Abstract
La Legge 07/08/1990, n. 241 recante “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi” ha definito una disciplina generale per la regolamentazione dell’attività amministrativa, in applicazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.).
Numerosi sono stati gli interventi di riforma della citata legge (tra i più significativi: L. 18/06/2009, n. 69 e L. 11/02/2005, n. 15) che hanno avuto il principale scopo di rafforzare l’efficienza della pubblica amministrazione, sul rilievo che un sistema pubblico performante costituisce condizione indispensabile per garantire il raggiungimento di un duplice risultato: il miglioramento in termini quantitativi e qualitativi dei servizi offerti ai privati e la creazione delle condizioni per agevolare l’attività delle imprese, implementare gli investimenti delle aziende, attrarre capitali esteri, in una sola parola: aumentare la produttività del sistema Paese.
In detto contesto normativo trova radice l’istituto del silenzio-assenso che, tra l’altro, persegue anche il diverso obiettivo della semplificazione amministrativa, nell’ottica dell’economicità degli atti, della velocità di risposta degli enti, della trasparenza dell’attività amministrativa[1].
Sommario
- Il principio del provvedimento espresso – 2. Il silenzio assenso: l’evoluzione storica del silenzio amministrativo – 3. La riforma del 1990 – 4. Le eccezioni al silenzio assenso e il silenzio tra pubbliche amministrazioni
- Il principio del provvedimento espresso
Una dissertazione in merito all’istituto del silenzio-assenso deve necessariamente avere il suo abbrivio nel richiamo ad un altro principio fondamentale espresso dalla L. 241/1990 e, precisamente, dall’art. 2, co. 1, che prevede l’obbligo di concludere il procedimento amministrativo mediante l’adozione di un provvedimento espresso, nei casi in cui il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza ovvero debba essere iniziato d’ufficio.
Il termine ordinario entro il quale i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi è (generalmente) di trenta giorni, salva l’applicazione dei diversi termini stabiliti dalla legge ovvero dai provvedimenti cui ai commi 3, 4 e 5 dell’art. 2 della citata L. 241/1990[2].
La mancata adozione di un provvedimento entro il termine di legge determina un’ipotesi di “silenzio rifiuto”[3], anche detto “silenzio inadempimento” che, pur non consumando il potere di provvedere da parte dell’amministrazione[4], autorizza il privato ad agire in giudizio attraverso il rimedio disciplinato dagli artt. 31 e 117 del D.Lgs. 02/07/2010, n. 104 (inde c.p.a.), al fine di ottenere l’adempimento del dovere di provvedere della pubblica amministrazione, ferma restando la responsabilità civile della stessa sotto il profilo del danno da ritardo[5].
Mentre l’art. 31 c.p.a. si occupa esclusivamente della dimensione “statica” dell’istituto, l’art. 117 c.p.a. si concentra sui profili “dinamici”, disciplinando il rito speciale attivabile per contrastare il silenzio dell’amministrazione. In particolare, l’art. 31 c.p.a. prevede che, trascorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo (e negli altri casi previsti dalla legge), chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere. L’azione può essere esercitata finché perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento. La norma in questione precisa in maniera perentoria i poteri esercitabili dal giudice amministrativo chiamato a pronunciarsi sull’istanza stabilendo che, nei casi di attività vincolata ovvero quando non residuano margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori da parte dell’amministrazione, il giudice non deve necessariamente limitarsi ad una pronuncia di accertamento dell’inadempimento della pubblica amministrazione e del relativo obbligo di provvedere[6], ma può conoscere della fondatezza dell’istanza[7].
Come anticipato, l’art. 117 c.p.a. regola, sotto il profilo rituale, il ricorso avverso il silenzio, quale strumento finalizzato ad accertare la legittimità o meno del silenzio dell’amministrazione in relazione all’obbligo di conclusione del procedimento amministrativo imposto dal citato art. 2 L. 241/1990.
Il rito riguarda solo il silenzio rifiuto, con esclusione, quindi, del silenzio significativo (nelle sue diverse forme)[8] e si svolge secondo le disposizioni dettate dall’art. 87, co. 3, c.p.a., quindi, tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario (tranne quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti). La camera di consiglio è fissata d’ufficio alla prima udienza utile successiva al trentesimo giorno decorrente dalla scadenza del termine di costituzione delle parti intimate, con la possibilità di sentire i difensori che ne fanno richiesta.
