Tratto da: Ministero Interno  

Territorio e autonomie locali 8 Luglio, 2025
Categoria 12 Cause ostative all’assunzione e all’espletamento del mandato elettivo
 
Sintesi/Massima

Dalla mera esistenza di un’impresa familiare ai sensi dell’art. 230-bis cod. civ. tra un consigliere comunale, in qualità di collaboratore, ed il di lui genitore (quale titolare dell’impresa familiare) non è consentito dedurre, in via immediata e diretta, la dimostrazione della sussistenza della causa di incompatibilità di cui all’art. 63, comma 1, n.2, del d.lgs. n. 267/2000. 

Testo

È stato chiesto di conoscere l’orientamento di questo Ministero riguardo alla presunta incompatibilità di un consigliere comunale collaboratore nell’impresa familiare del proprio genitore, avente ad oggetto lavori edili, “nel momento in cui l’impresa in questione risulti aggiudicataria di un appalto per l’esecuzione di lavori nell’interesse dell’Ente”. 
Nella richiesta di parere si evidenzia che: i) nella stessa impresa familiare, oltre al consigliere comunale, non prestano la propria attività di lavoro altri familiari, ii) la firma e la rappresentanza dell’impresa spettano al titolare della stessa, il quale ha il potere di procedere alla nomina di procuratori nell’ambito familiare, determinandone i diversi doveri e compiti con atto espresso e iii) al titolare dell’impresa è riservata la quota minima del 51% degli utili. 
Al riguardo, nel parere di Prot. N.35380 dell’11/11/2024, si osserva quanto segue: l’articolo 63, comma 1, n.2) del decreto legislativo 18 agosto 2000, n.267 dispone che non può ricoprire la carica di Sindaco, Presidente della Provincia, consigliere comunale, provinciale o circoscrizionale, […] colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune.
Orbene, la causa di incompatibilità di cui all’art. 63, comma 1, n.2) è ascrivibile al novero delle c.d. incompatibilità d’interessi, che hanno la finalità di impedire che possano concorrere all’esercizio delle funzioni dei consigli comunali soggetti portatori di interessi confliggenti con quelli dell’ente locale o i quali si trovino comunque in condizioni che ne possano compromettere l’imparzialità (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 20 febbraio 1997 n.44, sentenza 24 giugno 2003 n.220). Essa in particolare è finalizzata ad evitare che la medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di amministratore di un comune e la qualità di titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di un ente, o comunque di un centro di imputazione di interessi, che si trovi in rapporti giuridici con l’ente locale, caratterizzati da una prestazione da effettuare all’ente o nel suo interesse, atteso che tale situazione potrebbe determinare l’insorgere di una posizione di conflitto di interessi. In particolare, la locuzione “aver parte”, se correlata alla successiva locuzione “nell’interesse del comune” allude alla contrapposizione tra interesse “particolare” del soggetto ed interesse del comune, istituzionalmente “generale”, in relazione alle funzioni attribuitegli, e, quindi, sottintende alla situazione di potenziale conflitto di interessi, in cui si trova il predetto soggetto, rispetto all’esercizio imparziale della carica elettiva. 
Da quanto sinora detto se ne ricava che l’eventuale causa ostativa all’espletamento del mandato di consigliere ai sensi dell’art. 63, comma 1, n. 2) del d.lgs. 267/2000 si verifica al ricorrere di due presupposti: un presupposto soggettivo, ed un presupposto oggettivo.
Quanto al presupposto soggettivo, occorre muovere dall’inquadramento sistematico dell’istituto dell’impresa familiare delineato dal legislatore.  Al riguardo, l’art. 230 bis cod. civ. fornisce una definizione di impresa familiare quale impresa in cui collaborano continuativamente il coniuge, i parenti entro il terzo grado o gli affini entro il secondo. 
La norma codicistica, il cui fondamento viene non solo ricondotto all’art. 29 Cost., ma ancor prima agli artt. 35 e 36 Cost., “ha inteso superare quella presunzione di gratuità che in precedenza spesso veniva richiamata per qualificare le prestazioni in ambito familiare, vuoi in ragione di una generica “causa affectionis vel benevolentiae”, vuoi in ragione di un contratto atipico di lavoro gratuito, così da ritenere che le stesse non fossero in grado di generare pretese ed obblighi giuridicamente vincolanti, azionabili nei confronti del familiare imprenditore, beneficiario delle prestazioni medesime” (Cass. ss.uu. 18 gennaio 2024, n. 1900). Secondo la maggior parte degli interpreti, la costituzione dell’impresa familiare non ha fondamento contrattuale, trovando fonte nell’effettivo svolgimento di un’attività economica continuativa da parte di più familiari, sicché il singolo partecipante acquista i diritti, e assume i doveri, elencati nell’art. 230-bis  cod. civ., in relazione all’attività di lavoro prestata nell’impresa. 
