E’ competente la Corte dei Conti in caso di compensi percepiti dal dipendente per attività extraistituzionali non autorizzate
La Corte dei Conti, sezione per il Piemonte, con la sentenza n. 33 del 16 aprile 2018, ha affermato che il presupposto che non vi sia il riversamento dei compensi percepiti dal dipendente pubblico per le attività extraistituzionali non autorizzate, comporta l’attivazione della stessa Corte al fine del recupero delle somme indebitamente percepite.
Il caso esaminato
Nel corso del 2013 alla Procura Regionale perveniva una denuncia di danno da parte del Segretario di una Comunità Montana, che riferiva la pendenza di un procedimento penale a carico di un dipendente per la violazione dell’art. 53, D.Lgs. n. 165 del 2001 e successive modificazioni.
Le indagini svolte al riguardo avevano consentito di verificare che il dipendente svolgeva attività presso una Comunità Montana con la qualifica di tecnico agrario.
Nel dicembre del 2012 la Guardia di Finanza effettuava una perquisizione locale e personale nell’ufficio del dipendente, sequestrando una memoria USB, un telefono cellulare ed un pc fisso, all’interno del quale venivano rinvenuti files cancellati relativi a “gite” e numerose mail di analogo contenuto; la conseguente verifica fiscale intrapresa dai militari del Corpo nei confronti del dipendente rivelava che il medesimo, dal 2008 in poi, aveva eseguito, in violazione della normativa tributaria, attività di organizzazione di soggiorni e viaggi.
A fronte dei compensi incassati, l’Agenzia delle Entrate notificava al dipendente i pertinenti avvisi impositivi per gli anni interessati allo scopo di riprendere a tassazione gli importi evasi, successivamente definiti mediante istanze di accertamento con adesione.
Il dipendente veniva anche sottoposto a procedimento penale per avere utilizzato in modo continuativo, per la sua attività personale di organizzazione di viaggi, l’utenza telefonica mobile ed il pc assegnatigli dalla Comunità Montana; tuttavia con sentenza del 2014 il GIP presso il Tribunale dichiarava non doversi procedere nei confronti del dipendente, poiché il fatto non sussiste a causa della scarsa entità del danno cagionato.
Venuta a conoscenza dei fatti sopra descritti, la richiamata Comunità Montana contestava al convenuto la violazione dell’art. 53, comma 7, D.Lgs. n. 165 del 2001, per lo svolgimento senza autorizzazione, nel periodo dal 2008 al 2012, dell’attività di “agente/accompagnatore di viaggi, con presunto utilizzo di attrezzature e strumenti in dotazione dell’Ente”, avviando nel contempo il procedimento di recupero delle somme indebitamente percepite.
La Giunta dell’Ente locale, in seguito, prendeva atto della domanda del dipendente di risoluzione consensuale anticipata del rapporto di lavoro in essere, approvando lo schema dell’atto negoziale concernente l’estinzione dello stesso; tuttavia la Regione con determina dirigenziale del giugno 2013 quantificava in Euro 54.801,12, l’indennità sostitutiva spettante al dipendente e le parti sottoscrivevano l’atto risolutivo del rapporto di lavoro. Il Segretario Direttore della Comunità Montana, a seguito del verbale di istruttoria redatto da un lato, accertava la percezione da parte del dipendente di compensi per lo svolgimento di attività occasionale di intermediazione non autorizzata per l’importo complessivo di Euro 55.398,10, in contrasto con la disposizione di cui all’art. 53, comma 7, D.Lgs. n. 165 del 2001 e dall’altro, veniva disposto di trattenere ed introitare nel bilancio dell’Ente la somma di Euro 54.801,12 riconosciuta a favore del dipendente a titolo di indennità sostitutiva per la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, intimandogli contestualmente il pagamento del residuo importo di Euro 596,98.
Il dipendente, tuttavia, chiamava in giudizio la Comunità Montana al fine di ottenere la condanna dell’Ente locale al versamento dell’indennità in precedenza tratteggiata; la Comunità Montana si costituiva in giudizio resistendo alla domanda e formulando istanza riconvenzionale per l’accertamento e la dichiarazione di responsabilità del dipendente ex art. 53, comma 7, D.Lgs. n. 165 del 2001, con conseguente condanna del convenuto al pagamento della somma di Euro 55.398,10 da porsi in compensazione con gli importi ad esso spettanti per l’indennità di risoluzione anticipata del rapporto di lavoro.
Il Tribunale con sentenza del novembre 2016, accoglieva la domanda del dipendente e condannava l’Ente locale a versare al medesimo la somma di Euro 54.801,12 a titolo di indennità supplementare e dichiarava il proprio difetto di giurisdizione sulla domanda riconvenzionale.
Ravvisata, in merito ai fatti l’esistenza di profili di responsabilità amministrativa a carico del dipendente per il danno cagionato con la propria condotta alla suddetta Comunità Montana, in ordine al mancato riversamento a favore della stessa dei compensi incassati a fronte degli incarichi non autorizzati, la Procura Regionale ha emesso nei confronti del dipendente l’invito a dedurre, ai sensi dell’art. 67, D.Lgs. n. 174 del 2016, recante il Codice della giustizia contabile; contestualmente l’Ufficio Requirente ha avanzato anche istanza di sequestro conservativo per l’importo di Euro 55.398,10, accolta con Decreto del Presidente della Sezione Giurisdizionale (del Piemonte) integralmente confermato dal Giudice designato a seguito dell’Udienza cautelare a contraddittorio pieno.
