sopravvivenza dell’individuo e della sua famiglia, compromettendo la sua dignità personale.

La Corte ha fatto riferimento al noto caso Teitiota c. Nuova Zelanda[164], con cui il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha stabilito che lo Stato ha l’obbligo di non respingere persone la cui vita sia in pericolo a causa di un disastro ambientale, pur precisando che tale principio non implica necessariamente il riconoscimento dello status di rifugiato.

In conclusione, la Corte di Cassazione, facendo riferimento a precedenti decisioni, ha affermato che il riconoscimento della protezione umanitaria deve considerare il rischio di compromissione dei diritti essenziali, anche in assenza di conflitti armati, estendendo tale tutela anche ai casi di disastri ambientali. Questo approccio, pur non introducendo una nuova categoria di rifugiati ambientali, stabilisce un importante principio di non respingimento, applicabile a tutte le situazioni in cui le condizioni di vita di un individuo sono gravemente minacciate da fattori socio-ambientali.[165]

Una delle principali difficoltà nella climate change litigation è l’accesso alla giustizia per la protezione di interessi che sono superindividuali e indifferenziati, cioè non legati a un danno diretto e personale, ma a un danno collettivo e globale. Il cambiamento climatico è un fenomeno che riguarda l’intero pianeta e che non ha confini territoriali netti. Ciò porta a ripensare un criterio fondamentale per la legittimazione ad agire, che è quello della “vicinitas”, dato che in molti casi i ricorrenti non sono nemmeno cittadini dello stato contro cui fanno causa.[166] Ci sono infatti controversie in cui le persone di Paesi non coinvolti direttamente in una causa legale lamentano danni causati da politiche inadeguate in altri Stati, come la mancata adozione di misure per contrastare il cambiamento climatico. Tale tipo di contenzioso mette in evidenza la difficoltà di applicare i tradizionali principi giuridici legati alla legittimazione attiva a cause che non hanno una delimitazione territoriale ben definita. A tal proposito è stato elaborato il concetto di “vicinitas globale”[167]. Una delle caratteristiche distintive del contenzioso climatico è che piuttosto che chiedere una compensazione per un danno subito, l’obiettivo è indurre lo Stato a prendere misure necessarie per proteggere l’ambiente, come misure di mitigazione (per ridurre il cambiamento climatico) e adattamento (per rispondere agli impatti del cambiamento climatico). L’idea è di ottenere politiche che salvaguardino non solo le generazioni presenti, ma anche quelle future. A tal proposito si è sviluppata l’espressione “liti strategiche”[168] cioè cause legali che non cercano un beneficio immediato o personale per chi le promuove, ma si concentrano sul fatto di spingere lo Stato (o talvolta le imprese) a rispettare gli impegni internazionali sul cambiamento climatico. Le cause strategiche possono essere dirette contro il governo o contro singole imprese, con lo scopo di promuovere politiche e pratiche che favoriscano lo sviluppo sostenibile e che riducano gli effetti negativi del cambiamento climatico. Altro aspetto centrale riguarda il requisito del nesso di causalità tra la condotta e il danno. [169] Tradizionalmente il cittadino intraprende una causa legale perché vittima che ha subito un danno diretto e reale. Nel caso delle cause climatiche, il singolo agisce come guardiano, sollecitando lo Stato al rispetto degli impegni internazionali. Questo nuovo ruolo implica che il singolo sia più un attore proattivo, che cerca di influenzare la politica ambientale e di assicurarsi che vengano adottate le misure necessarie a prevenire danni futuri. Un elemento importante del contenzioso climatico è che non si tratta tanto di un diritto al “clima” in senso stretto, quanto di un dovere di protezione che lo Stato ha nei confronti della popolazione, comprese le generazioni future. Questo dovere è visto come un obbligo positivo dello Stato di adottare misure concrete per proteggere l’ambiente e garantire la sostenibilità del pianeta.

Inizialmente, il processo giuridico era concepito per tutelare diritti individuali, come la proprietà. Il diritto di agire in giudizio era esclusivamente legato alla difesa di interessi personali. L’articolo 24 della Costituzione italiana, infatti, stabilisce che chiunque può rivolgersi al giudice per difendere i propri diritti e interessi legittimi. Tuttavia, l’interesse ambientale non è qualcosa che può essere “soggettivizzato” in un individuo. Poiché non c’era nessuno in grado di agire direttamente per tutelare l’ambiente, la giurisprudenza e poi il legislatore hanno cominciato a riconoscere la legittimazione ad agire alle associazioni ambientaliste. Queste associazioni sono state considerate i soggetti giuridici più adatti a rappresentare gli interessi dell’ambiente. La vicinanza “affettiva” tra l’associazione e l’ambiente è diventata il criterio per riconoscere la legittimazione, che nel tempo si è ampliata, estendendo il diritto di agire anche alle associazioni che non erano ufficialmente riconosciute. Il punto centrale è perché solo le associazioni ambientaliste o le ONG dovrebbero avere il diritto di agire in difesa dell’ambiente e delle generazioni future. Non potrebbe anche un singolo cittadino, che si sente coinvolto nella tutela ambientale, agire in giudizio per difendere gli interessi delle generazioni future? Ciò di cui si parla è la “legittimazione popolare” e la possibilità che ogni cittadino possa intervenire per la protezione dell’ambiente, proprio come avviene in altri contesti giuridici. A livello comunitario, la Convenzione di Aarhus (soprattutto gli articoli 2 e 6) sancisce che tutti i cittadini devono avere il diritto di partecipare alle decisioni ambientali, senza bisogno di dimostrare un interesse diretto. Questo approccio è un esempio di come la partecipazione popolare sia vista come un diritto fondamentale in materia ambientale. Il riferimento all’articolo 310 del Decreto Legislativo 152/2006, in linea con l’art. 13 della direttiva 2004/35/CE evidenzia come il diritto italiano si stia orientando verso una maggiore apertura anche per i singoli cittadini e non solo per le persone giuridiche come le associazioni. Questi cambiamenti normativi riflettono la volontà di allinearsi con la prospettiva europea di maggiore partecipazione civile alla tutela ambientale.[170]

In tema di legittimazione ad agire in materia ambientale, occorre soffermarsi sul ruolo svolto dal principio di sussidiarietà orizzontale, previsto nell’art 118 cost., che stabilisce che lo Stato e gli enti locali devono favorire l’iniziativa autonoma dei cittadini e delle loro associazioni in attività di interesse generale. La dottrina e la giurisprudenza amministrativa hanno esaminato come applicare questo principio in ambito processuale. [171] In particolare, si è discusso se il principio di sussidiarietà consenta a singoli cittadini (e non solo alle associazioni registrate) di agire in giudizio per difendere interessi collettivi o meta individuali, come la tutela dell’ambiente. Tradizionalmente, il diritto di agire in giudizio per la tutela degli interessi ambientali è stato riconosciuto solo ad associazioni ambientaliste registrate presso il Ministero dell’Ambiente. Tuttavia, alcune decisioni giuridiche hanno cominciato a riconoscere la legittimazione ad agire anche a comitati spontanei di cittadini, in virtù del principio di sussidiarietà orizzontale. La giurisprudenza ha evoluto questa visione per permettere anche a soggetti non formalmente costituiti come associazioni di difendere gli interessi collettivi, allargando la legittimazione a ricorrere in giudizio. [172]Una parte della giurisprudenza ha avuto una visione restrittiva sulla legittimazione ad agire, sostenendo che non si dovrebbe trasformare il sistema processuale amministrativo in una giurisdizione di tipo oggettivo, che consenta a chiunque di agire in nome della tutela degli interessi diffusi. In pratica, questo approccio teme che si possano introdurre azioni popolari in modo surrettizio, ovvero cause in cui non è chiaro chi abbia subito danno, ma in cui ogni cittadino può agire in difesa di interessi collettivi.[173]Tuttavia tale impostazione restrittiva sembra entrare in contrasto con l’art. 118, che tende a supportare una legittimazione attiva non solo per le associazioni sociali, ma anche per singoli cittadini che si siano attivamente impegnati nella difesa di un interesse collettivo. In altre parole, chiunque abbia preso iniziative concrete per la protezione dell’ambiente dovrebbe poter avere il diritto di ricorrere in giudizio per difendere questi interessi metaindividuali.[174] Alla legittimazione a partecipare a un procedimento amministrativo dovrebbe essere collegata una legittimazione processuale. Ciò significa che chi ha il diritto di intervenire nel processo amministrativo per questioni ambientali dovrebbe avere anche il diritto di agire in giudizio per difendere tali interessi.[175] Il principio di sussidiarietà orizzontale, sancito dall’art. 118 della Costituzione, implica che cittadini e associazioni possano agire direttamente nella tutela di beni comuni, senza necessità di essere autorizzati dallo Stato o da altre istituzioni.

