Tratto da: Lavori Pubblici  

Quali limiti incontra il potere comunale di riesaminare un intervento annullato con sentenza passata in giudicato? La successiva variante urbanistica può legittimare una nuova autorizzazione edilizia? Si può ancora applicare la cosiddetta sanatoria “giurisprudenziale”? E quali sono i limiti per applicare la fiscalizzazione dell’abuso ai sensi dell’art. 38 del Testo Unico Edilizia?

 

Ha risposto a queste domande il Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 5620 del 27 giugno 2025, ha accolto un ricorso disponendo la demolizione delle opere edilizie realizzate in forza di un permesso di costruire annullato con sentenza definitiva, escludendo la possibilità di regolarizzazione urbanistica e paesaggistica anche a seguito dell’approvazione di una variante al piano regolatore generale.

Il caso oggetto dell’intervento dei giudici di Palazzo Spada riguarda un permesso di costruire rilasciato nel 2016 per lavori di demolizione degli edifici esistenti e realizzazione di edifici con destinazione commerciale per una complessiva superficie di vendita di 1.300 mq distribuita su due edifici commerciali (400+900), oltre a 100 mq per un pubblico esercizio.

Il rilascio del permesso di costruire era stato preceduto:

  • dal rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, trattandosi di area sottoposta a vincolo ex lege e a vincolo specifico in base alla dichiarazione di notevole interesse pubblico di cui al D.M. 29 aprile 1960;
  • dalla delibera del consiglio comunale, che aveva approvato una variante al Piano di governo del territorio (la terza variante) e che aveva modificato le N.T.A., del P.d.R. del P.G.T. consentendo strutture di vendita anche oltre i 400 metri quadri di superficie.

Con la sentenza del Consiglio di Stato n. 2023 del 27 marzo 2019, il permesso di costruire è stato successivamente annullato per la non conformità dell’intervento alle norme di Piano, non essendo riferibile la norma delle NTA, che consente le destinazioni commerciali con medie strutture di vendita con superficie superiore ai 400 metri quadri anche agli “ambiti a prevalente destinazione residenziale, di contenimento dello stato di fatto”, in cui ricadeva l’intervento.

Nel frattempo il Comune ha avviato il procedimento per l’approvazione di una nuova variante (la quarta) con la modifica del Piano delle Regole, chiarendo che con una scheda d’ambito specifica le destinazioni d’uso ammesse nonché i relativi parametri edilizi, così da consentire l’intervento edilizio in questione nell’ambito di riferimento.

Il primo ordine di demolizione, emesso dal Comune nel 2019 a seguito dell’annullamento del titolo edilizio originario, era stato annullato dal TAR Brescia nel 2020 per difetto di motivazione, alla luce del procedimento in corso per l’approvazione della “quarta variante” al PGT. Secondo il TAR, in presenza di una nuova disciplina urbanistica potenzialmente sanante, veniva meno l’interesse pubblico all’abbattimento.

Tale pronuncia è stata poi riformata dal Consiglio di Stato nel 2021 (sentenza n. 5151/2021), che ha escluso ogni effetto della normativa sopravvenuta sulla legittimità del provvedimento repressivo e ha negato la possibilità di applicare l’art. 38 del d.P.R. n. 380/2001 (fiscalizzazione dell’abuso) in presenza di vizi sostanziali, richiamando sul punto l’Adunanza Plenaria n. 17/2020.

Nel frattempo, i ricorrenti (tra cui Legambiente) hanno proposto ricorso in ottemperanza, lamentando l’elusione del giudicato tramite l’approvazione della quarta variante e il rilascio di nuovi titoli edilizi e paesaggistici. Ma con sentenza n. 7411/2020, il Consiglio di Stato ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso, ritenendo che i nuovi provvedimenti costituissero atti autonomi, da impugnare con ordinari mezzi di legittimità.

Tali atti sono stati effettivamente impugnati davanti al TAR Brescia, che con la sentenza n. 817/2022 ha respinto tutte le censure, ritenendo legittima la nuova autorizzazione edilizia, qualificata come autonomo intervento edilizio realizzato in sostituzione dell’esistente, non soggetto a demolizione.

Contro questa decisione, i ricorrenti hanno proposto appello al Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 2613/2024, ha ribaltato l’impostazione del TAR, annullando la variante urbanistica per carenza dell’asseverazione idrogeologica richiesta dalla normativa regionale e ritenendo illegittima anche l’autorizzazione paesaggistica per conflitto di interessi tra funzioni edilizie e paesaggistiche.

A seguito di tale sentenza, le ricorrenti hanno notificato una diffida al Comune chiedendo l’esecuzione della demolizione, rimasta inattuata. Il Comune ha sostenuto che l’annullamento si fosse basato su vizi solo formali e che tali vizi erano stati emendati con l’approvazione definitiva della variante nel 2025.

Il nuovo ricorso in ottemperanza è stato fondato sulla persistenza dell’effetto demolitorio derivante dalla sentenza n. 2613/2024, sulla natura sostanziale dell’abuso e sull’inammissibilità di qualsiasi sanatoria giurisprudenziale. È stata evidenziata l’elusione del giudicato attraverso l’adozione di una nuova (quinta) variante, anch’essa finalizzata a rendere sanabile l’intervento.

Con la sentenza n. 5620/2025 il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso in ottemperanza, ordinando la demolizione entro 90 giorni.

Con la sentenza n. 5620/2025 il Consiglio di Stato ha ribadito tre principi fondamentali per la corretta applicazione del giudicato amministrativo e per i limiti alla sanatoria urbanistica e paesaggistica:

  1. una sentenza definitiva non può essere elusa attraverso una variante urbanistica sopravvenuta;
  2. la cosiddetta “sanatoria giurisprudenziale” non è applicabile in presenza di vizi sostanziali;
  3. l’art. 38 del Testo Unico Edilizia consente la fiscalizzazione dell’abuso solo in casi eccezionali e non quando manchi la doppia conformità.

