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Scissione societarie e danno ambientale

Scissione societarie e danno ambientale

Attraverso operazioni societarie, nello spirito dei principi costituzionali di libertà economica (e in tempi non sospetti), si può incorrere nel rischio di essere esentati dalle responsabilità in materia di inquinamento ambientale.

La quarta sez. del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5021 del 22 agosto 2018, conferma un giudicato di primo grado e afferma che la responsabilità in materia ambientale deve essere provata.

Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare provvedeva a sanzionare alcune società per inquinamento.

La circostanza fattuale emergeva a seguito di alcune analisi effettuate in alcuni siti che avevano dimostrato che gli inquinanti ivi riscontrati erano “compatibili” con la tipologia di attività industriale svolta dalle cennate imprese.

Si potrebbe affermare, astraendo la questione al caso di specie, che se in una determinata zona o area geografica è presente un’industria che tratta determinati composti chimici e quell’area, a seguito di rilevamenti ed esami clinici, si scoprono valori di quelle sostanze nel sangue della popolazione residente in un certo numero di volte superiori rispetto a popolazioni italiane che vivono in aree non inquinate, si possa (oltre ad associare tali livelli a forti rischi per la salute) dedurne l’inquinamento con la dovuta bonifica (e profilassi della popolazione).

L’onere di bonifica risultava, pertanto, in capo a dette società.

Le cit. società attraverso una serie di operazioni di scissione, ipotizzate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale con carattere distrattivo, si sottraeva a tale obbligo per il venir meno della “corresponsabilità dell’inquinamento”, o quanto meno i soggetti imputabili venivano privati delle dovute garanzia patrimoniali (ergo le risorse economiche) per adempiere.

Il Ministero, in relazione al danno ambientale, intimava a tutti i soggetti coinvolti, ex lettera b) del comma 2 dell’art. 350 del D.Lgs. n. 152/2006 di «provvedere senza dilazione ad adottare tutte le iniziative opportune allo scopo di prevenire o limitare ulteriori pregiudizi ambientali ed effetti nocivi per la salute umana… a controllare, circoscrivere, eliminare o gestire in altro modo qualsiasi fattore di danno», osservando di seguire il programma di bonifica elaborato nell’ambito della procedura di amministrazione straordinaria cui erano sottoposte le società.

In primo grado, veniva osservato:

  • l’ammissibilità di un concetto esteso e sostanzialistico di “operatore economico” ma questo non esonera dalla dimostrazione concreta dal responsabile effettivo del danno, oltre a stabilire il quantum addebitabile ad ogni responsabile;
  • la mancata attivazione degli «strumenti di coinvolgimento partecipativo del soggetto individuato come responsabile» comporta un deficitistruttorio;
  • la presenza di normative diverse sugli istituti di bonifica rende il provvedimento lacunoso e contraddittorio, riflettendosi sull’indeterminatezza del soggetto obbligato al risarcimento.

La difesa del Ministero, all’interposto appello, si fondava:

  • sull’imputazione dell’inquinamento ascrivibile specificamente alle attività industriali svolte dalle società intimate, non avendo il carattere diffuso, e di conseguenza circoscrivendo la fonte inquinamento (rectius l’identificazione del soggetto);
  • l’inquinamento, per il suo carattere permanente, rileverebbe sotto il profilo meramente giuridico dell’attualità, con la conseguenza dell’ininfluenza della causa o del soggetto originario (c.d. imputabilità) non potendosi dirsi prescritta alcuna azione volta a contrastarne gli effetti;
  • l’identificazione dell’operatore economico dovrebbe essere rapportata alla concezione sostanzialistica del concetto di impresa maturata in ambito comunitario, con il precipitato di estendere anche ai soggetti che hanno avuto comunque, anche se in via mediata ed indiretta, il controllo della fonte dell’inquinamento;
  • la scissione societaria non ha diminuito le responsabilità originarie visto che i nuovi soci rimasti pro quota partecipano alla compagine societaria e che lo scopo di tale operazione era funzionale a svuotare la società obbligata dei mezzi patrimoniali per fare fronte ai propri oneri di bonifica;
  • la mancata comunicazione di avvio procedimento si giustificava dall’urgenza insita in un’attività di ripristino ambientale.

I Giudici di Palazzo Spada, non ritengono accogliibili le motivazioni poiché:

  • in punto di fatto, i siti rientrano tra quelli di interesse nazionale, l’inquinamento è risalente nel tempo e le aree erano (immediatamente dopo) già sottoposte a procedimenti di messa in sicurezza e bonifica;
  • la disciplina di riferimento impone che «non si applica al danno in relazione al quale siano trascorsi più di trent’anni dall’emissione, dall’evento o dall’incidente che l’hanno causato»;
  • anche ammettendo una concezione assai allargata di “operatore economico”, la società di riferimento, nata dalla scissione è venuta in un momento di gran lunga successivo sia alla verificazione del pregiudizio ambientale, sia, a fortiori, alla realizzazione delle condotte che lo hanno determinato.