Questo principio consente di prescindere dalla necessità di un interesse differenziato, ossia che i cittadini non devono necessariamente dimostrare di aver subito un danno specifico. Sarebbe, secondo questo indirizzo dottrinario, inappropriato chiedere a chi agisce per tutelare un bene collettivo, come l’ambiente, di provare di essere stato personalmente danneggiato. Si sostiene che, in questo contesto, l’azione legale non si basa su un danno individuale, ma sulla tutela di un interesse che riguarda tutti. Nonostante l’approccio basato sulla sussidiarietà orizzontale sembri più inclusivo, c’è un ostacolo giuridico: le norme costituzionali (articoli 24 e 103 della Costituzione) che sembrano orientate a riconoscere la legittimazione ad agire in giudizio solo a chi ha un interesse individuale e specifico. L’articolo 24 della Costituzione prevede che “tutti possono agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi”, ma la giurisprudenza ha tradizionalmente richiesto che tali diritti siano individuali e ben definiti. Parte della dottrina suggerisce però una nuova lettura dell’art.24, in cui non solo gli interessi individuali, ma anche gli interessi collettivi, come la protezione dell’ambiente, possono essere tutelati in giudizio. Il concetto di “bene comune” (come l’ambiente) entra in gioco qui come una categoria giuridica che non è legata a diritti individuali ma a beni condivisi dalla collettività.[176] La legittimazione a tutelare l’ambiente potrebbe, quindi, essere estesa a tutti i cittadini, non solo a quelli con un danno specifico, poiché l’interesse ambientale è di natura comune e riguarda tutti.[177] L’approccio suggerito implica un superamento dell’individualismo nel diritto sostanziale. Non si tratta più di difendere un diritto solo per la persona che ha subito il danno diretto, ma di difendere un bene comune che appartiene alla collettività. In altre parole, mentre nel diritto tradizionale le persone agivano in giudizio per tutelare i propri diritti individuali, in un sistema che considera i beni comuni, si ammette che ogni cittadino, in quanto parte della collettività, possa difendere questi beni. Tutti siamo chiamati a proteggere l’ambiente per le generazioni future. Il principio dello sviluppo sostenibile, infatti, implica che non solo le generazioni presenti, ma anche quelle future, abbiano il diritto a un ambiente sano. Tuttavia, per garantire questo, non basta riconoscere il diritto all’ambiente, ma si devono porre in essere dei doveri da parte degli individui e delle istituzioni. Il concetto di sviluppo sostenibile non si limita al diritto individuale di ogni cittadino a un ambiente salubre, ma va oltre, collegandosi a un dovere collettivo di solidarietà[178](art. 2 della Costituzione italiana), che implica la responsabilità di agire anche per il benessere delle generazioni future e le leggi e le decisioni giuridiche costituiscono strumenti fondamentali di tutela. Se si vuole ampliare la legittimazione ad agire a livello ambientale, questa evoluzione non può essere lasciata alla dottrina o alla giurisprudenza, ma deve essere una scelta di politica legislativa, cioè una decisione che riguarda il legislatore, il quale deve creare le leggi che consentano questa evoluzione.[179]

Per riuscire a comprendere la profondità del tema trattato, il tutto può essere racchiuso nell’ormai celebre brocardo:<< non abbiamo ricevuto la terra in eredità dai nostri padri, ma in usufrutto dai nostri nipoti>>, suggerendo l’idea che ogni generazione ha la responsabilità di lasciare il mondo migliore di come lo ha trovato.[180]

 

6.           Considerazioni conclusive

La crescente consapevolezza della necessità di tutelare l’ambiente, sancita da importanti atti internazionali come la Convenzione di Aarhus e l’Accordo di Parigi, dimostra che la protezione dell’ambiente non può più essere considerata un tema marginale, ma un imperativo che riguarda tanto la giustizia sociale quanto quella intergenerazionale. In questo contesto, il ruolo del giudice amministrativo è stato determinante, poiché si è visto chiamato a rivedere e adattare gli strumenti giuridici, per tutelare un valore emergente come l’ambiente,