Il procedimento impegna il giudice, in primis, ad accertare l’esistenza dell’obbligo di provvedere e il suo effettivo inadempimento e, in secondo luogo, a valutare la fondatezza della pretesa (laddove tale sindacato sia consentito dalla legge) e culmina in una sentenza in forma semplificata che, in caso di condanna dell’amministrazione, apre una fase di esecuzione. Invero, il giudice ordina all’amministrazione di provvedere entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni; ove occorra, il giudice nomina un commissario ad acta per garantire l’ottemperanza del dovere di provvedere da parte dell’ente pubblico.
L’inerzia nella fase procedimentale amministrativa non consuma il potere dell’ente pubblico in ordine all’adozione di un provvedimento (che sarà, semmai, tardivo). Quindi, può accadere che nelle more del giudizio instaurato dal privato in virtù del silenzio inadempimento, la pubblica amministrazione decida di intervenire con un provvedimento espresso; in tal caso il ricorrente potrà impugnare nel merito il provvedimento tardivo, nell’ambito del medesimo giudizio, attraverso il deposito di motivi aggiunti.
2. Il silenzio assenso: l’evoluzione storica del silenzio amministrativo
Come anticipato, non sempre al mancato adempimento dell’obbligo di provvedere da parte della pubblica amministrazione è associato un silenzio inadempimento, potendo assumere, detto silenzio, un significato giuridicamente rilevante, in virtù di specifiche disposizioni di legge; a tal proposito fa d’uopo osservare che il legislatore ha generalizzato l’istituto del cd. silenzio assenso.
Prima di addentarsi nell’interpretazione della disciplina positiva da ultimo citata, vale la pena riprodurre, sia pur brevemente, un’esegesi delle fonti normative dell’istituto del silenzio amministrativo in generale.
È noto che, attraverso la risalente legge abolitrice del contenzioso amministrativo (R.D. 20/03/1865, n. 2248, all. E), il legislatore abbia in passato riconosciuto tutela giuridica ai soli diritti soggettivi (sia pubblici che privati). Pertanto, le diverse posizioni che non assurgevano a diritti soggettivi perfetti (oggi comunemente definite “interessi legittimi”) non acquisivano alcun rilievo giuridico; queste ultime, infatti, costituivano oggetto di tutela affidata all’amministrazione medesima (anziché al giudice ordinario, come invece previsto per i diritti soggettivi), attraverso un rimedio di natura giustiziale (nella forma del ricorso gerarchico ad un’autorità della pubblica amministrazione), che si concludeva con un provvedimento amministrativo, in luogo di una sentenza.
In detto contesto storico-giuridico assumeva un effetto dirompente la cd. sentenza “Longo”[9], attraverso la quale, ai primi del novecento, venivano poste le prime coordinate ermeneutiche in tema di silenzio della pubblica amministrazione.
Equiparando il silenzio ad un rifiuto espresso, la citata giurisprudenza amministrativa riconosceva al privato il diritto di presentare alla pubblica amministrazione – rimasta inerte in merito ad una precedente istanza del medesimo – una diffida ad adempiere; trascorso un ulteriore periodo, il perdurante silenzio acquisiva il significato di un rifiuto, impugnabile dinanzi al giudice amministrativo.
Tuttavia, la pronuncia in commento risolveva il problema del silenzio solo riguardo ai casi in cui la pubblica amministrazione era chiamata a pronunciarsi sul ricorso gerarchico del privato, non estendendosi ai casi in cui il silenzio si era formato in merito alla richiesta del privato diretta all’adozione di un provvedimento amministrativo; in dette ipotesi, dunque, davanti al silenzio amministrativo, il privato risultava sfornito di ogni strumento di tutela.