Proprio su questo ultimo aspetto –l’elemento temporale – si incentra il Collegio giudicante:

  • non è possibile addebitare una responsabilità, anche indiretta, ad un soggetto che, all’epoca dei fatti, neppure esisteva giuridicamente e che ha sempre operato in un ben diverso settore produttivo;
  • in mancanza della dimostrazione concreta del collegamento tra attività posta in essere e inquinamento (c.d. condizione sine qua non) è precluso l’addebito o la responsabilità per la causazione di un evento di contaminazione;
  • gli addebiti devono essere motivati con prove rigorose non potendo riposare su generiche valutazioni (cfr. Cons. Stato, sez. V, 30 luglio 2015, n. 3756; anche Corte Giustizia UE, Grande Sezione, 9 marzo 2010, causa C-378/2008, §§ 53-57 e 64-65);
  • l’assunta natura distrattiva della scissione, peraltro lontana dall’adozione dell’atto del Ministero, non è stata dimostrata (trattandosi di un’ipotesi accusatoria) ed anche l’azione civile di danni è stata rigettata, anzi la scissione da cui è derivata la costituzione della società intimata è stata valutata come rispondente a precisi, concreti ed oggettivi interessi imprenditoriali;
  • il procedimento penale a carico di alcuni ex amministratori per distrazione di somme a favore della più volte cit. società, si è concluso con l’assoluzione degli imputati in quanto il fatto non sussiste, né con memoria di replica né in sede di discussione il Ministero ha osservato alcunché in proposito;
  • difettavano i presupposti per l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento poiché la situazione di contaminazione dei luoghi era nota da anni al Ministero e, in particolare, da ben prima che la società comunicasse l’impossibilità di garantire oltre la sicurezza dei luoghi.

L’appello viene, pertanto, rigettato con condanna alle spese di lite.

L’intera vicenda potrebbe essere riassunta nella considerazione che pur avendo individuato un soggetto responsabile, attraverso legittime operazioni di diritto societario, si possa sottrarsi dalle responsabilità e dal principio comunitario di “chi inquina paga.

In termini diversi, se il principio “chi inquina paga” può essere invocato dal proprietario di un sito inquinato esclusivamente a sostegno dell’azione di rivalsa nei confronti dell’effettivo responsabile dell’inquinamento, non potendolo esonerare dall’obbligazione pecuniaria nei confronti della Pubblica Amministrazione conseguente alle opere di bonifica, in base al principio generale fissato dall’art. 2051 del codice civile, è altrettanto vero che è possibile non adempiere se si dimostra di non avere i mezzi necessari (ovvero, le garanzie patrimoniali) se nel frattempo, per ragioni lecite e legittime di natura imprenditoriale (ex art. 41 Cost.), il soggetto scinde le proprie attività cedendone una parte, con un effetto collaterale (e del tutto non voluto) di privarsi di alcuni obblighi o dei mezzi necessari per la bonifica.

In effetti, è dimostrato che per attribuire la responsabilità in materia di inquinamento ambientale è necessario portare le prove documentate del collegamento della condotta all’evento, scindendo tale nesso non può avverarsi la condizione di legge e, quindi, l’imputabilità.

Questo orientamento conferma che la responsabilità per danno ambientale del proprietario attuale di aree interessate da un fenomeno di inquinamento, non ascrivibile sul piano eziologico alla sfera di azione del proprietario medesimo, deve essere a carico del responsabile effettivo, escludendo l’imposizione, a carico del proprietario estraneo all’inquinamento del sito, di misure di prevenzione o di riparazione, fatta eccezione per quelle che il soggetto intraprenda spontaneamente.

Nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non è consentito all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi (Cons Stato, sez. VI, 7 novembre 2016, n. 4647).

Se non è possibile imporre la bonifica questo fatto impeditivo non preclude la messa in sicurezza del sito contaminato, essendo una misura di correzione di (diffusione o propagazione dei) danni, rientrando nel genus delle precauzioni – unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al principio dell’azione preventiva – che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria e/o risarcitoria, non presuppone affatto l’individuazione del(l’eventuale) responsabile (T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 12 febbraio 2015, n. 2509, contra T.A.R. Toscana, sez. II, 9 dicembre 2015, n. 1676).

Alla luce del quadro giurisprudenziale, l’assenza di responsabilità a seguito di una scissione societaria, se tale operazione risulta neutra e del tutto estranea agli effetti della cit. responsabilità, questo meccanismo dovrebbe imporre una maggior precauzione in presenza di un inquinamento ambientale e di accertate responsabilità.

Il quadro che esce da questa sentenza non mancherà di destare una qualche perplessità a fronte dell’impossibilità dell’obbligato di poter bonificare per l’assenza dei mezzi, quando l’intera vicenda, con tutte le precisazioni temporali e i distinguo, possa essere inquadrata in un unico contesto ambientale.

D’altronde, il Codice dell’ambiente richiede che l’Amministrazione accerti la responsabilità dell’inquinatore (relationship of causality) prima di addebitare l’esecuzione della bonifica, escludendo l’imposizione di tale misura al proprietario del fondo, assumendo quale unico criterio d’imputazione la titolarità del diritto dominicale: la responsabilità va dimostrata (Corte Giustizia U.E., sez. III, 4 marzo 2015, causa C‑534/13).

Una dovuta riflessione impone di aumentare le tutele, interpretazioni coerenti con il diritto vivente, formulando norme chiare che garantiscono l’effettività dello spirito delle norme.

Si può pensare, allora, che la tutela dell’ambiente debba avere una maggior protezione, evitando il dubbio che attraverso operazioni societarie si possa sottrarsi dalle proprie responsabilità (ed è proprio questa la ratio del ricorso), riflettendosi inesorabilmente sulla qualità della vita.

È noto che il principio di precauzione impone che quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute umana, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che sia pienamente dimostrata l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi (Cons. Stato, sez. IV, 27 marzo 2017, n. 1392).

Mancano le leggi o mancano gli interpreti o mancano i suonatori o manca il senso di responsabilità: «To be, or not to be, that is the question» (SHAKESPEAREHamlet) ?.

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