rispondendo alle sfide del cambiamento climatico, della perdita della biodiversità e del deterioramento degli ecosistemi. Tali questioni non solo minacciano la qualità della vita delle generazioni presenti, ma pongono un compito gravoso per le generazioni future, che si trovano ad affrontare le conseguenze delle scelte fatte oggi. La responsabilità verso le generazioni future, richiamata dal Rapporto Brundtland del 1987, ha assunto un valore centrale, orientando le politiche pubbliche verso un nuovo modello di sviluppo che integra la sostenibilità economica, sociale e ambientale. L’inquinamento e i cambiamenti climatici hanno avuto gravi impatti sulla salute, mentre la crescente produzione annuale di rifiuti, molti dei quali tossici e non biodegradabili, rappresenta un ulteriore fattore di degrado ambientale. Il sistema attuale è profondamente influenzato dalla cultura dell’usa e getta; la crisi che stiamo affrontando è innanzitutto una crisi socio- ambientale e per questo è diventato indispensabile sviluppare il nuovo modello di economia circolare, mettendo in pratica un’idea di economia che restituisce al pianeta ciò che gli è stato tolto, partendo da una prospettiva che includa le generazioni future nel processo di pianificazione. Nonostante gli sviluppi normativi italiani, vi sono ancora numerose difficoltà nell’attuazione concreta di questi principi. La politica che viene attuata si basa su obiettivi di breve termine, sulla soddisfazione delle esigenze consumistiche della popolazione. Vi sono difficoltà legate alla mancanza di un coordinamento efficiente a livello amministrativo e alla resistenza di alcuni settori economici a cambiare paradigma. In questo scenario, gli strumenti giuridici come il Green Public Procurement e le valutazioni ambientali hanno mostrato un potenziale significativo nel promuovere politiche ecologiche e sostenibili. Tuttavia, l’efficacia di tali strumenti dipende in gran parte dalla capacità di garantire trasparenza, partecipazione e un adeguato controllo delle politiche adottate, con il principio di sussidiarietà che assume un ruolo cruciale, favorendo soluzioni che nascono dal livello locale e coinvolgono i cittadini. Un elemento chiave in questo processo è la giurisprudenza amministrativa, che ha assunto un ruolo cruciale nel riconoscere e valorizzare l’interesse delle future generazioni. Le associazioni ambientaliste, a loro volta, hanno visto aumentare la loro legittimazione ad agire, contribuendo non solo alla protezione dell’ambiente, ma ponendo anche un argine contro l’indifferenza o l’insufficienza delle politiche pubbliche nei confronti delle generazioni future. Nonostante i progressi compiuti, le difficoltà nella concreta attuazione della tutela ambientale restano molteplici. La giustizia amministrativa deve affrontare la sfida di tradurre in atti concreti e in politiche efficaci le nobili intenzioni che permeano la normativa e le dichiarazioni internazionali. In tal senso, non deve solo reagire alle problematiche ambientali in atto, ma deve essere in grado di anticipare e risolvere le problematiche che emergeranno nel futuro, creando un sistema giuridico che veda la sostenibilità come valore sistemico e la protezione dell’ambiente come una priorità assoluta, non come qualcosa da trattare solo in caso di emergenza. Il legame tra sviluppo sostenibile, giustizia sociale e tutela dell’ambiente è essenziale. Le generazioni future non sono soltanto le destinatarie passive delle nostre scelte, ma sono i veri “giudici” delle decisioni prese oggi. La sfida è quella di garantire loro un mondo che sia in grado di offrire una buona qualità della vita, partendo dalla tutela dell’ambiente come valore inalienabile. Le considerazioni esposte evidenziano un passaggio fondamentale nel campo della tutela ambientale: il diritto dei singoli cittadini ad agire in giudizio per difendere un bene collettivo e globale, come l’ambiente. La crescente rilevanza del cambiamento climatico, fenomeno senza confini territoriali che coinvolge l’intera umanità, richiede una radicale trasformazione del concetto di legittimazione ad agire. La legittimazione non deve più essere limitata ai danni diretti e individuali, ma deve estendersi a un interesse collettivo e diffuso per la protezione dell’ambiente. In questo contesto, l’idea di “vicinitas globale” diventa cruciale: la vicinanza affettiva e giuridica tra l’individuo e l’interesse ambientale può legittimare anche chi non è direttamente coinvolto, ma si sente responsabile per la salvaguardia del pianeta. Le cause legali in tema di cambiamento climatico sono un esempio di “liti strategiche”, dove l’obiettivo non è solo il risarcimento per danni immediati, ma l’obbligo per Stati e imprese di rispettare gli impegni internazionali e adottare politiche concrete di mitigazione e adattamento. Le politiche ambientali devono mirare non solo a proteggere l’ambiente per le generazioni presenti, ma garantire che le generazioni future possano vivere in un mondo sostenibile, attraverso la legittimazione ad agire come strumento di protezione di beni collettivi. L’evoluzione del diritto processuale, per come si è strutturato tradizionalmente, pone ora una riflessione sul principio di sussidiarietà orizzontale, sancito dall’art. 118 della Costituzione italiana. Questo principio, che stabilisce che lo Stato e gli enti locali debbano favorire l’iniziativa autonoma dei cittadini e delle associazioni in attività di interesse generale, deve essere applicato anche al contenzioso ambientale. Il diritto di agire per la tutela dell’ambiente non dovrebbe essere limitato alle associazioni ambientaliste, ma dovrebbe estendersi a tutti i cittadini che dimostrano un interesse concreto e attivo nella protezione dell’ambiente. La giurisprudenza ha iniziato ad evolvere in questa direzione, ammettendo che anche comitati spontanei di cittadini possano legittimamente agire in giudizio, superando il requisito della “vicinanza” territoriale o affettiva tradizionalmente richiesto. Questo orientamento rappresenta un’importante apertura verso una maggiore partecipazione popolare nella tutela ambientale, in linea con le disposizioni della Convenzione di Aarhus, che sancisce il diritto di ogni cittadino di partecipare alle decisioni ambientali, senza necessità di dimostrare un interesse diretto. La legittimazione processuale dovrebbe essere quindi estesa a chiunque abbia la possibilità di intervenire in un processo amministrativo in materia ambientale, non solo a chi ha subito danni specifici, ma a chi ha intrapreso azioni concrete a favore della sostenibilità. Tuttavia, l’evoluzione della legittimazione ad agire per la difesa dell’ambiente non può essere lasciata esclusivamente alla giurisprudenza e alla dottrina, ma deve diventare una scelta politica a livello legislativo. È fondamentale che il legislatore intervenga per creare un quadro giuridico che consenta a tutti i cittadini di difendere l’ambiente in giudizio, riconoscendo che la protezione di un bene collettivo non è solo una questione di diritto individuale, ma un dovere collettivo e intergenerazionale. La giurisprudenza, pur avendo in alcuni casi mostrato resistenza a riconoscere un accesso libero alla giustizia per i singoli cittadini, deve orientarsi verso un’interpretazione più inclusiva e partecipativa, che tenga conto dell’interesse collettivo alla tutela dell’ambiente.

Il principio di solidarietà intergenerazionale è intimamente connesso alla riflessione di Giovanni Paolo II che ha affermato come il rispetto per la vita e, «in primo luogo», per la dignità della persona umana costituiscano la «fondamentale norma ispiratrice di un sano progresso». In questo senso, la giustizia sociale non si limita al riconoscimento dei diritti degli individui nelle loro esigenze immediate, ma si estende anche al rispetto del diritto delle generazioni future a vivere in un mondo sano e sostenibile. La crisi ecologica e sociale, infatti, non è solo una questione di tutela ambientale, ma una questione di giustizia, che si intreccia con la dignità della persona umana e con la responsabilità collettiva di garantire un futuro vivibile per tutti.

L’intera analisi può essere racchiusa nelle parole dell’enciclica “LAUDATO Sì” di Papa Francesco esempio emblematico della profondità e dell’importanza che oggi riveste l’ambiente e soprattutto la necessità di ripensare l’umanità: << La nozione di bene comune coinvolge anche le generazioni future. Le crisi economiche internazionali hanno mostrato con crudezza gli effetti nocivi che porta con sé il disconoscimento di un destino comune, dal quale non possono essere esclusi coloro che verranno dopo di noi. Ormai non si può parlare di sviluppo sostenibile senza una solidarietà fra le generazioni. Quando pensiamo alla situazione in cui si lascia il pianeta alle future generazioni, entriamo in un’altra logica, quella del dono gratuito che riceviamo e comunichiamo. Se la terra ci è donata, non possiamo più pensare soltanto a partire da un criterio utilitarista di efficienza e produttività per il profitto individuale. Non stiamo parlando di un atteggiamento opzionale, bensì di una questione essenziale di giustizia, dal momento che la terra che abbiamo ricevuto appartiene anche a coloro che verranno…Eppure, non tutto è perduto, perché gli esseri umani … possono anche superarsi, ritornare a scegliere il bene e rigenerarsi, al di là di qualsiasi condizionamento psicologico e sociale che venga loro imposto. Sono capaci di guardare a sé stessi con onestà, di far emergere il proprio disgusto e di intraprendere nuove strade verso la vera libertà … Ad ogni persona di questo mondo chiedo di non dimenticare questa sua dignità che nessuno ha diritto di toglierle>>.

 

[1] P. Torretta, Responsabilità intergenerazionale e procedimento legislativo. Soggetti, strumenti e procedure di positivizzazione degli interessi delle generazioni future, in R. Bifulco, A. D’Aloia (cur.), Un diritto per il futuro. Teorie e modelli dello sviluppo sostenibile e della responsabilità intergenerazionale, Jovene, Napoli.

[2] Si parla di beni che appartengono a tutti, che soddisfano bisogni comuni e quindi inalienabili. Le res communis omnium si collegano al territorio, non si tratta solo di un insieme di risorse materiali, ma sono elemento fondamentale per la coesione sociale e il benessere collettivo

[3] S. Cassese, I beni pubblici, Giuffrè editore, Milano, 1969, pag. 175 ss.

[4] F. Tassi, Difendere la natura in Italia. Missione impossibile? in Riflessioni sistemiche, n. 4, maggio 2011

[5] U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Bari-Roma, 2011

[6] A. Lucarelli, Proprietà pubblica, principi costituzionali e tutela dei diritti, in “I beni pubblici dal governo democratico dell’economia alla riforma del codice civile”, Accademia Nazionale dei Lincei, Scienze e Lettere Editore Commerciale, Roma, 2010, pag. 90.

[7] Cass. Civ. sez. un., 14 febbraio 2011, n. 3665, pp. 6 e 8.

[8] D. Messinetti, Oggettività giuridica delle cose incorporali, Giuffrè, Milano, 1970.

[9] S. Rodotà’, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 201

[10] E. Ruozzi, Il ruolo della Santa Sede e dei valori cattolici nell’affermazione di principi internazionali di tutela ambientale, in AA.VV., Studi in onore di Augusto Sinagra, Aracne, Roma, 2013, p.615 e ss.

[11] Corte Cost., sent. n. 210/1987.

[12] M. Cecchetti, Legislazione statale e legislazione regionale per la tutela dell’ambiente: niente di nuovo dopo la riforma costituzionale del Titolo V? in Regioni, 2003, n.1, p.318 e ss.

[13] F. Benelli, “La smaterializzazione delle materie”. Problemi teorici e applicativi del nuovo Titolo V della Costituzione, Giuffrè editore, Milano, 2006.

[14] Vedi Corte Cost., sent. n. 407/2002.

