07/07/2018 – Riforma del contratto a termine: non si applica alle p.a.

Decreto Dignità. Per il privato

 Riforma del contratto a termine: non si applica alle p.a.

(pag. 34) La riforma del contratto a termine non si applica al lavoro pubblico. L’articolo 3, comma 3, del decreto legge (cosiddetto «decreto Dignità») approvato dal Governo prevede espressamente che «Le disposizioni degli articoli 1, 2 e 3 non si applicano ai contratti stipulati dalla pubblica amministrazione per i quali continua ad applicarsi la disciplina anteriore all’entrata in vigore del presente decreto». Dunque, non trovano applicazione né la limitazione della durata massima dei contratti a 24 mesi, né le nuove causali in caso di rinnovo successivo al primo contratto, né la limitazione delle proroghe che da 5 passano a 4. Il decreto risolve i problemi di coordinamento tra lavoro pubblico e privato che si sarebbero manifestati in assenza della previsione espressa (si veda ItaliaOggi del 29 giugno 2018), ma lascia aperte una serie di perplessità. La prima è di ordine giuridico. Il legislatore ammette espressamente la possibilità che una norma abrogata, il cui testo viene riscritto dalla successiva, produca comunque effetti, nel testo antecedente alla modifica, per una parte dei destinatari. Si tratta di una scelta piuttosto ardita, anche se fatta propria per via interpretativa dalla Cassazione in merito all’applicabilità al lavoro pubblico della soppressione dell’articolo 18: alcune sentenze degli ermellini hanno ritenuto applicabile alla p.a. il testo prima della sua abrogazione. Ma, l’abrogazione delle norme, frutto della sostituzione del loro testo da parte di norme successive, vale con efficacia erga omnes, su tutti i rapporti. Perché la norma antecedente sopravviva, non può essere considerato sufficiente disporre che essa produca effetti, nel vecchio testo, per una limitata parte dei destinatari. Sarebbe necessario produrre una norma nuova e diversa, ripetitiva del contenuto di quella abrogata, limitandone l’efficacia ad alcuni soli destinatari. Il «decreto dignità» dunque pone rilevanti problemi di tecnica legislativa, a pochi mesi dall’entrata in vigore della riforma Madia, che aveva tentato di coordinare le regole di disciplina del lavoro flessibile tra pubblico e privato mediante la tecnica del cosiddetto «rinvio dinamico»: la norma sul lavoro pubblico, cioè, rinvia a quella sul lavoro privato che si applica automaticamente anche al pubblico impiego, salvo per le parti non compatibili. L’articolo 36, comma 2, infatti, contiene una chiara norma di rinvio: «I contratti di lavoro subordinato a tempo determinato possono essere stipulati nel rispetto degli articoli 19 e seguenti del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, escluso il diritto di precedenza che si applica al solo personale reclutato secondo le procedure di cui all’articolo 35, comma 1, lettera b), del presente decreto. I contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato sono disciplinati dagli articoli 30 e seguenti del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, fatta salva la disciplina ulteriore eventualmente prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro». La previsione del «decreto dignità» approfondisce per l’ennesima volta la sempre più forte divaricazione che separa il lavoro pubblico da quello privato, pur in presenza di quel rinvio dinamico che ormai serve solo a fare confusione. È pur vero che nel lavoro pubblico l’applicazione dell’articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001 ha fatto sì che il rapporto a termine fosse sempre rimasto «causale», soggetto cioè alla dimostrazione della sussistenza di «esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale»: da questo punto di vista vi sarebbe un avvicinamento tra i due mondi. Tuttavia, nel privato le cause giustificative sono altre e non sono necessarie se il contratto avrà un termine iniziale inferiore a 12 mesi. Inoltre, non è ben chiara la ratio in base alla quale nel lavoro pubblico continuano ad essere ammessi contratti a termine fino a 36 mesi, con la possibilità di 5 proroghe, quando l’articolo 36, comma 1, del dlgs 165/2001 è ancora più risoluto del Jobs Act nell’imporre il lavoro a tempo indeterminato come modello sostanzialmente unico di regolazione del rapporto di lavoro nella p.a. Il perché, dunque, della circostanza che nel sistema pubblico possa esistere un «precariato» di estensione maggiore rispetto a quello tollerato nel privato oggettivamente sfugge. Piuttosto, il legislatore ancora una volta ha mancato di chiarire che non dovrebbero computarsi nei complessivi 36 mesi successive assunzioni dovute non a rinnovi, ma utili piazzamenti in concorsi.

Luigi Oliveri

06/07/2018 

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