Dal sito phastidio.it un articolo di Mario Seminerio

Le grandi trasformazioni portano con sé l’inevitabile scia di vincitori e sconfitti. Da sempre così, sempre sarà così. In questi casi, compito della politica è quello di scrutare nel futuro e cercare di costruire reti di protezione sociale per gli sconfitti. Spesso è più facile a dirsi che a farsi. Ad esempio, la formazione permanente vista come strumento di contrasto all’obsolescenza professionale. Risultati misti, diremmo.

Poi ci sono i paesi dove si cerca di fermare il cambiamento, costi quel che costi (ai contribuenti, sottinteso ma non troppo). Come l’Italia, dove il corporativismo esasperato ha prodotto la nota montagna di debito pubblico finalizzato a comprare il consenso a prezzo di profonde disfunzioni di politica economica. 

 

Il nostro è anche il paese probabilmente ai primi posti al mondo nel numero delle tax expenditures e relativo ammanco di gettito; cioè spese fiscali che servono a ritagliarsi porzioni di elettorato a colpi di bonus e sussidi che diventano rapidamente diritti acquisiti e nessuno li tocca più. 

Smart working e commercio

Ora capita che, dopo la pandemia (o forse durante, tra una variante e l’altra), persista questo fenomeno di spinta allo smart working, il lavoro “agile” e fuori sede aziendale. Elementi positivi e negativi, tra risparmio di tempi di trasporto e maggior potenziale di conciliazione tra vita e lavoro ma anche rischio di alienazione, soppressione della socialità e orari di lavoro imperfettamente delimitati. 

Tra gli effetti collaterali dello smart working c’è l’impatto prevalentemente negativo sugli esercizi commerciali, segnatamente ristorazione e pubblici esercizi, soprattutto dei grandi centri urbani. Abbiamo già assistito alla spinta al rientro in presenza dei pubblici dipendenti, motivata dall’altrettanto poderosa spinta ai consumi che da ciò sarebbe conseguita.

 

Del panino come motore del Pil ha già scritto da par suo Luigi Oliveri. Ricordiamo che anche il sindaco della città più “europea” e cosmopolita d’Italia (qualunque cosa ciò significhi), Beppe Sala, spaventato dalle lamentazioni di bar e ristoranti del centro, aveva fatto improbabile mostra di decisionismo tradizionalista, scrivendo l’immancabile letterina all’istituzione cartacea milanese per eccellenza, il Corriere. 

Smart working? Bello ma non ci vivrei, pareva essere la sintesi del pensiero del primo cittadino meneghino. Rischio sfruttamento, stravolgimento dei tempi di conciliazione tra vita e lavoro (molto meglio il pendolarismo, in effetti), aziende che, mentre voi siete a casa a pestare sulla tastiera del vostro portatile, si vendono la vostra scrivania in attesa di cacciarvi, e altre orribili storie.

Pertanto, era la sintesi, è tempo di tornare al lavoro, o meglio ai propri posti di lavoro, anche per evitare che i bar e i ristoranti soprattutto nel centro della città più cosmopolita d’Italia si ritrovino con le gomme sgonfie. Sottinteso o malinteso sgradevole: chi non lavora incatenato alla scrivania è un ladro o è una spia. 

Pur ammettendo qualcosa di corretto nelle argomentazioni di Sala, la tendenza alla diffusione del lavoro agile (o remoto, come volete voi) è proseguita, gettando in ambasce i commercianti. Per questo nei giorni scorsi Confesercentiha pubblicato un proprio studio con numeri e prescrizioni. Sui numeri non ho modo di opinare, non conoscendo la metodologia utilizzata. Sulle prescrizioni sì.

L’impatto sui centri urbani

Cambia il lavoro, cambiano le città“, è il titolo dello studio, sottotitolato “imprese e centri urbani tra digitalizzazione e smart working: primi effetti e previsioni”. Personalmente, ho trovato interessante questo passaggio:

Nel 2019 gli italiani che hanno avuto la propria abitazione come luogo di lavoro principale sono stati solo 184mila (di cui 44mila dipendenti, lo 0,2% del totale e 140mila indipendenti, il 2,6%). Includendo chi utilizzava la propria abitazione come luogo di lavoro secondario od occasionale si arrivava ad 1,3 milioni di lavoratori, il 5,7% del totale. Nello stesso periodo erano il 23% in Francia, l’8,4% in Spagna e il 12,3% in Germania.