[15] P. Maddalena, La nuova giurisprudenza costituzionale in tema di tutela dell’ambiente, in Ambiente e Sviluppo, 2012, n.1, p.5 e ss.

[16] M. Michetti, La tutela dell’ambiente nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in AA.VV., Scritti in onore di

[17] M. Cecchetti, Riforma del Titolo V della Costituzione e sistema delle fonti: problemi e prospettive nella materia

«tutela dell’ambiente e dell’ecosistema», in Federalismi.it, 13 giugno 2002.

[18] N. Olivetti Rason e C. Sartoretti, La disciplina dell’ambiente nella pluralità degli ordinamenti giuridici, in A. Crosetti, R. Ferrara, F. Fracchia e N. Olivetti Rason (Cura), Introduzione al diritto ambientale, Laterza, Roma, 2017, p. 4.

[19] E. Corcione, Diritti umani, cambiamento climatico e definizione giudiziale dello standard di condotta, in Diritti umani e diritto internazionale, n. 1, 2019, pp. 199-200.

 

[20] P. Lombardi, Ambiente e generazioni future: la dimensione temporale della solidarietàwww.federalismi.it, fasc. 1/2023.

[21] S. Grassi, Ambiente e Costituzione, in Rivista quadrimestrale di diritto dell’ambiente, n.3/2017.

[22] Corte Edu 19 febbraio 1998, Guerra e altri c. Italia, ric. n. 14967/89; Corte Edu 8 luglio 2003, Hatton c. Regno Unito, ric. n. 36022/97. Altre pronunce significative si rinvengono nella causa Tatar c. Romania, dove per la prima volta viene incluso il diritto a un <<ambiente sano e protetto>> nell’ambito dell’art 8 e la sentenza Dubetska e altri c. Ucraina, dove la Corte ha ribadito che si può fare riferimento all’art 8 <<quando un rischio ambientale raggiunge un livello di gravità tale da tradursi in una compromissione significativa della capacità del richiedente di godere della propria vita privata o familiare o della propria casa>>. Fondamentale è la sentenza Cordella c. Italia, del 24 gennaio 2019, relativa al caso

Ilva di Taranto74 dove l’Italia è stata condannata per violazione dell’art 8 Cedu, non avendo adottato le misure idonee a proteggere l’ambiente dalle emissioni inquinanti, violando la vita privata dei residenti delle zone interessate

 

[23] S. Marchisio, Il diritto internazionale dell’ambiente, in CORDINI G. – FOIS P. – MARCHISIO S. (a cura di), Diritto ambientale. Profili internazionali, europei e comparati, Giappichelli, Torino, 2017, pagg. 1 ss.

[24] S. Marchisio, Il diritto internazionale ambientale da Rio a Johannesburg, in E. R. Acuna (a cura di), Profili di diritto ambientale da Rio De Janeiro a Johannesburg, Giappichelli, Torino, 2004, pp. 20 ss.

[25] I.A. Nicotra, Dall’accesso generalizzato in materia ambientale al Freedom of information act, in www.federalismi.it, fasc. 12/2018.

[26] A. Sinagra, P. Bargiacchi, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffrè editore, Milano, 2016

[27] Atto Unico Europeo, GU L 169/1987, in eur-lex.europa.eu

[28] R.Bertuzzi, A. Tedaldi Il principio di precauzione in materia ambientalewww.tuttoambiente.it

[29] L’Art 174, comma 1, del Trattato di Amsterdam prevede la:<salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente, protezione della salute umana, utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale>>.

[30] F. Albanese, Il diritto di accesso agli atti e alle informazioni ambientali, in www.lexambiente.it.

 

[31] A. Galletti, Il principio dello sviluppo sostenibile nel diritto ambientale dell’Unione Europea, in Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, maggio- agosto 2019, 62, p.114 e ss.

[32] A. Sinagra, P. Bargiacchi, Lezioni di diritto internazionale, op. cit., p.6

[33] M. Iannella, L’European Green Deal e la tutela costituzionale dell’ambiente, in Federalismi.it, 24/2022, p.176.

[34] A. Moliterni, Il Ministero della transizione ecologica: una proiezione organizzativa del principio di integrazione? in Giorn. dir. amm., 2021, 4, p. 439 e ss.

[35] Il principio del “chi inquina paga” è richiamato nell’art. 311 del decreto 152/06; Il principio di prevenzione invece si ritrova sia nell’art. 304 del d.lgs. 152/06 che nella valutazione degli impatti ambientali dei progetti pubblici e privati e negli strumenti che si occupano di pianificazione ambientale;

[36] M. E. Grasso, lineamenti di etica e diritto della sostenibilità, Giuffrè, Milano, 2015, p.2.

[37] A. Galletti, Il principio dello sviluppo sostenibile, op. cit. p.6

[38] B. Zygmunt, “Consumo, dunque sono”, Editori Laterza, Bari, 2010.

[39] P.B. Helzel, Principio di sostenibilità e generazioni future: limiti e controversie in D.G. Benitez – C. Fava, Sostenibilità: sfida o presupposto? Cedam, Padova, 2019.

[40] S. Marchisio, Il diritto internazionale ambientale, op. cit. p.4

[41] C. Pasqualini Salsa, Diritto ambientale: principi, norme, giurisprudenza, Santarcangelo di Romagna, 2009, p. 23.

[42] A. Galletti, Il principio dello sviluppo sostenibile, op.cit. p.6

[43] Art. 3-quater D.lgs. 152/2006: <<ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future>>. Ancora più rilevante è il comma 2 il quale specifica che: <<anche l’attività della pubblica amministrazione deve essere finalizzata a consentire la migliore attuazione possibile del principio dello sviluppo sostenibile, per cui nell’ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità, gli interessi alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale devono essere oggetto di prioritaria considerazione>>.

[44] M. Delsignore, voce Ambiente, in Enc. dir., Funzioni amministrative, Giuffrè, Milano, 2022, pp. 50- 51.

[45] Sul punto, G. Montedoro, Costituzione e ambiente. Effetti sulla divisione dei poteri di una revisione costituzionale largamente condivisa, in www.apertacontrada.it.

[46] Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in www.mase.gov.it

[47] A. Galletti, Il principio dello sviluppo sostenibile, op. cit. p.6

[48] P.B. Helzel, Principio di sostenibilità e generazioni future, op. cit. p.7

[49] F. Fracchia, S. Vernile, Lo sviluppo sostenibile oltre il diritto ambientale, in Le Regioni, 2022, p.7

[50] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi Editore, Torino, 1990.

[51] U. Barelli, Dai rifiuti la transizione verso l’economia circolare, in www.giustizia-amministrativa.it, 2020.

[52] R. Ferrara, Brown economy, green economy, blue economy: l’economia circolare e il diritto dell’ambiente, in www.piemonteautonomie.it: << ossia i rifiuti non esistono, non debbono esistere in quanto rifiuti, tutto essendo recuperabile, riusabile, riutilizzabile, ecc. finché una certa materia e/o materiale possa essere considerato e apprezzato come fisicamente esistente>>.

[53] V. Molaschi, L’economia circolare nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, In ambientediritto.it, Fascicolo n. 1/2022 2022, p.3.

[54] Commissione europea (2015), L’anello mancante – Piano d’azione dell’Unione europea per l’economia circolare, www.mase.gov.it.

[55] Le nuove direttive: direttiva 2018/851; direttiva 2018/852; direttiva 2018/850; direttiva 2018/849

[56] IPCEI (Importante Progetto di Interesse Comune Europeo), avviato a gennaio 2021, che coinvolge diversi Stati tra cui l’Italia. Si concentra sulla creazione di una catena di valore sostenibile per produrre e riciclare materie prime, celle, moduli e batterie di nuova generazione in modo innovativo e efficiente.

[57] A.L. Valvo, Editoriale. Moda e mercato interno. Verso una nuova economia circolare, in www. papersdidirittoeuropeo.eu, 2021, fasc.2.

[58] Legge 28 dicembre 2015, n. 221, “Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali”, Pubblicata in G. U. 18 gennaio 2016, n. 13.

[59] S. Lazzari, La transizione verde nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza «Italia Domani», in Riv. quadr. dir. amb., www.rqda.eu, 1/2021, 198 ss.