Il suesposto indirizzo giurisprudenziale veniva positivizzato con l’art. 5 del R.D. 03/03/1934, n. 383, recante “Testo unico della legge comunale e provinciale”, con il quale si disponeva che la proposizione del ricorso gerarchico da parte del privato, qualora non avesse dato luogo ad alcuna pronuncia della pubblica amministrazione, potesse essere seguita, nel termine non inferiore a centoventi giorni, da un formale atto di diffida, con il quale veniva messa in mora l’amministrazione; allo scadere dei successivi sessanta giorni dalla costituzione in mora, perdurando l’inerzia, il ricorso si intendeva rigettato.
Un ulteriore passo in avanti rispetto al delineato sistema normativo lo si deve ancora una volta alla giurisprudenza amministrativa; in effetti, con una storica pronuncia[10], il Consiglio di Stato sanciva la possibilità di estensione analogica del meccanismo di diffida e messa in mora, previsto per il silenzio sul ricorso gerarchico, anche alle ipotesi di silenzio avverso un’istanza privata rivolta all’amministrazione. Nel citato arresto i giudici sostenevano che il silenzio non era un atto, ma un comportamento, al quale la legge attribuiva certi effetti indipendentemente dal reale contenuto della volontà. Il silenzio veniva quindi considerato come elemento neutro, era compito del potere legislativo attribuire al silenzio un significato specifico.
Con l’entrata in vigore del d.P.R. 1199 del 24/11/1971 il legislatore introduceva una normativa generale in materia di ricorsi amministrativi, riscrivendo la disciplina del ricorso gerarchico. In effetti, veniva abolito il meccanismo della diffida e si stabiliva che il ricorso gerarchico proposto dal privato si doveva intendere respinto a tutti gli effetti, qualora fosse decorso il termine di novanta giorni senza che l’autorità amministrativa investita della decisione avesse comunicato al ricorrente alcunché.
Nel contempo, la legge istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali[11] stabiliva un importante principio di tutela del soggetto privato: il ricorso giurisdizionale dinanzi il giudice amministrativo di primo grado diventava esperibile anche avverso gli atti non definitivi della pubblica amministrazione. Da questo momento il privato leso da un provvedimento amministrativo non aveva più l’obbligo del previo esperimento di tutti i gradi di giustizia interni all’amministrazione prima di ricorrere in sede giurisdizionale, ma era libero di scegliere la sede ritenuta più opportuna per essere tutelato.
Il silenzio della pubblica amministrazione, unito al decorso di un preciso lasso temporale, integrava gli estremi per la costituzione di un provvedimento amministrativo di rigetto, avente, quindi, contenuto negativo (di conseguenza, il silenzio non poteva più essere considerato come un fatto neutro)[12].
Tutto ciò riguardava, però, la sola disciplina del ricorso gerarchico.
3. La riforma del 1990
La giurisprudenza ante 1990 ha, pertanto, poste le basi per una distinzione categoriale: quella tra silenzio non significativo, da un lato, e silenzio produttivo di effetti giuridici secondo le determinazioni del legislatore, dall’altro lato.
Nel momento in cui il privato si trova al cospetto di un’inerzia dell’amministrazione, cui la legge non abbia attribuito valore legale significativo, la generale previsione dell’obbligo di provvedere di cui all’art. 2 L. 241/1990 impone che esso sia qualificato come “silenzio inadempimento”; viceversa, nel momento in cui il legislatore, in ossequio ai principi di legalità e tipicità che connotano l’azione amministrativa, attribuisce al silenzio dell’amministrazione determinati effetti giuridici (di rigetto o di accoglimento), ci si trova di fronte ad un “silenzio significativo”.
L’art. 20 della L. 241/1990 prevede che (salva l’applicazione dell’art. 19), nei procedimenti ad istanza di parte per l’emissione di provvedimenti amministrativi, il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, se la medesima amministrazione non comunica all’interessato, nel termine di cui all’art. 2, co. 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi del co. 2 dello stesso art. 20 (che prevede la possibilità della pubblica amministrazione di indire, entro trenta giorni dalla presentazione dell’istanza, una conferenza di servizi, anche tenendo conto delle situazioni giuridiche soggettive dei controinteressati)[13].
