Nascono da qui le decisioni di sabato scorso: lo sblocco degli anticipi ai Comuni da 4,3 miliardi, erogati ieri dal Viminale, e i 400 milioni mossi dall’ordinanza della Protezione civile (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 30 marzo n. 85). Anche in questo caso si tratta tecnicamente di una «anticipazione», perché un’ordinanza non può generare nuove risorse (e nemmeno una legge, per ora, fino alla prossima autorizzazione del Parlamento sull’extradeficit).
Ma al «ristoro», evocato dal primo comma dell’ordinanza che sta creando parecchia agitazione nelle amministrazioni locali, dovrà pensare il decreto Aprile rabboccando i fondi della Protezione Civile. Non le singole amministrazioni. Che stanno mettendo in campo due modalità di utilizzo: il buono spesa da utilizzare presso i supermercati che accettano di entrare nella partita, oppure l’acquisto diretto di generi alimentari da consegnare alle famiglie in difficoltà. Le due strade saranno spesso utilizzate contemporaneamente dai Comuni, sulla base delle valutazioni dei servizi sociali: perché nelle famiglie più problematiche la consegna diretta dei generi alimentari è il modo più sicuro per evitare che il buono non venga speso per beni di prima necessità. Per far partire gli aiuti i Comuni devono definire l’elenco dei beni di prima necessità e fissare l’elenco degli esercizi commerciali coinvolti, oltre a indicare i criteri di assegnazione degli aiuti. In molti casi si tratta però di continuare attività già in corso. Con modalità varie. A Genova il buono varrà intorno ai 100 euro e ne sarà destinato uno a ogni componente della famiglia in difficoltà, a Bergamo il via libera è questione di ore, a Napoli i fondi nazionali saranno integrati con risorse locali. E in molti piccoli enti si gestirà il tutto in forma associata.
In ogni caso, il decreto Aprile è l’orizzonte a cui guarda questo che a tutti gli effetti è un intervento ponte. Il decreto atteso la prossima settimana in consiglio dei ministri dovrà portare misure più strutturali: per i Comuni, e per il welfare più in generale.
Il Dl 18 infatti ha messo sul piatto intorno ai 10 miliardi per aiutare circa 11 milioni di lavoratori, essenzialmente dipendenti, autonomi e professionisti, attraverso nuova cassa integrazione, bonus di 600 euro e altri strumenti. Da questa platea rimangono esclusi altre categorie come lavoratori saltuari, stagionali, addetti a termine non rinnovati, colf e badanti. Secondo una primissima stima dei tecnici del governo si tratterebbe di poco meno di due persone (il “nero” viene stimato dall’Istat in oltre 3 milioni di lavoratori). Il reddito d’emergenza non sarà, però, una erogazione “a pioggia” e, molto probabilmente, avrà dei paletti (anche per non agevolare il sommerso): un indicatore reddituale (forse l’Isee) e gli interessati dovranno aver svolto, anche un brevissimo, periodo lavorativo (nel 2019), e aver quindi subito la contrazione del reddito nei primi mesi del 2020, legata all’emergenza sanitaria. Sul piatto l’esecutivo è pronto a mettere 1 o 2 miliardi. Le somme (4-500 euro al mese) potrebbero arrivare cash, oppure, come ha lasciato intendere, il sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, sotto forma di pagamento di bollette o affitti. Il nuovo strumento, ha aggiunto Marco Leonardi, consigliere economico del ministro Roberto Gualtieri, «dovrà fornire un sostegno immediato alle persone, ma poi andrà collegato ad altre misure per un successivo accompagnamento al lavoro».
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