[60] A. Fodella, Il movimento transfrontaliero di rifiuti pericolosi nel diritto internazionale, Giappichelli, Torino, 2004, 9 ss.

[61] Nel quadro normativo definito dalla Convenzione si inserisce la pronuncia del TAR Campania, sez.V, n.834 del 9 febbraio 2021, relativa al trasporto transfrontaliero di rifiuti da parte di una società campana verso la Tunisia. Nel caso citato il giudice ha sostenuto che la giurisdizione nazionale deve escludersi quando l’atto di un’autorità straniera è un presupposto essenziale per il successivo provvedimento dell’autorità nazionale. In altre parole se un provvedimento nazionale deriva direttamente da una decisione straniera, la giurisdizione nazionale non può intervenire.

[62] Vedi artt.4 e 9, Dir. Ue, n. 98 del 2008.

[63] Redazione normativa di Edizione Ambiente, Il pacchetto economia circolare, con la versione coordinata della Direttiva Rifiuti, 2019, www.reteambiente.it.

[64] Parlamento Europeo, Efficienza delle risorse ed economia circolare, 2024, www.europarl.europa.it

[65] riferimento particolare all’art. 14-bis della legge n. 128/2019 Decreto crisi aziendali e tutela del lavoro

[66] Vedi art. 195, D. lgs. 152/2006

[67] Vedi art 196, D. lgs. 152/2006

[68] Vedi art. 197, D. lgs. 152/2006

[69] Vedi art. 198, D. lgs. 152/2006

[70] Vedi sentenza Corte Costituzionale, n.129/2019, in www.cortecostituzionale.it

[71] I. Baisi, Gli “Appalti Verdi”, come perno della transizione ecologica. Norme e prospettive alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, in flore.unifi.it

[72] R. Costanzo, Lo sviluppo sostenibile negli appalti pubblici. I criteri ambientali minimi, in www.ambientediritto,it, fasc. 1/2023.

[73] M. Occhiena, Norme di gestione ambientale, in M.A. Sandulli, R. De Nictolis, R. Garofoli (a cura di), Trattato sui contratti pubblici, Giuffrè editore, Milano, 2008, II, pp.1465 ss.

[74] G. Quinto, Le variabili ambientali nella disciplina degli appalti pubblici, in www.ambientediritto.it, fasc. 1/2020.

 

[75] C. Colosimo, L’oggetto del contratto, tra tutela della concorrenza e pubblico interesse, in D. Comporti, Le gare pubbliche: il futuro di un modello, Napoli, Editoriale Scientifica, 2011.

[76] Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, in www.eurlex.europa.eu.

[77] Si veda G. Quinto, Le variabili ambientali, op. cit. p.12

[78] Art. 68.bis, comma 1 d.lgs. 163/2006:“Nell’ambito delle categorie per le quali il Piano d’azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione, di cui al decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare 11 aprile 2008, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 107 dell’8 maggio 2008,

predisposto in attuazione dei commi 1126 e 1127 dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, prevede

l’adozione dei criteri ambientali minimi di cui all’articolo 2 del citato decreto 11 aprile 2008, è fatto obbligo, per le pubbliche amministrazioni, ivi incluse le centrali di committenza, di contribuire al conseguimento dei relativi obiettivi ambientali, coerenti con gli obiettivi di riduzione dei gas che alterano il clima e relativi all’uso efficiente delle risorse indicati nella comunicazione della Commissione europea “Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse”.

[79] Art.30 comma 1, d.lgs. 50/2016: “1. L’affidamento e l’esecuzione di appalti di opere, lavori, servizi, forniture e concessioni ai sensi del presente codice garantisce la qualità delle prestazioni e si svolge nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza. Nell’affidamento degli appalti e delle concessioni, le stazioni appaltanti rispettano, altresì, i principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice. Il principio di economicità può essere subordinato, nei limiti in cui è espressamente consentito dalle norme vigenti e dal presente codice, ai criteri, previsti nel bando, ispirati a

esigenze sociali, nonché alla tutela della salute, dell’ambiente, del patrimonio culturale e alla promozione dello sviluppo sostenibile, anche dal punto di vista energetico.”

[80] Art.4 del d.lgs. 50/2016: “L’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, dei contratti attivi, esclusi, in tutto o in parte, dall’ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica.”

[81] Art.34 del d.lgs. 50/2016

[82] Art. 53, D. lgs. 36/2023

[83] Cons. St., sez. III, sent. n. 8773 del 14 ottobre 2022.

[84] Cons. St., sez. V, sent. n. 8088 del 27 novembre 2019.

[85] T.A.R. Lazio, sent. n.31/2018: ritiene illegittima poiché eccessiva la richiesta del possesso congiunto delle due certificazioni ISO 14001 ed EMAS, in www.giustiziamministrativa.it.

[86] L’Ecolabel è stato istituito dal Regolamento CE del 23 marzo 1992 n. 880, ora disciplinato dal Regolamento CE del 25 novembre 2009, n. 66/2010 (come modificato dal Regolamento UE del 14 agosto 2013, n. 782).

[87] G. Delle cave, La Valutazione Ambientale Strategica: ratio, caratteristiche e peculiarità (nota a Consiglio di Stato, Sez. II, 01 settembre 2021, n. 6152), in www.giustiziainsieme.it.

[88] Cons. St., Sez. IV, 6 maggio 2013 n. 2446: “la valutazione ambientale strategica (VAS) di cui alla Direttiva 42/2001/Ce del Parlamento europeo, è volta a garantire che gli effetti sull’ambiente di determinati piani e programmi siano considerati durante l’elaborazione e prima dell’adozione degli stessi, così da anticipare nella fase di pianificazione e programmazione quella valutazione di compatibilità ambientale che, se effettuata (come avviene per la valutazione di impatto ambientale) sulle singole realizzazioni progettuali, non consentirebbe di compiere un’effettiva valutazione comparativa, mancando in concreto la possibilità di disporre di soluzioni alternative per la localizzazione degli insediamenti e, in generale, per stabilire, nella prospettiva dello sviluppo sostenibile, le modalità di utilizzazione del

territorio”.

[89] Cons. St., Sez. II, 1° settembre 2021, n. 6152: “La valutazione ambientale o VAS trova il suo fondamento nella Direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 giugno 2001, con il dichiarato obiettivo di

garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente innestandone la tutela anche nel procedimento di adozione e di approvazione di piani e programmi astrattamente idonei ad impattare significativamente sullo stesso. La finalità di salvaguardia e miglioramento della qualità dell’ambiente, nonché di protezione della salute umana e di utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, ne impone una lettura ispirata al rispetto del principio di precauzione, in una prospettiva di sviluppo durevole e sostenibile dell’uso del suolo. Essa si accosta, senza identificarsi con gli stessi, ad altri strumenti di valutazione, come la valutazione di impatto ambientale (VIA) su singoli progetti e quella di incidenza, riferita ai siti di Natura 2000, in modo da costituire un unico sistema che vuole l’intero ciclo della decisione

teleologicamente orientato a ridette esigenze di tutela”. In www.ambientediritto.it.

[90] Negli Stati Uniti nel 1969 fu adottato il National Environmental Policy Act (NEPA), e successivamente nella normativa francese del 1976 fu introdotto l’étude d’impact sur l’environnement.

[91] Art.5 comma 1, lett.g, d.lgs. 152/2006 definisce il progetto come: “la realizzazione di lavori di costruzione o di altri impianti od opere e di altri interventi sull’ambiente naturale o sul paesaggio, compresi quelli destinati allo sfruttamento delle risorse del suolo. Ai fini del rilascio del provvedimento di VIA il proponente presenta il progetto di fattibilità come definito dall’articolo 23, commi 5 e 6, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, o, ove disponibile, il progetto definitivo come definito dall’articolo 23, comma 7, del decreto legislativo n. 50 del 2016, ed in ogni caso tale da consentire la compiuta valutazione dei contenuti dello studio di impatto ambientale ai sensi dell’allegato IV della

direttiva 2011/92/UE”.

