Tratto da: Lavori Pubblici 

Quando scatta davvero l’obbligo di piano attuativo? È sufficiente il superamento dei 25 metri di altezza previsti dall’art. 41-quinquies, comma 6, della legge urbanistica n. 1150/1942? O è necessaria una valutazione più ampia del contesto urbanistico in cui l’intervento si inserisce?

 

Domande tutt’altro che banali, che stanno incidendo profondamente sul tessuto edilizio di una delle città simbolo dello sviluppo urbano italiano — Milano — e che evidenziano, ancora una volta, non solo la netta separazione tra la logica del procedimento penale e quella del procedimento amministrativo, ma anche e soprattutto le persistenti difficoltà interpretative del quadro normativo in materia edilizia.

Ha provato a dare una prima risposta a queste domande il TAR Lombardia che, con la sentenza n. 2747 del 22 luglio 2025, ha affrontato uno dei casi che stanno sconvolgendo la Città di Milano: un edificio previsto in un lotto già saturo dal punto di vista insediativo, per il quale il Comune ha rilasciato un permesso di costruire diretto. I vicini ricorrenti contestavano l’assenza di un piano attuativo, ritenuto obbligatorio vista l’altezza massima dell’edificio pari a 26,85 metri su alcuni fronti.

Il TAR, in un articolata sentenza che tratta parecchi e interessanti aspetti, ha respinto il ricorso offrendo una chiara ricostruzione dei presupposti che rendono effettivamente necessario un piano attuativo.

L’art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942 stabilisce che:

Nei Comuni dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione, nelle zone in cui siano consentite costruzioni per volumi superiori a 3 mc/mq di area edificabile, ovvero altezze superiori a 25 metri, non possono essere realizzati edifici con volumi ed altezze superiori a detti limiti se non previa approvazione di apposito piano particolareggiato o lottizzazione convenzionata”.

Questa previsione è stata ribadita anche dal PRG di Milano del 1980, che all’art. 19 delle NTA richiedeva l’approvazione di un piano attuativo per edifici di altezza superiore a 25 metri nelle zone B1.

Tuttavia, la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Ad. Plen. n. 18/1980; n. 12/1992; Sez. IV, n. 3809/2025, n. 7620/2021) ha chiarito che l’obbligo non è assoluto, ma dipende dal grado di urbanizzazione della zona interessata. In particolare:

L’esigenza della pianificazione attuativa si rende necessaria solo quando si tratta di asservire per la prima volta un’area non ancora urbanizzata o di raccordarne l’edificazione al tessuto insediativo esistente”.

Nel caso esaminato dal TAR, l’intervento si colloca in via Razza, a ridosso della Stazione Centrale di Milano, in un’area pienamente edificata, dotata di tutte le opere di urbanizzazione e già densamente strutturata.

Il Collegio ha quindi ritenuto legittima la scelta del Comune di rilasciare un titolo edilizio diretto, sottolineando che:

L’intervento ricade in una zona completamente urbanizzata, con scarso peso insediativo e priva di criticità urbanistiche da correggere”.

Anche l’eventuale disallineamento di altezza tra i diversi fronti dell’edificio – con un valore massimo di 26,85 m – non incide sulla valutazione complessiva, che deve tener conto della situazione effettiva dell’area e non del mero dato numerico.

Secondo il TAR, il Comune dispone di un ampio margine di discrezionalità nella valutazione della congruità del grado di urbanizzazione e della necessità di pianificazione attuativa. Il giudice può intervenire solo in caso di manifesta illogicità o travisamento dei fatti, che nel caso concreto non sono emersi.

Nel caso di specie, il TAR Lombardia ha concluso “A parte il manifesto scarso peso insediativo dell’intervento in un tale tipo di zona, dall’esame documentale e dal contraddittorio processuale non si rinvengono elementi concreti tali da scalfire, sul piano della logicità e ragionevolezza, la scelta del Comune di consentire, nella fattispecie de qua, l’intervento con P.d.C. senza la predisposizione di una pianificazione attuativa: non risulta dagli atti di causa una compromissione dei valori urbanistici o la necessità di correggere un disordine edificativo in atto (Cfr. Cass. pen., sez. III, 19 settembre 2008, n. 35880) ovvero la necessità di rivedere la situazione dei servizi a standard.”