Vediamoli nel dettaglio.

1. Giudicato e riedizione del potere amministrativo

Il Consiglio di Stato ha chiarito che una sentenza passata in giudicato ha un effetto vincolante che impedisce all’amministrazione di riproporre lo stesso intervento, seppure attraverso un nuovo procedimento formalmente distinto. Nel caso di specie, la quarta variante urbanistica e i successivi titoli edilizi e paesaggistici rilasciati nel 2020 sono stati considerati strumenti elusivi, in quanto finalizzati a “rieditare” un potere già esercitato e giudicato illegittimo con la sentenza n. 2023/2019.

2. Sanatoria giurisprudenziale inapplicabile

Il Collegio ha escluso ogni possibilità di regolarizzare l’intervento sulla base della sopravvenuta normativa urbanistica, chiarendo che la “sanatoria giurisprudenziale” presuppone vizi meramente formali. Nel caso in esame, i vizi riscontrati erano di natura sostanziale: riguardavano la non conformità alle previsioni urbanistiche, la mancanza degli standard, l’illegittimità dell’autorizzazione paesaggistica. In tal senso, viene confermato quanto già affermato dall’Adunanza Plenaria n. 17/2020.

3. Art. 38 TUE: quando la fiscalizzazione è preclusa

È stata infine esclusa l’applicabilità dell’art. 38 del d.P.R. n. 380/2001, che consente la conservazione dell’opera attraverso il rilascio di un nuovo titolo edilizio a seguito di annullamento giurisdizionale per vizi formali. Secondo il Consiglio, questa ipotesi non può operare quando – come nel caso di specie – il vizio è sostanziale e riguarda direttamente la legittimità urbanistica e paesaggistica dell’intervento. Inoltre, mancano i presupposti per una sanatoria paesaggistica postuma ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, poiché le opere realizzate hanno comportato aumenti di superficie e volume, risultando dunque non sanabili neanche sotto il profilo ambientale.

Il ragionamento giuridico sviluppato dal Consiglio di Stato si fonda su un insieme di disposizioni che delineano con precisione i limiti entro cui può essere valutata la regolarizzazione di un intervento edilizio eseguito in assenza dei necessari requisiti.

In primo luogo, l’art. 36 del Testo Unico Edilizia stabilisce che l’accertamento di conformità può essere rilasciato solo in presenza della cosiddetta “doppia conformità”: l’opera deve risultare conforme sia alla disciplina urbanistica e paesaggistica vigente al momento della realizzazione, sia a quella attuale. In mancanza di questa duplice verifica positiva, la sanatoria non è ammissibile.

L’art. 38 del medesimo Testo Unico consente, in ipotesi limitate, la possibilità di mantenere un intervento edilizio eseguito in forza di un titolo successivamente annullato. Ma tale possibilità è strettamente subordinata al fatto che l’annullamento sia intervenuto per meri vizi formali, e non sostanziali, e che sia comunque accertata la conformità dell’opera alla normativa vigente.

Sul versante paesaggistico, l’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 prevede che la sanatoria postuma sia ammessa solo per interventi di modesta entità, che non comportino aumento di superficie o di volume e che ricadano in categorie di opere compatibili con la tutela paesaggistica. Nei casi di nuove costruzioni o interventi di trasformazione edilizia rilevante, la regolarizzazione postuma è esclusa.

Infine, la giurisprudenza ha già chiarito in modo inequivoco, con le sentenze n. 2023/2019 e n. 2613/2024, che i titoli edilizi rilasciati nel tentativo di superare i precedenti annullamenti risultano viziati da difetti sostanziali, non sanabili né sotto il profilo urbanistico né sotto quello paesaggistico. Da ciò deriva l’impossibilità di mantenere le opere realizzate, che risultano prive di legittimazione ab origine.

Questo insieme di disposizioni, letto in combinazione con la giurisprudenza consolidata, conferma che non è possibile aggirare l’effetto conformativo delle sentenze definitive attraverso strumenti urbanistici sopravvenuti o permessi di costruire formalmente nuovi ma sostanzialmente reiterativi.

Dal punto di vista tecnico, la decisione ribadisce che la conformità urbanistica non può essere ricostruita a posteriori per legittimare un intervento già dichiarato illegittimo con sentenza definitiva. È irrilevante che il Comune abbia successivamente modificato il PGT, perché non è ammissibile una riedizione del potere amministrativo elusiva del giudicato.

Anche il tentativo di far valere l’art. 38 TUE come strumento di fiscalizzazione dell’abuso fallisce, poiché:

  • non è stato attivato alcun procedimento in tal senso;
  • le condizioni di fatto (opere nuove, in area vincolata, con incremento di volumetria) escludono la sanabilità;
  • manca qualsiasi ipotesi di vizio solo formale che giustificherebbe il rilascio di un nuovo titolo.

    Il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso in ottemperanza, ordinando la demolizione delle opere realizzate in forza del titolo edilizio annullato. Il Comune dovrà provvedere entro 90 giorni, decorso inutilmente il quale interverrà il Prefetto in qualità di commissario ad acta.

    In sintesi:

    • il giudicato amministrativo impone la demolizione anche se l’amministrazione adotta nuove varianti urbanistiche;
    • la “sanatoria giurisprudenziale” non è ammessa in presenza di vizi sostanziali;
    • la fiscalizzazione dell’abuso ex art. 38 TUE è applicabile solo per vizi formali e a condizioni molto restrittive;
    • l’opera abusiva va rimossa, anche d’ufficio, con spese a carico dell’amministrazione e facoltà di rivalsa.

 

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