Tratto da: Ildirittoamministrativo.it  

Autore: Vito Pagliarulo

Abstract

La concessione è una tipologia di contratto a cui, sempre con maggior frequenza, si ricorre per istaurare sinergie virtuose fra pubblico e privato. Il valore e la finalità di interesse collettivo, nell’ambito di detta tipologia di contratto, vengono perseguiti per nessun’altra via se non per quella che impone l’istaurazione di una leale ed equilibrata collaborazione fra i soggetti interessati. Non uno che prevalga necessariamente sull’altro, né questi che debba necessariamente soggiacere all’imperatività del primo. La seguente trattazione tenterà, tramite l’analisi dell’istituto della rinegoziazione contrattuale nelle concessioni pubbliche, di rilevare se, anche alla luce dell’innovativo principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale posto dall’art. 9 del D.Lgs. 36/2023, tale tipologia di contratto possa dirsi, a tutti gli effetti, attinta da detto principio ed equiparata, sotto tale profilo, ai contratti d’appalto disciplinati del medesimo testo normativo.

La Concessione e la conservazione dell’equilibrio contrattuale

Ai sensi dell’art. 2, c.1, lett. c) dell’allegato I.1. al D.Lgs. 36/2023, per contratto di concessione deve intendersi il contratto a titolo oneroso in virtù del quale una o più amministrazioni aggiudicatrici o uno o più enti aggiudicatori affidano l’esecuzione di lavori o la fornitura e la gestione di servizi a uno o più operatori economici, ove il corrispettivo consista unicamente nel diritto di gestire i lavori o i servizi oggetto dei contratti o in tale diritto accompagnato da un prezzo.

A prescindere dal fatto che si propenda per un’impostazione pubblicistica del rapporto – concessione come atto amministrativo unilaterale[1] –, ovvero per l’impostazione privatistica – concessione come contratto[2] -, ovvero ancora per un impostazione “mista” – concessione come provvedimento-contratto [3]– , ciò che appare immediatamente evidente, è che, in ogni caso, una delle caratteristiche distintive di tale tipologia di rapporti risieda nell’assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei servizi o la gestione delle opere.

L’allocazione del rischio di gestione in capo al concessionario, tuttavia, non deve indurre a ritenere che questi debba essere obbligato ad ammortizzare ogni possibile sopravvenienza che, idonea ad alterare la matrice economico-finanziaria del rapporto concessorio, comprometta la sostenibilità e redditività dell’intervento così come delineata nel Piano Economico Finanziario (PEF).

Il principio di conservazione di equilibrio contrattuale di cui all’art. 9 del D.Lgs. 36/2023, deve difatti ritenersi certamente applicabile anche a detta tipologia di contratti. Esso, in effetti, trova la sua esplicazione negli artt. 189 (modifica dei contratti durante il periodo di efficacia) e, in particolare, nel 192 (revisione dei contratti di concessione), sebbene con le peculiarità derivanti necessariamente dalla natura della concessione.

L’art. 9, peraltro, si riferisce espressamente agli “enti concedenti”, di talché è ragionevole ritenere applicabile il principio anche alle concessioni, seppure con alcune doverose precisazioni. Anche l’art. 13, inoltre, nel tracciare l’ambito oggettivo di applicazione del Codice, non esita a stabilire che “le disposizioni del codice si applicano ai contratti di appalto e di concessione”.

Al di là del dato strettamente testuale, inoltre, non può obliterarsi che quelli di concessione sono contratti che per propria natura tendono ad assumere efficacia duratura e pluriannuale; ciò li rende particolarmente esposti al rischio di sopravvenienze sperequative.

E’ interessante notare che, evidentemente in funzione di tale specificità, per i contratti di concessione, a differenza di quanto non si possa dire per quelli d’appalto, il Legislatore avesse già previsto e disciplinato nel codice del 2016 l’istituto della rinegoziazione.

Il D.lgs. 50/2016, difatti, all’art. 165, c.6 e all’art. 182, c.3, prevedeva che, al verificarsi di fatti non riconducibili al concessionario incidenti sull’equilibrio del piano economico finanziario, i contraenti potessero procedere alla revisione dello stesso da attuare mediante la rideterminazione delle condizioni di equilibrio.