Con l’istituto del silenzio assenso il legislatore non ha inteso derogare al principio della conclusione obbligatoria del procedimento con un provvedimento espresso, ma ha agevolato lo svolgimento di attività private soggette ad autorizzazione, in caso di inerzia dell’amministrazione deputata a provvedere, attraverso la predisposizione di un apposito strumento surrogatorio.
La disciplina concernente la procedura di formazione del silenzio assenso è stata stabilita dal d.P.R. 26/04/1992, n. 300, recante “Regolamento concernente le attività private sottoposte alla disciplina degli articoli 19 e 20 della legge 7 agosto 1990, n. 24”.
Gli artt. 3 e 4, co. 1, del riferito regolamento di attuazione della L. 241/1990, prevedono che l’atto di assenso si considera formato quando la domanda del privato indichi le generalità del richiedente, l’oggetto e le caratteristiche dell’attività da svolgere, con allegata una dichiarazione relativa alla sussistenza dei presupposti e dei requisiti previsti dalla legge per svolgere tale attività, ivi compresa la presenza dei requisiti soggettivi richiesti.
La dichiarazione circa il possesso di tutti i requisiti per il rilascio delle autorizzazioni è rivolta ad evitare che l’inerzia della pubblica amministrazione legittimi l’esercizio dell’attività in contrasto con la normativa di settore.
In caso di incompletezza o irregolarità della domanda, l’amministrazione, entro dieci giorni, ne dà comunicazione al richiedente, indicando, ovviamente, le cause di incompletezza o di irregolarità; quindi, il termine per la formazione del silenzio decorre dal ricevimento della domanda regolarizzata.
Se l’amministrazione non provvede alla comunicazione, il termine del procedimento decorre comunque dal ricevimento della domanda.
All’interessato viene rilasciata una ricevuta all’atto di presentazione della domanda recante le indicazioni cui all’art. 8, co. 2, della L. 241/1990[14].
In caso di istanza inoltrata a mezzo raccomandata, la ricevuta è costituita dall’avviso stesso debitamente firmato, ed entro tre giorni dal ricevimento della domanda l’amministrazione comunica all’interessato le riferite indicazioni di cui all’art. 8, co. 2, della L. 241/1990.
Siffatto sistema normativo è stato innovato dalla Legge n. 108 del 2021 che ha introdotto il comma 2-bis all’art. 20 L. 241/1990, con il quale è stato previsto che l’amministrazione, su richiesta dell’interessato, è tenuta a rilasciare, in via telematica, un’attestazione circa il decorso dei termini e, pertanto, l’intervenuto accoglimento della domanda. Anche in tal caso è previsto che detta attestazione possa essere sostituita, in caso di inadempimento della pubblica amministrazione protrattosi oltre dieci giorni dalla richiesta, da una dichiarazione del privato ai sensi dell’art. 47 del d.P.R. 28/12/2000, n. 445.
Come anticipato, i termini per la formazione del silenzio assenso possono essere interrotti una sola volta dall’amministrazione esclusivamente per la tempestiva richiesta, all’interessato, di elementi integrativi o di giudizio che non siano già in possesso della pubblica amministrazione. Nel caso di richiesta di elementi integrativi, i termini iniziano a decorrere di nuovo dalla data di ricevimento, da parte della pubblica amministrazione, degli elementi richiesti.
In sostanza, per invocare la formazione del silenzio assenso ai sensi dell’art. 20 L. 241/1990 va dimostrato, oltre al decorso del tempo, il possesso di tutte le condizioni di carattere oggettivo e dei requisiti soggettivi necessari per lo svolgimento dell’attività per la quale vi è richiesta di autorizzazione amministrativa[15].
L’obiettivo del legislatore attraverso l’istituto del silenzio assenso è stato sicuramente quello di semplificare e rendere più spediti i rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini, superando gli effetti negativi derivanti dall’inerzia della pubblica amministrazione.
Sulla natura giuridica del silenzio assenso occorre, invece, osservare come in dottrina si siano avvicendati due orientamenti: il primo, diretto a valorizzare la valenza “attizia” del silenzio, il secondo finalizzato a sottolineare la sua idoneità a produrre determinati effetti giuridici, pur configurando un mero comportamento[16].