Quanto al profilo strutturale, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti (Cass. ss.uu. 18 gennaio 2024, n. 1900) l’impresa familiare assume la fisionomia di un’impresa individuale ove il titolare riveste la qualità di imprenditore, con tutti gli obblighi e doveri annessi, “associando” alla partecipazione dell’impresa (di cui ha la titolarità) i propri familiari.  Il familiare-imprenditore è illimitatamente responsabile per l’adempimento delle obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi. In caso d’insolvenza è pertanto lo stesso familiare-imprenditore a fallire; il fallimento, quindi, non può essere esteso agli altri componenti l’impresa familiare, i quali corrono soltanto il rischio, una volta che l’azienda sia aggredita dai creditori, di veder vanificato il loro diritto sui beni aziendali. 
I familiari che prestano la propria opera all’interno dell’impresa familiare godono di una serie di diritti considerati inderogabili, come il diritto vantato da ciascun compartecipe al “mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia”, nonché il diritto di partecipare “agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato”. 
Aderendo dunque alla teoria prevalente secondo cui l’istituto in oggetto si sostanzia in un’impresa individuale e non collettiva (“l’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria attesa non solo l’assenza nell’art. 230 bis cod. civ. di ogni previsione in tal senso, ma, soprattutto, l’irriducibilità ad una qualsiasi tipologia societaria della specifica regolamentazione patrimoniale ivi prevista in ordine alla partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, che sono determinati in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione”, Cass., ss.uu., 6 novembre 2014, n. 23676), è possibile qualificare il diritto dei partecipanti agli utili e agli incrementi come un diritto di credito, ossia quale mera pretesa creditoria dei singoli collaboratori nei confronti del titolare dell’impresa.
Ciò premesso, sulla base delle informazioni fornite nella richiesta di parere, nel caso di specie non sembrerebbero ravvisarsi elementi di incompatibilità del consigliere comunale ai sensi dell’art. 63, comma 1, n. 2 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. 
Ed invero, dalla mera interessenza del consigliere al risultato dell’attività economica dell’impresa di cui è titolare il proprio genitore, non sembrerebbe potersi dedurre l’esistenza di una situazione di contitolarità dell’impresa stessa, in quanto tale implicante la dimostrazione della esistenza del (prerequisito) soggettivo di cui al citato art. 63, comma 1, n. 2. Lo stesso dicasi per quanto attiene alla particolare struttura dell’impresa in questione, nella quale, come sopra chiarito, solo il genitore del consigliere riveste il ruolo di imprenditore (e dunque di sostanziale “amministratore”), senza che al consigliere stesso possa essere attribuita questa qualifica, e/o quella di “dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento”, neppure in via analogica o con interpretazione estensiva della norma stessa.
Ogni conseguente considerazione sul piano della sussistenza del presupposto oggettivo, pertanto, appare del tutto ininfluente, non potendosi da essa trarre alcuna conclusione in termini di sussunzione della fattispecie concreta nell’ipotesi di incompatibilità delineata dal legislatore. 
Si puntualizza che quelle appena esposte rappresentano le coordinate normative di riferimento, fermo restando che, in conformità al principio generale per cui ogni Organo collegiale è competente a deliberare sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, spetterà all’organo consiliare di codesto ente la verifica delle cause ostative all’espletamento del mandato elettivo da parte del consigliere del comune interessato, secondo la procedura disegnata dall’articolo 69 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, che garantisce il contraddittorio tra organo ed amministratore interessato, assicurando a quest’ultimo l’esercizio del diritto di difesa e la possibilità di rimuovere entro un congruo termine la preclusione contestata (Cass. 10 luglio 2004, n. 12809).

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