L’ANAC, poi, tramite le linee guida n. 9 approvate dal Consiglio dell’Autorità con delibera n. 318 del 28 marzo 2018, si è fatta carico di definire i criteri utili a verificare l’equilibrio economico-finanziario e la corretta allocazione del rischio di gestione della concessione, nonché di puntualizzare presupposti, modalità e canoni di revisione del Piano Economico Finanziario.

 

I rimedi manutentivi in fase emergenziale

Anche la normativa sulle concessioni, esattamente come occorso all’interna disciplina della contrattualistica pubblica, è stata oggetto di interventi di natura emergenziale volti ad attenuare l’impatto prodotto dalla pandemia da COVID 19 ed in particolare dall’interruzione coattiva delle attività, imposta per le restrizioni al tempo resesi necessarie.

Per gli impianti sportivi, in particolare, venne coniata una norma ad hoc[4] la quale, nel riproporre in gran parte quanto già previsto nella richiamata normativa del Codice del 2016, individuava nella proroga della concessione, benché non superiore ai tre anni, una possibile soluzione idonea a favorire il graduale recupero dei proventi non incassati e l’ammortamento degli investimenti effettuati o programmati.

A fronte dell’intervenuta sospensione e della successiva ripresa graduale delle attività sportive imposte in fase emergenziale, il Legislatore ha inteso fornire un’indicazione che, al di là di quanto fosse già consentito dalla normativa vigente, consentisse un immediato ricorso allo strumento perequativo, nell’evidente il tentativo di agevolare l’attuazione allo stesso.

In quest’ottica vanno letti il riferimento espresso ad una precisa circostanza legittimante (ossia la “sospensione delle attività sportive, disposta con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri attuativi del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, e del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35, e del regime di ripresa graduale delle attività medesime disposta con i successivi decreti attuativi nazionali e regionali”), il richiamo ad un particolare strumento di riequilibrio del PEF (ossia “la proroga della durata del rapporto”), nonché l’indicazione di un puntuale criterio temporale di adeguatezza del rimedio (ossia la durata massima di ulteriori tre anni).

L’impressione è che il Legislatore abbia inteso fornite agli operatori interessati ed in particolare alle Amministrazioni concedenti, un perimetro ben preciso entro il quale poter godere di un certo margine di sicurezza in merito alla correttezza della rinegoziazione. Ciò sulla base di una sorta di valutazione teoretica di congruità della misura normativamente indicata (proroga massima di tre anni), rispetto allo specifico evento sperequativo costituito dalla sospensione delle attività sportive.

A ben vedere, tuttavia, nel coniare una norma che – quantomeno nelle intenzioni – avrebbe dovuto agevolare il ricorso allo strumento revisionale, il Legislatore ha comunque posto una disciplina che non ha potuto esprimere appieno le proprie potenzialità; cui per almeno un duplice ordine di ragioni.

In primo luogo, difatti, l’art. 216, c. 2, DL 34/2020 non ha introdotto alcun automatismo nell’attuazione dell’istituto. L’obbligo imposto all’Amministrazione, difatti, si sostanziava nell’avviare una puntuale istruttoria in merito all’attuale adeguatezza dell’equilibrio economico, alla durata residua della concessione ed alla proroga eventualmente da accordare, considerando a questo scopo gli effetti delle condizioni di utilizzo dell’impianto sportivo determinate dalle sopravvenute restrizioni sanitarie.

Esattamente come già previsto dall’art. 165, c.6 D.Lgs. 50/2016, quindi, anche la disciplina emergenziale declina la revisione del PEF (ed in particolare il consenso alla proroga nel limite di tre anni) come mera possibilità a fronte della quale è ben possibile che, pur a seguito di confronto, le parti non pervengano ad alcun’accordo, permanendo in tal caso, come unica alternativa percorribile, la risoluzione del contratto.

Illuminante, sotto questo profilo, è il raffronto proposto dall’Interprete fra la norma in discussione e l’art. 10-ter del d.l. 25 maggio 2021, n. 73, convertito dalla legge 23 luglio 2021, n. 106[5], il quale disciplina il caso specifico delle concessioni assentite alle associazioni sportive dilettantistiche senza scopo di lucro ed in scadenza entro il 31/12/2021[6].