In particolare, il primo e più risalente indirizzo interpretativo assumeva che il silenzio assenso fosse da equiparare ad un provvedimento autorizzativo tacito, attraverso una fictio iuris in virtù della quale il privato veniva messo in condizione di tutelare il proprio interesse innanzi al giudice amministrativo con l’ordinario ricorso di tipo impugnatorio[17]. Tale orientamento si è successivamente rivelato minoritario di fronte al diverso indirizzo interpretativo volto a valorizzare la natura di mero comportamento del silenzio, tale da non consentirne l’equiparazione al formale provvedimento amministrativo: il silenzio è un fatto, al quale la legge riconosce la capacità di produrre i medesimi effetti di una fattispecie diversa ovvero dell’atto di assenso[18].
Decorso il termine previsto per la maturazione del silenzio assenso, la pubblica amministrazione consuma il potere di decidere sull’istanza del privato; quindi, una volta che è maturato il silenzio assenso, essa potrà provvedere solamente in autotutela, con atto di annullamento del silenzio formatosi illegittimamente o con provvedimento di revoca, come previsto dall’art. 20, co. 3, L. 241/1990.
- Le eccezioni al silenzio assenso e il silenzio tra pubbliche amministrazioni
Il comma 4 del citato art. 20 L. 241/1990 stabilisce che le norme sul silenzio assenso non si applicano in quattro categorie di casi:
- atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la tutela del rischio idrogeologico, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità;
- quando la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali;
- quando la legge qualifica il silenzio dell’amministrazione come rigetto dell’istanza;
- atti e procedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti.
Con specifico riferimento al silenzio diniego, giova osservare come esso viene generalmente identificato nelle ipotesi in cui la legge intende eccezionalmente attribuire al silenzio rifiuto gli effetti che sarebbero stati propri del provvedimento negativo, dando così vita ad un’ipotesi di silenzio significativo, conferendo al silenzio un (in)espresso significato.
Altre volte l’ordinamento conferisce al silenzio della pubblica amministrazione il significato di diniego di accoglimento (e perciò di rigetto) di un’istanza.
Nell’evoluzione normativa dell’istituto assume rilevanza pratica significativa la riforma della disciplina del silenzio assenso voluta con la Legge 07/08/2015, n. 124 (cd. riforma Madia).
Con l’art. 3 di detta legge il Parlamento ha voluto dettare la disciplina per una nuova forma di silenzio, introducendo al capo VI della L. 241/1990, l’art. 17-bis titolato: “Silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di pubblici servizi”[19].
La norma in commento ha generalizzato l’istituto del silenzio-assenso anche nei rapporti tra le pubbliche amministrazioni[20] stabilendo che nei casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni statali e di gestori di beni o servizi pubblici, per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di altre amministrazioni pubbliche, le amministrazioni o i gestori competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta entro trenta giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, corredato della relativa documentazione, da parte dell’amministrazione procedente.
Questo tipo di silenzio assenso corrisponde ad un atto interno ad un procedimento, rappresentando un silenzio procedimentale, diverso dal silenzio significativo dell’art. 20 L. 241/1990 che, invece, ha valore provvedimentale.
Il termine è interrotto qualora l’amministrazione o il gestore che deve rendere il proprio assenso, concerto o nulla osta rappresenti esigenze istruttorie o richieste di modifica, motivate e formulate in modo puntuale nel termine stesso. In tal caso l’assenso, il concerto o nulla osta è reso nei successivi trenta giorni dalla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento. Allo scopo di evitare inutili allungamenti dei tempi che aggravano il procedimento il legislatore ha prescritto che non sono ammessi ulteriori interruzioni di termini.
Il silenzio viene a formarsi decorsi i termini innanzi indicati senza che sia stato comunicato l’assenso, il concerto o nulla osta.
La riferita disciplina normativa si applica anche ai casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche, mentre l’applicazione della stessa rimane esclusa nei casi in cui disposizioni del diritto dell’Unione Europea richiedano l’adozione di provvedimenti espressi, coerentemente con quanto previsto dall’art. 20 della legge stessa.
NOTE:
[1] Ex amplius: Cons. Stato, 22/05/2023, n. 5072; Cons. Stato, 09/06/2022, n. 4690.