Poi giunse la pandemia, e il nostro paese balzò in testa alle classifiche europee (sempre che i numeri siano corretti), col 40% di lavoratori “remotizzati”. Oggi i soggetti interessati allo smart working, per lo più nel settore privato e nell’ambito delle libere professioni, sono 4,5 milioni. Il bacino potenziale, secondo un sondaggio commissionato da Confesercenti a SWG, è di 6,2 milioni, inclusi gli ibridi, che lavorerebbero in ufficio alcuni giorni a settimana. 

Lo smart working pare avere dato un’ulteriore spinta all’e-commerce. Ma, in prospettiva, potrebbe -forse- rivitalizzare i negozi di prossimità dei quartieri periferici e dei piccoli centri. Pandemia e smart working hanno ridotto i ricavi dei ristoranti e aumentato quelli dei servizi di food delivery. In alcuni casi i primi hanno alimentato il canale dei secondi. 

Il convegnismo soffre, i buffet piangono 

Ovviamente, la pandemia e quello che ne viene considerato il figlio non troppo legittimo, lo smart working, hanno depresso i ricavi delle aziende operanti nel turismo congressuale e d’affari

A pagare lo scotto dello stop del turismo d’affari, soprattutto Roma e Milano: tra il 2020 e il 2021, la Capitale ha registrato la scomparsa di 1.210 attività ricettive, il più alto in Italia. A pesare, oltre alla crisi generale del turismo, quella particolare dei viaggi d’affari e le conseguenze del minore spostamento di persone per attività sindacali, politiche e relative alla pubblica amministrazione.

Il convegnismo e le chiacchiere di rappresentanza sono a rischio, quindi, e con esse tutto il mondo del catering, della ristorazione e dei pubblici esercizi, oltre a una quota di domanda di pernottamenti alberghieri. A questo punto, Confesercenti getta il cuore oltre l’ostacolo e, dopo aver preso atto che vittime predestinate della “rivoluzione”sono i propri associati, tenta di quantificare la perdita netta di consumi. Che oggi, con 4,5 milioni in smart working almeno fino ad agosto, sarebbe di 800 milioni al mese. 

Se si giungesse al temuto “smart working strutturale”, quello dei 6,2 milioni di persone stimate sopra, il fenomeno

[…] porterebbe le famiglie a spendere complessivamente -9,8 miliardi di euro l’anno rispetto ai livelli pre-pandemia.

Ecco i numeri disaggregati secondo Confesercenti. Prima le famiglie:

confesercenti sw famiglie

Poi le imprese: 

confesercenti sw imprese

Destino cinico, baro e asimmetrico

Segue la sintesi e l’uso di un termine che noi italiani abbiamo imparato a conoscere e usare bene:

Inoltre, come appare chiaro, la distribuzione di perdite e guadagni è asimmetrica: le imprese della ricettività, i pubblici esercizi, le imprese di trasporto pubblico locale e ferroviario, nonché gli esercizi del commercio al dettaglio di abbigliamento e calzature, sono quelli che perderanno anche quote rilevanti del proprio fatturato.

Asimmetrico. Un mondo asimmetrico. E spesso il nostro paese è dalla parte sbagliata dell’asimmetria. Ora abbiamo anche i settori merceologici vittime di asimmetria entro un paese colpito da destino cinico, baro e asimmetrico. Che vertigini. 

E quindi, che possiamo fare per i nostri commercianti? Se siete aridi e turboliberisti potreste alzare le spalle e liquidare tutto con un bel “nulla, shit happense si chiama rischio d’impresa”. Se invece siete empatici, dotati di sensibilità sociale e vi capita di aver tra le mani un paio di centinaia di miliardi di erogazioni europee, potreste avere un’illuminazione: 

Prevenire i cambiamenti o semplicemente governarli, per il nostro Paese non è mai stata una cosa semplice. Nel PNRR sono stati già tutti “prenotati” i 3,4 miliardi di euro per progetti di Rigenerazione urbana: sono state presentate oltre 2.600 richieste per un totale di 4,4 miliardi di euro.

Andrebbe aperta, però, una riflessione sul tipo di rigenerazione urbana che si sta affermando spontaneamente e che provocherà una redistribuzione di attività tra diverse zone della città, con effetti negativi per molte imprese, e su come ri-orientarla in modo più equilibrato, per evitare alle imprese altri effetti dopo quelli subiti in questi due anni, per molti versi non ancora esauriti.