Quest’ultima norma, a differenza della prima, introduceva un regime di revisione che operava ope legis e che non necessitava di alcuna attività di valutazione di merito, né tampoco di confronto con il concessionario, da parte dell’Amministrazione la quale, difatti, preso atto dei presupposti oggettivi individuati dal Legislatore (concessione ad ADS senza scopo di lucro e scadenza entro il 31/12/2021) era tenuta a disporre la proroga del contratto sino – in forza della più recente normativa – al 31/12/2025[7].

Sotto un secondo profilo, poi, è interessante notare come la norma di cui all’art. l’art. 216, c. 2, DL 34/2020, nell’introdurre il parametro temporale massimo dell’eventuale proroga, pur nell’evidenziato intento di agevolare l’operato dei contraenti, non ha fatto altro, nella pratica, che apporre un nuovo aprioristico vincolo alla autonomia negoziale delle parti.

Risulta elisa, difatti, ogni possibilità di accordo qualora, date le caratteristiche specifiche che connotano la singola fattispecie, l’orizzonte temporale tracciato dal Legislatore del 2020 si riveli finanche insufficiente a consentire al concessionario di realizzare il “recupero dei proventi non incassati e l’ammortamento degli investimenti effettuati o programmati” auspicati dalla normaQualora ciò si fosse verificato e quand’anche fosse stata conclamata e dimostrata la necessità di prorogare l’accordo oltre i tre anni, si sarebbe avuta una situazione per cui l’Amministrazione sarebbe stata impossibilitata ad offrire un rimedio che, benché adeguato e proporzionato nel caso di specie, di fatto sarebbe stato vietato a norma di legge.

Da quanto esposto, si può concludere che, mentre l’art. 216, c. 2, DL 34/2020 nulla aggiungeva rispetto a quanto non fosse già previsto e consentito dall’art. 165 D.Lgs. 50/2016 in materia di revisione dei contratti di concessione ed anzi risultava finanche limitativo rispetto al disposto codicistico, la norma di cui all’art. 10-ter del d.l. 25 maggio 2021, n. 73 risultava invece assolutamente innovativa rispetto alla disciplina del codice e poneva, dato l’automatismo dell’istituto e la valenza eterointegrativa riconosciutale dall’Interprete, un vero e proprio diritto soggettivo potestativo che il concessionario avrebbe potuto immediatamente far valere nei confronti dell’Amministrazione.

 

La conservazione dell’equilibrio contrattuale nel D.Lgs. 36/2023

Come detto, ad ogni modo, l’attuale assetto normativo della revisione del contratto di concessione è dettato dall’art. 192 del Codice[8] dalla cui lettura emerge immediatamente come il Legislatore, nel delineare i presupposti in presenza dei quali sia possibile procedere alla revisione del Piano Economico Finanziario, abbia sostanzialmente replicato quanto già previsto all’art. 9, c.1, sebbene, ovviamente, spicchi il riferimento all’ “equilibrio economico-finanziario” della commessa e non invece all’ “equilibrio del contratto”.

Ciò è dovuto al fatto che, come già accennato, il mantenimento del rapporto concessorio non si incentra sul valore del sinallagma ordinariamente riferito ai contratti commutativi, quanto piuttosto nella possibilità di mantenere nel tempo la sostenibilità e redditività dell’intera operazione.

Ebbene, se in condizioni ordinarie di gestione, l’onere di farsi carico di mantenere detto equilibrio rimane integralmente in capo al concessionario, il quale si assume il rischio di eventuali fluttuazioni dettate dalle ordinarie dinamiche del mercato, in circostanze straordinarie, sopravvenute ed imprevedibili, tale equilibrio deve essere trovato di concerto e con la partecipazione della Concedente, sebbene l’intervento di quest’ultima non possa spingersi sino al punto di sterilizzare anche i profili di alea connaturati all’operazione i quali, noti sin dall’origine, devono permanere in capo al concessionario.

Tale è la ragione per cui, in riferimento alle concessioni, gli interventi perequativi non possono che tradursi in forme di revisione del Piano Economico Finanziario, documento che per sua natura esprime, anche dinamicamente, la sintesi e la matrice economico-finanziaria del rapporto concessorio assicurandone la costante sostenibilità e redditività [9].