[92] Art 4 comma 4, lett. b del d.lgs. 152/2006

[93] V. Cavanna, Note sulla Valutazione di Impatto Ambientale e lo sviluppo sostenibile, in www.ambientediritto.it, maggio 2022.

[94] Cons. St., sez. VI, n. 4484 del 2018; Cons. Stato, sez. IV, n.1240 del 2018: <<la VIA si sostanzia non già in una mera verifica di natura tecnica circa la astratta compatibilità ambientale dell’opera programmata, bensì in un giudizio sintetico-globale di comparazione tra il sacrificio ambientale imposto e l’utilità socioeconomica procurata dall’opera medesima, tenendo conto anche delle alternative possibili e dei riflessi della c.d. opzione zero. Essa non è un mero atto (tecnico) di gestione ovvero di amministrazione in senso stretto, trattandosi di un provvedimento con cui viene esercitata una vera e propria funzione di indirizzo politico-amministrativo, con particolare riferimento al corretto uso del territorio (in senso ampio), attraverso la cura ed il bilanciamento della molteplicità dei (contrapposti) interessi, pubblici (urbanistici, naturalistici, paesistici, nonché di sviluppo economico-sociale) e privati>>, in www.giustiziaamministrativa.it.

[95] E. Frediani, Le garanzie partecipative nella valutazione di impatto ambientale: strumenti tradizionali e dibattito pubblico, in Istituzioni del federalismo, 2020, 657.

[96] Si veda Art 24-bis, del d.lgs. 152/2006.

[97] O.H. Kassim, La nozione di ambiente per lo sviluppo e gli strumenti per veicolarne l’applicazione: le valutazioni ambientali, in Rivista quadrimestrale di diritto dell’ambiente, Giappichelli editore, n.1-2020, pp.16-19.

[98] Corte Cost. n. 198/2018, il PAUR: «ha, dunque, una natura per così dire unitaria, includendo in un unico

atto i singoli titoli abilitativi emessi a seguito della conferenza di servizi che, come noto, riunisce in unica sede decisoria le diverse amministrazioni competenti»

[99] V. Cavanna, Note sulla Valutazione di Impatto Ambientale, op. cit. p. 16

[100] Ibidem

[101] L. Benedusi, L’autorizzazione integrata ambientale, (a cura di) L. Benedusi, S. Maglia, P. Pipere, L. Prati, in

Gestione ambientale, Tuttoambiente, Piacenza, IIIa Edizione, 2019

[102] Art 5 comma 1 lett.i-quater) del d.lgs. da una definizione di installazione: “unità tecnica permanente, in

cui sono svolte una o più attività elencate all’allegato VIII alla Parte Seconda e qualsiasi altra attività accessoria, che sia tecnicamente connessa con le attività svolte nel luogo suddetto e possa influire sulle emissioni e sull’inquinamento. È considerata accessoria l’attività tecnicamente connessa anche quando condotta da diverso gestore;”.

[103] Cons. St., sez. V, n. 5292 del 2012: “l’AIA è il provvedimento che sostituisce, uno actu, tutti i numerosi titoli che erano precedentemente necessari per far funzionare un impianto industriale, assicurando così efficacia, efficienza, speditezza ed economicità all’azione amministrativa nel giusto contemperamento degli interessi pubblici e privati in gioco, e investe gli aspetti gestionali, ubicativi e strutturali dell’impianto”.

[104] Si veda: Autorizzazione integrata ambientale, in www.arpat.toscana.it

[105] E. Chiti, Le agenzie europee: unità e decentramento nelle amministrazioni comunitarie, Padova, Cedam, 2002.

[106] Art 14, comma 1, l. 349/1986: “Il Ministro dell’ambiente assicura la più ampia divulgazione delle informazioni sullo stato dell’ambiente.”

[107] Direttiva Consiglio Ce 90/313/Cee, quarto considerando: “l’accesso alle informazioni relative all’ambiente in possesso delle autorità pubbliche contribuirà a migliorare la protezione dell’ambiente”.

 

[108] E. Chiti, Le agenzie europee, op. cit. p. 17

[109] Art.8, comma 2, del d.lgs. 155/2005: “Per le finalità di cui al comma 1, l’autorità pubblica stabilisce, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, un piano per rendere l’informazione ambientale progressivamente disponibile in banche dati elettroniche facilmente accessibili al pubblico tramite reti di telecomunicazione pubbliche, da aggiornare annualmente”.

[110] Art 9, comma 1, del d.lgs. 195/2005: “Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio garantisce, se possibile, che l’informazione ambientale detenuta dall’autorità pubblica sia aggiornata, precisa e confrontabile”.

[111] Tar Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 8 ottobre 2015, n. 678: “L’informazione ambientale ha, invece, come si è visto, una sua delimitazione funzionale e non può essere utilizzata per scopi ulteriori, quale il voler sindacare in modo

generalizzato l’attività dell’Amministrazione nel citato settore (Consiglio di Stato, n. 24 del 2010).” Vedi anche

Consiglio di Stato, sez. III, 5 ottobre 2015, n. 4636: “Premesso che l’istanza di accesso, pur se astrattamente riguardante un’informazione ambientale, non esime il richiedente dal dimostrare che l’interesse che intende far valere è un interesse ambientale, come qualificato dal D.L. vo 19 agosto 2005 n. 195, è legittimo il diniego all’ostensione di formulari riguardanti il servizio di raccolta e trasporto di rifiuti sanitari, emessi in relazione a un contratto stipulato fra un’ Azienda sanitaria locale e un privato, giustificato dal fatto che i dati, pur se attinenti ai predetti rifiuti sanitari – che se non correttamente smaltiti possono arrecare pregiudizi all’ambiente – erano stati richiesti per finalità del tutto diverse (economico-patrimoniali, di tipo concorrenziale) e con un inutile aggravio dell’attività dell’Amministrazione.”

[112] Art 5, comma 2, d.lgs. 33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016: “Allo scopo di favorire forme diffuse

di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall’articolo 5-bis”.

[113] Art.5, d.lgs. 33/2013: La richiesta di accesso civico non è sottoposta ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente non deve essere motivata, è gratuita e va presentata al responsabile della trasparenza

dell’amministrazione… L’amministrazione, entro trenta giorni, procede alla pubblicazione nel sito del documento, dell’informazione o del dato richiesto e lo trasmette contestualmente al richiedente, ovvero comunica al medesimo l’avvenuta pubblicazione, indicando il collegamento ipertestuale a quanto richiesto

[114] Art 40, comma 2, d.lgs. 33/2013: “Le amministrazioni di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 195 del 2005, pubblicano, sui propri siti istituzionali e in conformità a quanto previsto dal presente decreto, le informazioni ambientali di cui all’articolo 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 195, che detengono ai fini delle proprie attività istituzionali, nonché le relazioni di cui all’articolo 10 del medesimo decreto legislativo. Di tali informazioni deve essere dato specifico rilievo all’interno di un’apposita sezione detta

<<Informazioni ambientali>>”.

 

[115] R. Chieppa, R. Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2017, p. 121 e ss.

[116] Cons. St., 9 marzo 1973, n. 253, in Foro It., 1974, parte III, p. 33 e ss. Con tale sentenza veniva riconosciuta per la prima volta la legittimazione a ricorrere a un9associazione. Italia Nostra agì contro la realizzazione di una strada ritenuta pregiudizievole per il patrimonio naturale e paesaggistico. Tale intento risultava in linea con lo Statuto

dell’associazione, così come approvato con decreto del Presidente della Repubblica. Di conseguenza l9associazione si trovava in una posizione differenziata rispetto al comune cittadino.

[117] Tar Toscana, Sez. II, 1° aprile 2011, n. 567: “L’interesse diffuso si trasforma in interesse collettivo, e diventa, quindi, interesse legittimo tutelabile in giudizio, solo nel momento in cui, indipendentemente dalla sussistenza della personalità giuridica, l’ente dimostri la sua rappresentatività rispetto all’interesse che intende proteggere. Rappresentatività che deve essere desunta da una serie di indici elaborati dalla giurisprudenza: deve trattarsi di un ente il cui statuto preveda come fine istituzionale la protezione di un determinato bene a fruizione collettiva, cioè di un dato interesse diffuso o collettivo, l’ente medesimo deve essere in grado, per la sua organizzazione e struttura, di realizzare concretamente le proprie finalità ed essere dotato di stabilità, nel senso che deve svolgere all’esterno la propria attività in via continuativa”, in www.ambientediritto.it.