Con questa motivazione, il TAR Lombardia ha ritenuto legittima la scelta del Comune di Milano di assentire l’intervento mediante titolo edilizio diretto, nonostante il superamento dei 25 mt di altezza del fabbricato. Ha, altresì, aggiunto che la previsione di cui all’art. 41-quinquies, comma 6, della Legge n.1150/1942 – “Nei Comuni dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione, nelle zone in cui siano consentite costruzioni per volumi superiori a tre metri cubi per metro quadrato di area edificabile, ovvero siano consentite altezze superiori a metri 25 non possono essere realizzati edifici con volumi ed altezze superiori a detti limiti, se non previa approvazione di apposito piano particolareggiato o lottizzazione convenzionata estesi alla intera zona e contenenti la disposizione planovolumetrica degli edifici previsti nella zona stessa – risulta tuttora in vigore, pur dopo la riforma costituzionale del 2001.

Già con sentenza n. 1149/2010, il TAR Lombardia aveva confermato l’attuale vigenza della disposizione che, allo stato e pur tenendo conto dei presupposti di derogabilità di cui sopra, non può ritenersi implicitamente abrogata.

Un ulteriore profilo affrontato dalla sentenza riguarda il rispetto delle distanze tra edifici, la corretta applicazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 e la verifica delle condizioni di soleggiamento previste dal Regolamento edilizio del Comune di Milano.

I ricorrenti lamentavano la violazione della distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti antistanti, anche in riferimento a pareti cieche o proiezioni verticali, oltre che l’uso distorto dell’art. 74 del R.E. in tema di scomputo della SLP e la mancata considerazione di terrazze e cortili nella verifica del soleggiamento.

Secondo il TAR, tuttavia, le doglianze sono infondate per diverse ragioni:

  • le SCIA in variante hanno escluso aggetti e balconi inferiori a 1,50 m che, in base alle definizioni tecniche uniformi regionali, non rilevano nel calcolo delle distanze;
  • le pareti opposte non risultano antistanti, e quindi non si applica la distanza minima ex art. 9 del D.M. n. 1444/1968 (Cass. civ., sez. II, n. 24471/2019);
  • la costruzione in aderenza elimina ogni intercapedine tra pareti cieche, facendo venir meno la ratio igienico-sanitaria sottesa al vincolo di distanza (Cass. civ., sez. II, n. 28147/2022);
  • il criterio di calcolo delle distanze seguito dal progettista è conforme al Regolamento Edilizio Tipo, che prevale su eventuali disposizioni comunali contrastanti (Corte Cost. n. 125/2017).

In merito al presunto “uso distorto” dell’art. 74 del R.E., relativo allo scomputo dalla SLP di alcuni volumi pertinenziali, il TAR ha rilevato l’assenza di elementi concreti: si tratta di spazi subordinati alla stipula e trascrizione di un atto unilaterale d’obbligo, adempimento che presuppone l’accatastamento definitivo.

Infine, sul fronte del soleggiamento, il Collegio ha chiarito che la verifica deve essere condotta rispetto ai locali interni e non su terrazze, cortili o spazi aperti. La previsione regolamentare, infatti, tutela il benessere abitativo degli ambienti chiusi e non può essere estesa a superfici non abitative.

La sentenza del TAR Lombardia interviene in un momento particolarmente acceso per l’urbanistica milanese, in cui il dibattito pubblico ruota attorno a un interrogativo sempre più scomodo: chi governa davvero la trasformazione della città? I piani urbanistici, le regole edilizie o una prassi sempre più flessibile e discrezionale?

Il caso di via Razza, finito all’attenzione del giudice amministrativo, non è solo una vicenda tecnica. È un tassello di un puzzle ben più ampio che, tra grattacieli autorizzati senza piano attuativo, deroghe alle distanze, SCIA correttive e quartieri in continua espansione verticale, solleva interrogativi sull’effettiva tenuta delle regole urbanistiche. E soprattutto sul ruolo delle amministrazioni locali nella gestione del potere conformativo.

Il TAR ha fornito una risposta chiara, ma che non risolve il nodo politico e culturale: l’assenza di una pianificazione attuativa, anche in presenza di edifici che superano i 25 metri, può essere legittima se l’area è già pienamente urbanizzata. Ma chi decide quando un quartiere è davvero “saturo”? E quali strumenti restano in mano ai cittadini che chiedono trasparenza e coerenza nell’uso del territorio?

In attesa che la giurisprudenza continui a tracciare confini più nitidi, il rischio è che, dietro l’etichetta della “discrezionalità amministrativa”, si celino scelte urbanistiche sempre più difficili da comprendere, se non da accettare. E che il confine tra legalità formale e legittimità sostanziale si faccia, anche in edilizia, sempre più sottile.

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