L’articolato in esame, poi, evidenzia come il Legislatore, relativamente alle concessioni, abbia inteso confermare la declinazione della revisione come mera possibilità e non come diritto.

Al concessionario, difatti, è riconosciuta una mera facoltà (“può chiedere la revisione del contratto”) mentre alcuna menzione, benché minima, è riservata ad eventuali obblighi che, in caso di richiesta, possano insorgere in capo alla Concedente.

Si rammenti invece che, quanto ai contratti d’appalto, il medesimo Codice, all’art. 120, c. 8, definisce una precisa dialettica in forza della quale la committente pubblica, in caso di richiesta di rinegoziazione da parte dell’appaltatore, è tenuta ad attuare, entro tempi ben precisi, puntuali adempimenti volti a favorire il raggiungimento di un accordo perequativo. La violazione di tale obbligo, ovvero anche il solo mancato raggiungimento del nuovo accordo, peraltro, legittima il contraente privato ad adire la competente autorità giudiziaria al fine di ottenere l’adeguamento del contratto all’equilibrio originario[10].

La norma riferita ai contratti di concessione difetta di previsioni analoghe e ciò rende davvero ardua la possibilità di ascrivere la revisione delle concessioni al rango di diritto soggettivo; essa piuttosto sembra atteggiarsi come mero interesse legittimo (peraltro nemmeno assistito da una disciplina puntuale) e denuncia una visione del Legislatore da cui traspare un’evidente disparità di approccio alle due tipologie di contratti; quasi che l’appaltatore meriti una tutela più incisiva rispetto a quella che, stanti le medesime condizioni e presupposti, debba essere riservata al concessionario.

Ad ulteriore conferma di ciò, si può rilevare come la disciplina delle concessioni sia rimasta del tutto orfana di riferimenti a clausole contrattuali di cui, foss’anche solo in forma di mera raccomandazione, sia evocata l’inserzione nei contratti.

Malgrado le precedenti considerazioni, necessita dar conto che la più recente giurisprudenza, in un’ottica di particolare favor per il contraente privato, anche per le concessioni ha ritenuto ravvisabile, al ricorrere delle condizioni normativamente imposte, un vero e proprio obbligo di rinegoziazione in capo all’Amministrazione[11]. Ciò è stato possibile tramite il costante richiamo ai principi di correttezza e buona fede; cionondimeno, esattamente come per i contratti d’appalto, è stato altresì confermato, anche con riferimento alle concessioni, l’assunto per cui “l’ordinamento non garantisce il diritto ad una revisione che riconosca le condizioni pretese dalla parte privata contraente. Impone l’onere in capo ai concedenti di avviare trattative sul punto. Trattative che la pubblica amministrazione conduce sempre dovendo avere ben presente oltre all’ordine contrattuale civilistico, l’interesse pubblico in questione”[12].

Il diritto alla revisione, quindi, quand’anche ritenuto appieno ravvisabile per i contratti di concessione, comunque non può tradursi nella pretesa da parte del concessionario di imporre all’amministrazione la revisione del PEF e, men che mai, nei termini ed alle condizioni dallo stesso adombrate.

Ulteriore profilo di affinità rispetto alla analoga disciplina dettata per i contratti di appalto, può essere ravvisata nella circostanza per cui, anche per le concessioni, il Legislatore del 2023 abbia voluto porre con chiarezza adamantina precisi vincoli alla possibilità di revisione del PEF.

L’art. 192, difatti, all’ultimo periodo del comma 1 ed al comma 2, pone due distinti limiti, di cui, il primo scaturisce dalla necessità di preservare l’assetto dell’allocazione del rischio così come delineata in sede di affidamento (di talché “l’alterazione dell’equilibrio economico e finanziario dovuto a eventi diversi da quelli di cui al primo periodo e rientranti nei rischi allocati alla parte privata sono a carico della stessa”), mentre il secondo è rivolto ad impedire che le parti possano concordare modifiche sostanziali postume, le quali, ove conosciute per tempo, “avrebbero consentito l’ammissione di candidati diversi da quelli inizialmente selezionati o l’accettazione di un’offerta diversa da quella inizialmente accettata, oppure avrebbero attirato ulteriori partecipanti alla procedura di aggiudicazione della concessione”.