[118] M. Delsignore, La legittimazione delle associazioni ambientali nel giudizio amministrativo: spunti sulla comparazione con lo standing a tutela di environmental interests nella judicial review statunitense, in Diritto Processuale Amministrativo, 2013, fasc.3, pp. 734 e ss.

[119] Art. 13, comma 1, l.349/1986: “Le associazioni di protezione ambientale a carattere nazionale e quelle presenti in almeno cinque regioni sono individuate con decreto del Ministro dell’ambiente sulla base delle finalità programmatiche e dell’ordinamento interno democratico previsti dallo statuto, nonché della continuità dell’azione e della sua rilevanza esterna, previo parere del Consiglio nazionale per l’ambiente da esprimere entro novanta giorni dalla richiesta.”

[120] Art.18 comma 5, l.349/1986: “Le associazioni individuate in base all’articolo 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi”.

[121] M. Calabrò, La legittimazione ad agire a tutela delle risorse ambientali: la prospettiva dei beni comuni (The legal standing in environmental law: the Commons perspective), in Diritto e società, 2016, fasc. 4, pp. 807 ss.

[122] Cons. Stato, Sez. IV, 2 ottobre 2006, n. 5760, punto 1: “L’esplicita legittimazione, ai sensi degli art. 13 e 18 l. 8 luglio 1986 n. 349, delle associazioni ambientalistiche di dimensione nazionale e ultraregionale all’azione giudiziale non esclude, di per sé sola, analoga legittimazione ad agire ai sensi della stessa normativa, in un ambito territoriale e comunitario ben circoscritto, agli organismi – comitato o associazioni – che si costituiscono al precipuo scopo di proteggere l’ambiente, la salute e/o la qualità della vita delle popolazioni residenti su tale circoscritto territorio e non intendano estendere il raggio della propria azione oltre la comunità e l’ambito territoriale ove si collocano e cui riferiscono i loro programmi e la propria attività, altrimenti verificandosi che le località e le relative popolazioni, interessate da “attentati” alla salute pubblica e/o all’ambiente di ambito locale e circoscritto, ove questi ultimi non siano presi in considerazione da associazioni riconosciute ma assenti “in loco”, rimarrebbero prive di quelle suscettibilità di protezione che possono assicurare le associazioni ambientalistiche e similari”, in www.ambientediritto.it.

[123] Cons. St., Sez. VI, 23 maggio 2011, n. 3107, punto 3: “il giudice amministrativo può riconoscere, caso per caso, la legittimazione ad impugnare atti amministrativi incidenti sull’ambiente ad associazioni locali (indipendentemente dalla loro natura giuridica), purché perseguano statutariamente in modo non occasionale obiettivi di tutela ambientale ed abbiano un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un’area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso”.

[124] Tar Liguria, sez. I, 18 marzo 2004, n. 267, punto 1: << l’azione dei pubblici poteri si configura come sussidiaria di quella dei privati singoli e associati, nel senso che gli enti istituzionali possono legittimamente intervenire nel contesto sociale, ove le funzioni amministrative assunte siano svolte in modo più efficiente e con risultati più efficaci che se fossero lasciate alla libera iniziativa privata, ancorché regolamentata. E per questa via, a ben guardare, trova congruente riscontro il principio fondamentale contenuto nell’art. 2 della Costituzione il quale afferma la centralità, nell’ambito

dell’ordinamento giuridico, dell9individuo e delle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. In oggi, pertanto, i pubblici poteri devono agire preferenzialmente e tramite il coinvolgimento diretto dei singoli e dei gruppi sociali liberamente costituiti, in quanto chiamati in prima persona a cogestire la funzione amministrativa secondo il principio costituzionale della sussidiarietà orizzontale. Circostanza, questa, che induce necessariamente a dover riconsiderare sotto nuova e più pregnante luce la valenza della posizione giuridica dei soggetti coinvolti nell’azione amministrativa. Non v9è dubbio, infatti, che lo specifico ruolo ordinamentale attribuito ai privati ed alle loro formazioni sociali sul piano sostanziale, riverberi i suoi effetti anche sul piano procedimentale e processuale».

[125] F. De Leonardis, Il principio di precauzione nell’amministrazione del rischio, Giuffrè editore, Milano, 2005 pp.227- 228.

[126] P. Carpentieri, Principio di differenziazione e paesaggio, in Riv.giur. edilizia, 2007, p.95.

[127] Ibidem, p.96.

[128] TAR Trentino, sentenza 2 giugno 1987, n.134, con la quale il giudice ha escluso la legittimazione ad agire in capo a soggettivi collettivi che non sono inseriti nell9elenco ministeriale.

[129] Cons. St., sez. III, sent. n. 784 del 15 febbraio 2012

[130] A. Morrone, L’accesso alla giustizia in materia ambientale: la Convenzione di Aarhus nell’ordinamento italiano, in

  1. Tanzi, E. Fasoli, L. Iapichino (a cura di), La Convenzione di Aarhus e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, Cedam, Padova, 2011.

[131] R. Agnoletto, La legittimazione processuale delle sezioni locali alla luce del principio di sussidiarietà orizzontale, in www.dirittoambiente.net e M. barbero, sussidiarietà orizzontale e legittimazione processuale amministrativa, in www.associazionedeicostituzionalisti.it

[132] Cons. St., Sez. IV, sent. n. 7246 del 2004: La IV sezione del Consiglio di Stato è stata chiamata a esaminare la legittimazione processuale delle associazioni ambientaliste, in particolare quando queste presentano ricorsi basati su motivazioni strumentali, volte cioè a ottenere indirettamente la protezione dell’ambiente. Il caso specifico riguardava l’associazione WWF, che aveva impugnato gli atti relativi all’approvazione di un piano per l’edilizia economica e popolare e i successivi provvedimenti di assegnazione in proprietà delle aree comprese nel piano alle cooperative assegnatarie. Il Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile parte dei motivi sollevati dal WWF.

[133] Tar Lombardia, sez. II sentenza n. del 2336 del 22 ottobre 2013: con tale pronuncia il giudice ha riconosciuto la legittimazione ad agire dell’associazione Legambiente contro atti di pianificazione territoriale e vincoli urbanistici dando una interpretazione estensiva della tutela ambientale in linea con il principio di sussidiarietà orizzontale

[134] Art 3-quater comma 1 del d.lgs. 152/2006: “Ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle

generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future”.

[135] F. De Leonardis, Verso un ampliamento della legittimazione per la tutela delle generazioni future, in Cittadinanza e diritti delle generazioni future, A. Astone, F. Manganaro e A. Romano Tassone, F. Saitta (a cura di), Atti del Convegno di Copanello, 3-4 luglio 2009, Catanzaro, 2010, 52 ss.

[136] E. Ruozzi, Il ruolo della Santa Sede e dei valori cattolici nell’affermazione di principi internazionali, op. cit. p.3

[137] E. Romani, Il principio dello sviluppo sostenibile nella sua dimensione processuale: suggestioni per una legittimazione a ricorrere uti civis, in IL Diritto Dell’Economia, 2021, pp.204-219

[138] M. Luciani, Generazioni future, distribuzione temporale della spesa pubblica e vincoli costituzionali, in R. Bifulco,

  1. D’Aloia (a cura di), Un diritto per il futuro. Teorie e modelli dello sviluppo sostenibile e della responsabilità intergenerazionale, Napoli, 2008, 425.

[139] A norma dell’art.2 della Convenzione di Aarhus per pubblico interessato si intende: “il pubblico che subisce o può subire gli effetti dei processi decisionali in materia ambientale o che ha un interesse da far valere al riguardo; ai fini della presente definizione si considerano titolari di tali interessi le organizzazioni non governative che promuovono la tutela dell’ambiente e che soddisfano i requisiti prescritti dal diritto nazionale”.

[140] E. Romani, Il principio dello sviluppo sostenibile nella sua dimensione processuale, op. cit., p. 24.