[2] In pratica, con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, adottati ai sensi dell’art. 17, co. 3, della L. 23/08/1988, n. 400, su proposta dei Ministri competenti e di concerto con i Ministri per la Pubblica amministrazione e per l’innovazione e per la semplificazione normativa, sono individuati termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di competenza delle amministrazioni statali. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri ordinamenti, i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza. Nei casi in cui, tenendo conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento, sono indispensabili termini superiori a novanta giorni per la conclusione dei procedimenti di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i termini non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione dei procedimenti di acquisizione della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l’immigrazione. Anche le authority di garanzia, fatto salvo quanto previsto da specifiche disposizioni, disciplinano, in conformità ai propri ordinamenti, i termini di conclusione dei procedimenti di rispettiva competenza.
[3] “Nei casi in cui l’inerzia dell’Amministrazione non è diversamente disciplinata da una norma positiva viene in considerazione l’istituto del silenzio-rifiuto: si tratta di un rimedio di origine giurisprudenziale che presuppone l’interesse qualificato di un soggetto all’emanazione di un atto e consiste nella possibilità di ricorrere al giudice amministrativo per ottenere l’attuazione coattiva del dovere di provvedere inadempiuto dalla P.A.” (F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2018, p. 1163).
[4] Il decorso del termine non fa venire meno il potere di provvedere (in tal senso: MORBIDELLI, Il silenzio-assenso, in V. CERULLI IRELLI (a cura di), La disciplina generale dell’azione amministrativa, Napoli, 2006, p. 261). In giurisprudenza: Cons. Stato, 19/08/2022, n. 7305.
[5] Ex amplius: Cons. Stato, 09/10/2013, n. 4968.
[6] Sull’accertamento dell’obbligo di provvedere la giurisprudenza amministrativa ha stabilito: “L’omissione dell’adozione del provvedimento finale assume il valore di silenzio-inadempimento (o rifiuto) solo nel caso in cui sussisteva un obbligo giuridico di provvedere, cioè di esercitare una pubblica funzione attribuita normativamente alla competenza dell’organo amministrativo destinatario della richiesta, attivando un procedimento amministrativo in funzione dell’adozione di un atto tipizzato nella sfera autoritativa del diritto pubblico; presupposto per l’azione avverso il silenzio è, dunque, l’esistenza di uno specifico obbligo (e non di una generica facoltà o di una mera potestà) in capo all’amministrazione di adottare un provvedimento amministrativo esplicito, volto ad incidere, positivamente o negativamente, sulla posizione giuridica e differenziata del ricorrente; i presupposti per l’attivazione del rito sono dunque sia l’esistenza di uno specifico obbligo di provvedere in capo all’amministrazione, sia la natura provvedimentale dell’attività oggetto della sollecitazione” (Cons. Stato, 22/08/2023, n. 7912).
[7] Sul tema: “In caso di ricorso avverso il silenzio-inadempimento della p.a., il giudice, ai sensi dell’art. 31, comma 3, c.p.a., può pronunciare sulla fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio solo quando si tratti di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’Amministrazione” (T.A.R. Roma, 04/02/2020, n. 1492).
[8] In effetti, già nella vigenza dell’art. 2 della L. 21/07/2000, n. 205 (che aveva introdotto il rito in commento), nonostante la norma non individuasse testualmente avverso quale tipo di silenzio il ricorso fosse proponibile, insigne dottrina aveva sostenuto che: “il nuovo rimedio processuale, funzionale ad una condanna dell’Amministrazione a provvedere, non si attaglia all’ipotesi del silenzio significativo, in cui il problema dell’inerzia è risolto a monte dal legislatore con l’attribuzione di una valenza attizia, favorevole o contraria agli interessi del privato, ed avverso cui sono comunque proponibili gli ordinari strumenti di impugnazione, oltre che i poteri di ritiro in autotutela comuni a tutti gli atti amministrativi”: C. CRISCENTI, Il rito del silenzio nel nuovo processo amministrativo, in Urb. e app., 2001, 652. Il principio può dirsi condiviso anche dalla giurisprudenza, da ultimo: T.A.R. Ancona, 23/06/2022, n. 200.