L’esigenza del Legislatore è dunque quella di porre un confine invalicabile la cui infrazione non è mai consentita, nemmeno a cagione di sopravvenute circostanze eccezionali ed imprevedibili; tale soglia, per le concessioni, è ravvisabile nei livelli di equilibrio e di traslazione del rischio pattuiti al momento della conclusione del contratto.

Quello che, invece, può essere evidenziato come un significativo profilo di distinzione fra la disciplina della rinegoziazione nelle concessioni e quella che regola gli appalti è certamente ravvisabile nell’esito cui l’attività in questione può condurre.

Si è già avuto modo di chiarire che, esattamente come per gli appalti, anche per i contratti di concessione, l’avvio dell’attività di rinegoziazione non implichi in alcun modo l’obbligo poi di giungere ad un accordo modificativo del PEF.

A differenza, tuttavia, di quanto visto per gli appalti, per i quali il mancato accordo non può mai giustificare la cessazione del rapporto negoziale, ma al più costituisce viatico per adire l’autorità giudiziaria al fine di ottenere l’adeguamento[13], per i contratti di concessione quest’ultima possibilità non è contemplata.

L’art. 192, c. 4, difatti, individua espressamente, quale unico rimedio per il mancato accordo, la possibilità di ricorrere alla risoluzione del contratto[14].

Per le concessioni, quindi, non è previsto l’intervento di alcuna autorità giudiziaria che, indagate le circostanze di fatto, possa ingiungere l’adozione di iniziative volte alla salvaguardia del rapporto negoziale.

 

Conclusioni

Le riportate evidenze non possono che rafforzare le ombre già precedentemente accennate sulla possibilità di configurare un vero e proprio diritto alla rinegoziazione nelle concessioni pubbliche.

La disciplina dettata per tale tipologia di contratti, difatti, anche dopo il conio del nuovo Codice risulta orfana di norme che, in presenza dei necessari presupposti, impongano in capo ai contraenti un effettivo obbligo di attuare le necessarie misure manutentive del rapporto concessorio; essa, anzi, rinvia espressamente alla possibilità di recesso – e quindi la demolizione del vincolo negoziale – quale unica alternativa al mancato raggiungimento di un accordo perequativo.

Ciò deve indurre a concludere che, a differenza di quanto non possa sostenersi relativamente ai contratti pubblici d’appalto, il Legislatore, quanto ai contratti di concessione, abbia consapevolmente voluto declinare quello alla rinegoziazione come un mero interesse legittimo appannaggio del contraente privato e giammai come diritto potestativo.

A maggior conferma di tale assunto, sovviene altresì la constatazione per cui l’art. 192 del Codice non riserva al concessionario la medesima possibilità di “agire in giudizio per ottenere l’adeguamento del contratto all’equilibrio originario” che, invece, è riconosciuta a favore dell’appaltatore dall’art. 180 del Codice.

La disciplina delle concessioni pubbliche, pertanto, sotto questo profilo appare molto più affine a quella dettata dall’art. 1467 c.c. per i rapporti contrattuali fra privati, piuttosto che a quella di cui all’art. 120, c.8, che il codice riserva ai contratti pubblici d’appalto.

Alla luce delle superiori considerazioni appare legittimo, sul punto, dubitare della coerenza interna del Codice del 2023 ed in particolare della conciliabilità fra il disposto dell’art. 9, che declina quello alla rinegoziazione secondo buona fede come un vero e proprio diritto della parte svantaggiata, ed il dettato dell’art. 192, il quale invece pone una disciplina sostanziale dell’istituto che per i contratti di concessione appare ben lungi dal delineare una posizione di diritto potestativo.

Le ragioni sottese all’oggettiva disparità di trattamento che, in materia di revisione, è stata riservata dal Legislatore alle due tipologie di contratto pubblico (appalto e concessione) possono essere, inoltre, solamente ipotizzate.

A stretto rigor di logica, difatti, se si considera l’istituto della rinegoziazione come strumento necessario per attuare il principio di conservazione dell’equilibrio nei contratti pubblici posto dall’art. 9 del Codice, sarebbe legittimo attendersi che detto strumento fosse declinato con le medesime caratteristiche e con la stessa forza impositiva per tutte le fattispecie negoziali regolate dal Codice del 2023. Vieppiù in considerazione del fatto che i contratti di concessione, come già accennato, distinguendosi generalmente per la durata pluriennale che li connotano, sono particolarmente esposti al rischio di essere attinti da fenomeni sperequativi sopravvenuti ed imprevedibili, più di quanto non possa dirsi per i contratti d’appalto.