[141] Si vedano Cons. St., sez. VI, sent. n.2985/2004; TAR Campania, Napoli, sent. n. 16223/2004; TAR Bolzano, sent. n. 557/2003.

[142] F. De Leonardis, Il principio di precauzione, op. cit. p. 22

[143] F. De Leonardis, Verso un ampliamento della legittimazione, op .cit. p. 23

[144] M. Ainis, Questioni di “democrazia ambientale”: il ruolo delle associazioni ambientaliste, in Riv.giu.amb., 1995, p.239

[145] Minors Oposa v. Secretary of the Department of Environment and Natural Resources 33 I.L.M. 173 (1994) – Philippines, www.acrisl.org.

[146] Che cos’è la COP 21, in Onuitalia.it

[147] E. Guarna Assanti, Il contenzioso climatico europeo. Profili evolutivi dell’accesso alla giustizia in materia ambientale, pp. 31 e ss., Franco Angeli, Milano, 2024.

[148] Ibidem

[149] Intergovernmental Panel On Climate Change (IPCC)- Report, in www.isprambiente.gov.it

[150] P. Lombardi, Ambiente e generazioni future, op. cit. p.3

[151] R. Bin, La Corte tedesca e il diritto al clima. Una rivoluzione? in laCostituzione.info, 30 aprile 2021

[152] Ibidem

[153] M. Carducci, I giudici europei tra emergenza climatica e “consequenzialismo”, in laCostituzione.info, 8 aprile 2021.

[154] E. Guarna Assanti, Il contenzioso climatico europeo, op. cit. p. 25

[155] E. Romani, Il principio dello sviluppo sostenibile, op. cit. p.24

[156] P. Lombardi, Ambiente e generazioni future, op. cit. p. 3

[157] E. Guarna Assanti, Il contenzioso climatico europeo, op. cit. p. 25

[158] Il procedimento legale era stato avviato nel 2014 dall’ONG olandese Urgenda Foundation e si è concluso con un’ordinanza che imponeva al governo dei Paesi Bassi di aumentare il proprio obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra dal 17% al 25% rispetto ai livelli del 1990. La Corte ha basato la sua decisione sul libro 6, sezione 162 del codice civile olandese, che disciplina i fatti illeciti, e sull’articolo 21 della Costituzione, che riconosce il diritto fondamentale a un ambiente sano. In virtù di questi riferimenti legali, la Corte ha ritenuto che lo Stato olandese fosse tenuto a un dovere di diligenza nei confronti dei propri cittadini, il che implica l’obbligo di adottare misure di riduzione delle emissioni di gas serra in linea con le raccomandazioni dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change).

[159] P. Lombardi, Ambiente e generazioni future, op. cit. p. 3

[160] G. Passarelli, Stati Uniti : la tutela dell’ambiente negli stati uniti e il caso Massachussetts et. al. v. environmental protection agency, in Civitas Europa, 2007, pp. 137-138.

[161] F.P. Fantozzi, Il contenzioso climatico de L’ Affaire du Siècle: la responsabilità climatica dello Stato francese stabilita per la prima volta dinanzi al giudice, giudiziouniversale.eu

[162] Gli attori chiedono il riconoscimento della responsabilità climatica dello Stato italiano, che viene invocata sotto diverse forme, tra cui quella extracontrattuale o come responsabilità derivante da un contatto sociale qualificato. In conseguenza di ciò, richiedono che lo Stato venga condannato a prendere tutte le misure necessarie per ridurre le emissioni di CO2 artificiali entro il 2030, con l’obiettivo di abbatterle del 92% rispetto ai livelli del 1990

[163] E. Carpanelli, Cambiamenti climatici e obblighi intergenerazionali dinanzi agli organi di controllo istituiti dai trattati sui diritti umani: alcune riflessioni alla luce della recente decisione di irricevibilità del Comitato dei diritti del fanciullo nel caso Sacchi et al. c. Argentina et al., in P. Pantalone (a cura di), Doveri intergenerazionali e tutela

dell’ambiente. Sviluppi, sfide e prospettive per Stati, imprese e individui, in Dir. econ., 2021, p. 108

[164] Comitato delle Nazioni Unite, caso Teitiota c. Nuova Zelanda, CCPR/C/127/D/2728/2016

[165] A.L. Valvo, Nota all’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 5022/2021 del 12 novembre 2020 – 24 febbraio 2021, in Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, settembre-dicembre 2022, n.72.

[166] Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 settembre 2014, n. 4775. Il Consiglio di Stato ha riconosciuto la legittimazione del Comune austriaco di Gries am Brenner e dell’Österreichischer Alpenverein (Club Alpino austriaco) a impugnare una

deliberazione della Giunta provinciale di Bolzano riguardante la valutazione d’impatto ambientale e l9approvazione di un progetto per la costruzione di un parco eolico nel Comune di Brennero, in Italia, a ridosso del confine con l’Austria. Il progetto, essendo situato in prossimità del confine, avrebbe avuto un impatto ambientale e paesaggistico diretto e immediato anche sul territorio austriaco. Il Consiglio di Stato ha ritenuto che, in casi di questo tipo, la legittimazione a ricorrere contro provvedimenti amministrativi italiani spetta anche a soggetti stranieri, applicando i criteri utilizzati per determinare la legittimazione dei soggetti interni. In particolare, il legame giuridico stabile con l’area in cui il parco eolico sarebbe stato realizzato conferisce al Comune di Gries am Brenner e all’ONG austriaca il diritto di ricorrere, poiché il progetto potrebbe avere effetti dannosi per l’ambiente e lo sviluppo del territorio.

[167] S. Mirate, La legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo, Franco Angeli, Milano, 2019, pp. 268-269.

[168] E. Romani, Il principio dello sviluppo sostenibile, op. cit. p. 24

[169] Cons. St., Sez. IV, 13 febbraio 2020, n. 1137, che richiede l’allegazione di un danno almeno potenziale: “in generale, va rilevato come non sia di per sé sufficiente, ai fini della configurabilità dell’interesse ad agire in giudizio per contestare un determinato provvedimento amministrativo, il mero rapporto di prossimità tra chi agisce e l’opera oggetto del provvedimento impugnato, essendo necessario dedurre una danno, sia pure potenziale (nel senso che con ragionevole certezza si verificherà in futuro), che può derivare da tale atto e dall’opera in questione”.

[170] F.De Leonardis, Il principio di precauzione, op. cit. p. 22

[171] P. Duret, Riflessioni sulla legitimatio ad causam in materia ambientale tra partecipazione e sussidiarietà, in Diritto processuale amministrativo, 2008, pp. 688 e ss.

[172] Tar Liguria, sez. I, 18 marzo 2004, n. 267 e Tar. Puglia, Lecce, Sez. I, 5 aprile 2005, n. 1847, p. 4

[173] Tar Campania, Napoli, Sez. VII, 5 gennaio 2017, n. 107; Tar Piemonte, Sez. I, 16 giugno 2011, n. 635.

[174] S. Mirate, La legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo, Franco Angeli, Milano, 2019

[175] Ibidem, P. Duret, Riflessioni sulla legitimatio ad causam in materia ambientale, op. cit. p. 31

[176] M. Calabrò, La legittimazione ad agire a tutela delle risorse ambientali, op. cit. p.20; M. Nigro, Le due facce dell’interesse diffuso: ambiguità di una formula e mediazioni della giurisprudenza, in Foro it., 1987.

[177] V. Cerulli Irelli, L. De Lucia, Beni comuni e diritti collettivi. Riflessioni de iure condendo su un dibattito in corso, in

  1. Breccia, G. Colombini, E. Navaretta, R. Romboli (a cura di), I beni comuni, Pisa University press, Pisa, 2012, 7 ss.;
  2. Duret, Taking “commons” seriously: spigolature su ambiente come bene comune e legitimatio ad causam, in Rivista quadrimestrale di diritto dell’ambiente, n. 1/2013.

[178] M. Calabrò, La legittimazione ad agire a tutela delle risorse ambientali, op. cit. p.20

 

[179] E. Romani, Il principio dello sviluppo sostenibile, op. cit. p. 24

[180] F. De Leonardis, Verso un ampliamento della legittimazione, op. cit. p. 23

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