[9] Cons. Stato, 22/08/1902, n. 429.
[10] Cons. Stato, ad. plen., 03/05/1960, n. 8.
[11] L’abolizione delle Giunte Provinciali Amministrative (avvenuta con sentenza della Corte Costituzionale n. 33 del 20/04/1968) aveva indotto il legislatore alla costituzione, con L. 06/12/1971, n. 1034, di un nuovo organismo giudiziario di primo grado in materia amministrativa.
[12] M.S. GIANNINI, Il diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 1988, pag. 206.
[13] Fatta salva l’applicazione dell’articolo 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all’interessato nel termine di cui all’articolo 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi del comma 2 (art. 20, co. 1, L. 241/1990).
[14] Nel dettaglio il comma in questione prevede che debbano essere indicate: a) l’amministrazione competente; b) l’oggetto del procedimento promosso; c) l’ufficio, il domicilio digitale dell’amministrazione e la persona responsabile del procedimento; c-bis) la data entro la quale deve concludersi il procedimento e i rimedi esperibili in caso di inerzia dell’amministrazione; c-ter) nei procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione della relativa istanza; d) le modalità con le quali è possibile prendere visione degli atti, accedere al fascicolo informatico ed esercitare in via telematica i diritti previsti dalla presente legge; d-bis) l’ufficio dove è possibile prendere visione degli atti che non sono disponibili o accessibili con le modalità di cui alla lettera d).
[15] In tal senso si è espressa la giurisprudenza amministrativa: “La formazione tacita dei provvedimenti amministrativi per silenzio assenso presuppone, quale sua condizione imprescindibile, non solo il decorso del tempo dalla presentazione della domanda senza che sia presa in esame e sia intervenuta risposta dall’Amministrazione, ma la contestuale presenza di tutte le condizioni, i requisiti e i presupposti richiesti dalla legge, ossia degli elementi costitutivi della fattispecie di cui si deduce l’avvenuto perfezionamento, con la conseguenza che il silenzio assenso non si forma nel caso in cui la fattispecie rappresentata non sia conforme a quella normativamente prevista” (Cons. Stato, 20/10/2022, n. 8943. In senso conforme: Cons. Stato, 08/07/2022, n. 5746; Cons. Stato, 22/06/2022, n. 5146; T.A.R. Roma, 29/07/2022, n. 10778).
[16] E. ZAMPETTI, Contributo allo studio del comportamento amministrativo, Torino, 2012, p. 139 ss.
[17] G. GRECO, Argomenti di diritto amministrativo. Parte generale, Milano, 2010, p. 84; M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2019, p. 254. In giurisprudenza, definisce espressamente il silenzio assenso “atto giuridico tacito, avente natura provvedimentale ed autorizzatoria” T.A.R. Firenze, 13/07/2005, n. 3272.
[18] Cons. Stato, 08/02/2022, n. 6979.
[19] In origine, la norma era titolata “Silenzio assenso tra amministrazioni statali”, ma, successivamente, le “amministrazioni statali” sono diventate “amministrazioni pubbliche”, nel chiaro intento di comprendere generalmente tutte le amministrazioni.
[20] “Con l’introduzione dell’art. 17-bis nella l. n. 241 del 1990, in tutte le ipotesi di decisione pluristrutturata il silenzio assenso dell’amministrazione interpellata non sortisce più l’effetto di precludere l’adozione del provvedimento finale ma, essendo equiparato ope legis ad un atto di assenso, consente all’amministrazione procedente di adottare comunque il procedimento conclusivo; la portata generale del nuovo paradigma consente un’interpretazione estensiva dell’istituto, quale che sia l’amministrazione coinvolta e quale che sia la natura del procedimento pluristrutturato; il meccanismo del silenzio assenso è, infatti, ormai divenuto regola generale anche nei rapporti tra pubbliche amministrazioni per cui comportamenti inerti o dilatori, ad opera di soggetti pubblici che partecipano ma che non sono titolari del procedimento e dunque della emanazione del provvedimento finale, non possono più irrazionalmente e ingiustificatamente impedire il raggiungimento di simili decisioni” (Cons. Stato, 19/05/2022, n. 3972).
Nessun tag inserito.