Una possibile chiave di lettura potrebbe essere azzardata ipotizzando che il Legislatore, quanto alle concessioni, indulga nell’assecondare la tesi secondo cui le concessioni non si atteggerebbero a rapporti di pura natura negoziale. Si potrebbe ritenere, in altri termini, che il Legislatore abbia inteso enfatizzare il carattere provvedimentale della concessione e l’effetto che da questa deriverebbe volto ad attuare l’accrescimento della sfera giuridica del privato concessionario il quale, tuttavia, mantiene funzione strumentale e servente rispetto alla realizzazione dell’interesse pubblico cui è preposta ex lege l’amministrazione concedente.

Tale visione, legittimerebbe una lettura del rapporto pubblico-privato nell’ambito delle concessioni che, a differenza di quanto non accada per i contratti d’appalto, vede i contraenti porsi su piani non allineati, con chiara preminenza dalla posizione pubblica rispetto a quella del privato.

In quest’ottica, l’interesse dell’Amministrazione e quindi il risultato ultimo a cui essa dovrebbe tendere (anche ai sensi dell’art. 1 del Codice) non sarebbe tanto o solamente quello di conseguire l’esatto adempimento del contratto, da cui deriva il dovere di assicurare la manutenzione del rapporto, quanto piuttosto quello di ottimizzare al massimo il valore dell’effetto ampliativo che, tramite la concessione, si realizza sulla sfera giuridica del privato concessionario ed in questo l’esigenza manutentiva sfumerebbe di importanza.

È bene ribadire che quella testé abbozzata costituisce solamente una delle varie ipotesi formulabili per giustificare le molte disarmonie evidenziate; resta il fatto che queste ultime appaiono palese indice di una ancora troppo marcata distanza fra le asserzioni di principio contenute nei primi 12 articoli del Codice e la normativa che poi, nella sostanza, dovrebbe darvi attuazione.

 

 

[1] Si tratta della teoria pubblicistico-provvedimentale cd. pura secondo cui non sarebbe configurabile un contratto o convenzione quale incontro tra le volontà dell’amministrazione e del privato, in quanto la fonte del rapporto è da individuarsi esclusivamente nel provvedimento di concessione stesso, di carattere unilaterale ad effetti bilaterali, interamente regolato da clausole pubblicistiche, relegando l’adesione del privato a mera condizione di efficacia del provvedimento. In tal senso, fra molti, O. RANELLETTI, Teoria generale delle autorizzazioni e concessioni amministrative, in Giur. It.,1984.

[2] Trattasi della teoria che identifica la fonte del rapporto nell’accordo con il privato, avente però natura pubblicistica. In tale senso, G. FALCON, Le convenzioni pubblicistiche, Milano, 1984.

[3] Ci si riferisce alla teoria che tende a valorizzare il consenso della parte privata, non come fonte a sè stante del rapporto né come mero presupposto di efficacia del provvedimento unilateralmente assunto dall’Amministrazione, quanto piuttosto che passaggio essenziale ed elemento che partecipa alla formazione del rapporto concessorio. In questo senso M.S. GIANNINI, Diritto Amministrativo, Milano, Giuffrè, 1970.