La difesa del dipendente
La difesa del contribuente avverso questo atto della Corte dei Conti si è basa, tramite il suo legale, nel fatto che non sussiste la giurisdizione della Corte stessa con riferimento alle condotte realizzate anteriormente al 2012, considerato che nel caso del proprio assistito non viene contestata una specifica fattispecie di danno erariale, ma solo l’omesso versamento di somme asseritamente percepite, che l’attività svolta dal dipendente che riguardava viaggi e gite a cui partecipavano frequentemente anche gli stessi amministratori della Comunità Montana, che quindi erano perfettamente a conoscenza del comportamento tenuto dal convenuto in merito all’organizzazione degli eventi, che gli atti istruttori formati nel procedimento penale hanno consentito di appurare che il suddetto dipendente utilizzava esclusivamente una Sim card di proprietà del medesimo e che, infine, non ritiene configurabile nella vicenda in rassegna gli estremi del pregiudizio erariale tipizzato dalla norma invocata dalla Procura Regionale.
L’analisi della Corte dei Conti del Piemonte
Per i giudici contabili la domanda risarcitoria è fondata e merita accoglimento nella sua interezza. Come si evince dall’esposizione dei fatti delineati in premessa, il giudizio sottoposto all’esame del Collegio riguarda, in sostanza, il danno patrimoniale che sarebbe stato cagionato dal dipendente comunale della Comunità Montana, secondo la ricostruzione della Procura Regionale, in diretta connessione con la presunta condotta illecita relativa all’attività di intermediazione concernente viaggi e soggiorni senza avere richiesto la prescritta autorizzazione, posta in essere dal medesimo in qualità di dipendente del suddetto Ente locale.
I giudici contabili piemontesi con riferimento all’ipotesi accusatoria attinente all’applicazione delle disposizioni contemplate dall’art. 53, D.Lgs. n. 165 del 2001 e successive modificazioni nei confronti del dipendente, in qualità di dipendente pubblico, estesamente illustrata dall’Ufficio Requirente nell’atto di citazione, appare ampiamente giustificata la sussistenza nell’ottica del fatto materiale della condotta antigiuridica, alla luce delle molteplici e convergenti fonti probatorie rivenienti dalle indagini svolte dai militari della Guardia di Finanza nell’ambito del procedimento penale incardinato presso il Tribunale, relativamente al materiale sequestrato in sede di perquisizione locale e personale del dicembre 2012, che testimonia lo svolgimento in nero di attività di intermediazione a carattere extraistituzionale non autorizzata, e dai successivi accertamenti effettuati dalla Procura Regionale attrice in seguito alla denuncia di danno.
I giudici contabili evidenziano che la normativa contenuta nell’art. 53, comma 7, D.Lgs. n. 165 del 2001, fonte primaria in rassegna rivela un carattere rigido ed inderogabile che emerge esplicitamente dalla sua formulazione, nel senso che il nucleo centrale della norma, tenuto conto delle sue finalità sostanziali, riposa proprio sul divieto assoluto ed ineludibile per i lavoratori pubblici di svolgere attività extraistituzionale recante uno specifico compenso senza avere ottenuto la preventiva autorizzazione, come si evince in modo palese dalla piana lettura del predetto comma 7, secondo cui i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’Amministrazione di appartenenza.
In primo luogo la tesi della gratuità delle prestazioni di intermediazione svolte, osservano i giudici contabili, sostenuta con decisione dai suoi difensori, appare oltremodo recessiva e si infrange sulle molteplici risultanze che emergono dal fascicolo processuale; risulta che il dipendente, in sede di contradditorio dinanzi al competente Ufficio dell’Agenzia delle Entrate, abbia chiesto l’applicazione nei suoi confronti del “regime dei minimi” ovvero, in subordine, di considerare occasionale l’attività svolta senza, quindi, subire rilievi ai fini IVA ed IRAP; ne discende, quale diretto corollario, che la presentazione delle predette istanze elimina in radice la tesi invocata dal collegio difensivo, non essendo conciliabile con l’affermazione di attività svolta senza ricevere alcun compenso in denaro.
In secondo luogo, la gratuità delle prestazioni è stata esclusa dallo stesso dipendente sia in sede di procedimento disciplinare, sia nel corpo del ricorso introduttivo incardinato dal convenuto dinanzi al Tribunale, come si evince in modo chiaro dalla documentazione depositata dalla Procura Regionale, tenendo conto che la difesa, pur contestando la ricostruzione di parte pubblica, non si è soffermata in modo puntuale e specifico su siffatte circostanze che smentiscono in maniera palese la tesi di una attività completamente gratuita.
In terzo luogo, appare inattendibile l’affermazione concernente lo svolgimento delle citate prestazioni senza percepire alcun compenso pure alla luce di una nozione che rientra nella comune esperienza, a tenore dell’art. 95, comma 2, del Codice della giustizia contabile, in quanto nessun soggetto è disposto ragionevolmente ad effettuare una attività duratura che presenta comunque l’esigenza di dedicare alla stessa diverse ore di tempo, alcune voci di costo che rimangono a proprio carico, come quelle afferenti all’uso del telefono personale o alla copisteria, e l’impiego di significative energie psico-fisiche, senza ottenere in contropartita un congruo emolumento in denaro.
Le conclusioni
La Corte dei Conti a seguito delle motivazioni suesposte condanna al pagamento in favore della Comunità Montana l ‘ex dipendente con il versamento di Euro 55.398,10, oltre alla rivalutazione monetaria, da calcolarsi esclusivamente sulla somma residua rispetto all’importo già introitato in compensazione di Euro 54.801,12, dal momento consumativo del danno, identificato nella presente fattispecie alla data in cui è stata emanata la determinazione che ha accertato la percezione di compensi a fronte di attività occasionale non autorizzata, sino alla pubblicazione della presente sentenza ed agli interessi legali calcolati dalla pubblicazione della Sentenza.
Corte dei conti-Piemonte, Sez. giurisdiz., Sent., 16 aprile 2018, n. 33
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