Sussidi rigenerati in periferia

Ecco: PNRR e rigenerazione urbana. Quest’ultima è una sorta di abracadabra che in molti casi finirà con la costosissima chiusura delle buche e un po’ di piantumazione. Quindi

Per gli esercizi a rischio di chiusura devono essere approntati strumenti per la riconversione e la rilocalizzazione. Il mutamento delle abitudini di consumo è stato infatti improvviso e il suo costo non può essere scaricato sulla sola impresa. A livello nazionale può essere costituito un apposito Fondo rotativo per la riconversione degli esercizi commerciali, che finanzi progetti di investimento almeno a 5 anni a un tasso agevolato, da collegare a investimenti in nuove tecnologie e nel segno della sostenibilità ambientale. Una nuova impresa commerciale green e digitale per la città che si trasforma.

Confesso che non mi è chiaro quali potrebbero essere questi “investimenti in nuove tecnologie e nel segno della sostenibilità ambientale”. Forse dei terminali Pos finalmente funzionanti e fatti con materiali riciclabili? Ma come rispondere alle “rilocalizzazioni” periferiche delle aziende, rese necessarie dallo smart working?

Gli Enti locali potrebbero lanciare bandi per la rigenerazione urbana su piccola scala, che abbiano a riferimento aree circoscritte e da affidare a raggruppamenti di imprese commerciali.

Ecco, forse dei reinsediamenti di negozi e botteghe in aree periferiche depresse. Sarà. Ma serve anche una “agenzia per le imprese di vicinato”. Che investa nel sostegno alla imprenditorialità. Vaste programme:

Negli anni del Covid, infatti, la nascita di nuove imprese è crollata. In 18 mesi di pandemia ne abbiamo registrato una denatalità di oltre 75mila. Ma già nell’era prepandemica la vita media del 50% delle nuove imprese non superava i tre anni.

Sulle politiche attive manca ancora un riferimento alla formazione delle imprese, da prevedere alla stessa stregua dell’obbligo di formazione dei lavoratori dipendenti. Un risultato da ottenere attraverso l’elaborazione e la predisposizione di “Piani formativi”, mirati sui nuovi paradigmi aziendali e calati nel nuovo contesto economico sociale.

Formazione imprenditoriale obbligatoria

Vuoi diventare commerciante, pardon, imprenditore? Chiedimi come. Anzi, chiedilo alla futuribile “agenzia per il sostegno delle imprese di vicinato e delle imprese diffuse”. Già che ci siamo, chiediamoci anche il perché dell’elevata mortalità infantile di aziende. E non si tratta di startup, anche se alcuni chiamano così anche le pizzerie appena aperte.

C’è un’agenzia per ogni cosa, incluso pagare “indennizzi” ai commercianti che sperano di spostarsi dal centro alla periferia per poter vendere lì i loro panini e non solo. Un obbligo di formazione permanente per diventare imprenditori è interessante, comunque. Le business schools sono allertate. 

 

Il PNRR come grande mammella dei risarcimenti da “transizione” è una tentazione sin troppo umana. L’Italia è un’aspirante repubblica democratica fondata su ristori e indennizzi, meglio se “cospicui”. Aspira soprattutto risorse fiscali: un tempo solo le proprie, ora anche di altri paesi. 

Vedremo che accadrà e se ci saranno partiti disposti a farsi portatori di questa “rigenerazione urbana” a colpi di tassi agevolati e sussidi. Il rischio è sempre quello: restare col collo rigorosamente volto all’indietro tentando disperatamente di convincersi che valore aggiunto e produttività passino per i bar e i ristoranti, magari con una puntatina in spiaggia, a presidiare il nostro meraviglioso mare minacciato di “esproprio” per mano delle multinazionali con tante zeta. 

Certo, se questa idea di “imprenditorialità di prossimità” nel commercio dovesse essere frustrata dalla indisponibilità di sussidi, resta la via alternativa:convincere il legislatore a vietare sul territorio nazionale il lavoro da remoto. Com’è che era, prevenire i cambiamenti? Ma nel senso di anticiparli o di impedirli? Ah, saperlo. Per fortuna i conducenti di carrozze a cavallo e i loro nobili animali sono nel frattempo deceduti: risparmieremo i fondi europei che costoro avrebbero certamente rivendicato.

 

Puntiamo al nuovo acronimo magico: PNRR diventi Panino Nazionale di Ripresa e RistorazioneInnovazione nella tradizione, c’era scritto nel PowerPoint che ho trovato l’altra sera in un biscotto della fortuna di un baretto di Chinatown. Rigorosamente rilocalizzato.

Nessun tag inserito.

Torna in alto