[4] art. 216, c. 2, DL 34/2020: “In ragione della sospensione delle attività sportive, disposta con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri attuativi del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, e del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35, e del regime di ripresa graduale delle attività medesime disposta con i successivi decreti attuativi nazionali e regionali, le parti dei rapporti di concessione, comunque denominati, di impianti sportivi pubblici possono concordare tra loro, ove il concessionario ne faccia richiesta, la revisione dei rapporti in essere alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, mediante la rideterminazione delle condizioni di equilibrio economico-finanziario originariamente pattuite, anche attraverso la proroga della durata del rapporto, comunque non superiore a ulteriori tre anni, in modo da favorire il graduale recupero dei proventi non incassati e l’ammortamento degli investimenti effettuati o programmati. La revisione del rapporto concessorio può essere concordata anche in ragione della necessità di fare fronte ai sopravvenuti maggiori costi per la predisposizione delle misure organizzative idonee a garantire condizioni di sicurezza tra gli utenti e ai minori ricavi dovuti alla riduzione del numero delle presenze all’interno degli impianti sportivi. La revisione deve consentire la permanenza dei rischi trasferiti in capo all’operatore economico e delle condizioni di equilibrio economico finanziario relative al contratto di concessione. In caso di mancato accordo, le parti possono recedere dal contratto. In tale caso, il concessionario ha diritto al rimborso del valore delle opere realizzate più gli oneri accessori, al netto degli ammortamenti, ovvero, nel caso in cui l’opera non abbia ancora superato la fase di collaudo, dei costi effettivamente sostenuti, nonché delle penali e degli altri costi sostenuti o da sostenere in conseguenza dello scioglimento del contratto”.

 

[5] “Al fine di sostenere le associazioni sportive dilettantistiche senza scopo di lucro colpite dall’emergenza epidemiologica da COVID-19, le concessioni a tali associazioni degli impianti sportivi ubicati su terreni demaniali o comunali, che siano in attesa di rinnovo o scadute ovvero in scadenza entro il 31 dicembre 2021, sono prorogate fino al 31 dicembre 2025, allo scopo di consentire il riequilibrio economico-finanziario delle associazioni stesse, in vista delle procedure di affidamento che saranno espletate ai sensi delle vigenti disposizioni legislative”.

[6] Tar Veneto,  sentenza n. 447/2022; T.A.R. Lazio Roma, sent n. 13321/2022.

[7] TAR Lazio, Roma, II, 9 dicembre 2021, nr. 12784, la quale, in riferimento all’art. l’art. 10-ter del d.l. 25 maggio 2021, n. 73, puntualizza che “La proroga introdotta dal legislatore ha natura di legge-provvedimento immediatamente efficace che opera automaticamente e in via generalizzata nei confronti di un numero delimitato di situazioni giuridiche soggettive concrete, prorogando in concreto il termine di durata delle concessioni già rilasciate. La disposizione, di conseguenza, etero-integra, ai sensi dell’art. 1374 c.c., il rapporto concessorio in essere sotto il profilo del termine di durata (cfr. il precedente della Sezione 3 novembre 2021, n. 11237). La proroga del termine, stabilita ex lege, non necessita dell’intermediazione di alcun potere amministrativo; di conseguenza, l’eventuale atto amministrativo che sopraggiunga non avrà natura costitutiva ma, ove adottato, avrà chiaramente natura dichiarativa o ricognitiva di un effetto stabilito ex ante dal legislatore e già prodottosi in concreto tra le parti del rapporto amministrativo (cfr., con riferimento alla questione delle legificazione della proroga del termine di durata delle connessioni demaniali marittime, Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 9 novembre 2021, n. 17 e n. 18)

[8] Questi, al comma 1, prevede che “Al verificarsi di eventi sopravvenuti straordinari e imprevedibili, ivi compreso il mutamento della normativa o della regolazione di riferimento, purché non imputabili al concessionario, che incidano in modo significativo sull’equilibrio economico-finanziario dell’operazione, il concessionario può chiedere la revisione del contratto nella misura strettamente necessaria a ricondurlo ai livelli di equilibrio e di traslazione del rischio pattuiti al momento della conclusione del contratto. L’alterazione dell’equilibrio economico e finanziario dovuto a eventi diversi da quelli di cui al primo periodo e rientranti nei rischi allocati alla parte privata sono a carico della stessa”.

[9] Consiglio di Stato, sez. V, 20.07.2020 n. 4636 per cui “L’eventuale disequilibrio economico-finanziario derivante dall’esecuzione degli interventi richiesti al concessionario può dunque – se del caso – trovare perequazione in quella sede, cioè attraverso la revisione od aggiornamento del Pef e il conseguente adeguamento dei termini della concessione”.

[10] Art. 120, c.8, D.Lgs. 36/2023: “…la richiesta di rinegoziazione va avanzata senza ritardo e non giustifica, di per sé, la sospensione dell’esecuzione del contratto. Il RUP provvede a formulare la proposta di un nuovo accordo entro un termine non superiore a tre mesi. Nel caso in cui non si pervenga al nuovo accordo entro un termine ragionevole, la parte svantaggiata può agire in giudizio per ottenere l’adeguamento del contratto all’equilibrio originario, salva la responsabilità per la violazione dell’obbligo di rinegoziazione”

[11] Cfr. ex multis Tar Sicilia, Catania, sez. I, 10 giugno 2024, n. 2175, secondo cui “La predisposizione di un nuovo piano economico-finanziario (PEF) a fronte di eventi imprevedibili e sopravvenuti che hanno modificato l’originario equilibrio economico del rapporto di concessione costituisce specifico obbligo di rinegoziazione in capo alla concedente, costituente espressione dei principi di collaborazione e buona fede che caratterizzano l’agire pubblicistico e ormai divenuti oggetto di puntuale ricognizione all’art. 1, comma 2-bis della l. 7 agosto 1990, n. 241”.

[12] Cfr. Consiglio di Stato n. 7200 del 24/07/2023 secondo cui, inoltre, “Certamente i principi di correttezza, collaborazione e buona fede trovano applicazione anche nella fase esecutiva dei rapporti negoziali tra amministrazione e privati, tuttavia non è sostenibile che in un ambito normativo e culturale caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di interessi pubblici e privati gli stessi possano spingersi sino a integrare specifici obblighi di rinegoziazione in deroga alla specifica disciplina pubblicistica ex art. 106, d.lgs. 50/2016, tanto meno alle condizioni che il privato ritiene soddisfacenti per le sue esigenze di imprenditore. Del tutto conforme ai principi appena espressi la normativa speciale emanata nel periodo di emergenza pandemica con il D. L. numero 34 del 2020, convertito nella legge numero 77 del 2020 ha previsto ipotesi di avvio delle trattative per la revisione delle concessioni per impianti sportivi individuando, per quelle particolari fattispecie le modalità capaci di favorire il graduale recupero dei proventi non incassati, l’ammortamento degli strumenti effettuati ma non prorogati. Ma, vale la pena di precisare, in alcun caso è previsto che si possa identificare il diritto al procedimento di revisione con quello all’ottenimento del preteso lucro. L’onere in capo alla pubblica amministrazione è di avviare i percorsi di revisione aventi origine nei periodi di chiusura ed in attività delle strutture; non esiste, e non sarebbe compatibile con i principi generali della materia, un diritto soggettivo ad ottenere la quantità di beneficio perseguito ma impedito dall’avvenuta alterazione dell’equilibrio economico finanziario introdotto dalla pandemia. Il percorso di revisione è immaginato quale strumento, che la pubblica amministrazione non può evitare, di ricerca di un nuovo equilibrio tra le parti. L’evento imprevedibile è la condizione necessaria a far valere l’esistenza di una alterazione delle originarie condizioni e dunque la opportunità della ricerca di un componimento. Non è, invece, previsto nella logica e nella lettera del legislatore una sorta di diritto soggettivo in capo al contraente ad ottenere il profitto che le condizioni obiettive hanno reso non raggiungibile”.

 

[13] Cfr. art. 120, c.8, D.Lgs. 36/2023, in forza del quale “Il contratto è sempre modificabile ai sensi dell’articolo 9 e nel rispetto delle clausole di rinegoziazione contenute nel contratto. Nel caso in cui queste non siano previste, la richiesta di rinegoziazione va avanzata senza ritardo e non giustifica, di per sé, la sospensione dell’esecuzione del contratto. Il RUP provvede a formulare la proposta di un nuovo accordo entro un termine non superiore a tre mesi. Nel caso in cui non si pervenga al nuovo accordo entro un termine ragionevole, la parte svantaggiata può agire in giudizio per ottenere l’adeguamento del contratto all’equilibrio originario, salva la responsabilità per la violazione dell’obbligo di rinegoziazione”

[14] Cfr. art. 192, c.4, D.Lgs. 36/2023, in forza del quale “ In caso di mancato accordo sul riequilibrio del piano economico-finanziario le parti possono recedere dal contratto. In tal caso, al concessionario sono rimborsati gli importi di cui all’articolo 190, comma 4, lettere a) e b), a esclusione degli oneri derivanti dallo scioglimento anticipato dei contratti di copertura del rischio di fluttuazione del tasso di interesse”

 

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