29/09/2015 – Oliveri ed il principio di separazione

Oliveri ed il principio di separazione

Oliveri è un osservatore acutissimo; negli ultimi anni sempre più critico della deriva che ha preso la “questione amministrativa”.

Alle volte sembra un “eversore”. A tratti lo è. In quest’ultimo caso, in cui affronta una questione cruciale, mi pare invece vittima della sua sostanziale adesione alle idee portanti del mainstream imperante.

Invito tutti a leggere uno dei suoi ultimi interventi, dal titolo: Tutti gli ex presidenti di provincia sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.

 https://rilievoaiaceblogliveri.wordpress.com/2015/09/27/tutti-gli-ex-presidenti-di-provincia-sono-uguali-ma-alcuni-sono-piu-uguali-degli-altri/

Lo hanno qui già segnalato, non senza una nota di entusiastica adesione.

Sì! Sostiene cose condivisibili Oliveri eppure questa volta non mi convince fino in fondo.

Mi pare che resti alla superficie del fenomeno e che non riesca a cogliere invece i tratti profondi della questione.

Gli fa velo la sua adesione al dogma imperante: il principio di separazione.

Tutto o molto di quanto accaduto in questi anni è ruotato intorno a tale (presunto) principio, elevato a chiave di volta del sistema.

L’assunto è noto: tutta la gestione deve essere devoluta agli organi burocratici; la funzione di indirizzo e controllo agli organi politici.

Sembrerebbe, a tutta prima, il classico uovo di Colombo. La PA spaccata in due come una mela; di là i “politici” (brutti, sporchi e cattivi); di qua i burocrati, vessati dalla politica. Senza alcuna possibile interferenza, al punto che la giurisprudenza ha negato poteri di “avocazione” da parte degli organi politici, anche nei casi di inerzia o grave illegittimità, e finanche la c.d. “firma congiunta” ossia i provvedimenti a paternità congiunta (sottoscritti cioè sia dall’organo politico che da quello burocratico). Un estremismo velleitario e tutto sommato sterile che ha finito per produrre controreazioni che ora stanno squassando seriamente il sistema.

La PA è un organismo complicato che non si può spaccare geometricamente a metà come illusoriamente postula un principio che dovrebbe essere usato cum grano salis e non come un corpo contundente.

Quella clava (il principio di separazione) ha finito per ritorcersi contro chi lo invocava e la classe dirigente – specie quella locale – rischia di finire come il famoso apprendista stregone.

Quel principio, soprattutto se assunto in maniera dogmatica, finisce per fare a cazzotti con la realtà.

Il principio di separazione è stata l’origine di tante sciagure…. Un po’ come la prima pietra che smotta e che dà origine alla frana….

E’ stato incauto fondare pressoché integralmente su di esso l’edificio della PA (in specie di quella locale).

Si tratta di un principio dal fondamento sociologico e democratico alquanto dubbio.

In effetti, nel sentire diffuso tra la gente il Comune è il Sindaco e non il dirigente, apicale o meno che sia. Altrimenti non si “scannerebbero” ogni 5 anni per sedersi sull’alto scranno…

E poi la volontà popolare dovrebbe essere l’istanza prima ed ultima di ogni apparato democratico e le tecnocrazie, più o meno preparate che siano, non sono legittimate dal mandato popolare.

Per questo, se a Roma scoppia lo scandalo “mafia capitale” l’opinione pubblica se la prende giustamente con Marino (così come prima, sul piano neve o sulle assunzioni nelle partecipate, ad esempio, ne chideva conto ad Alemanno), anche se Marino – se sono attendibili le intercettazioni – poco o nulla c’entra con lo scandalo. E, se ci tirano dentro Iudicello è perché, in un sistema contorto ed irrazionale, è anche più facile cercare e trovare un capro espiatorio.

Il principio di separazione non è servito a migliorare la qualità della nostra amministrazione. In compenso esso ha dapprima innescato e poi permesso di coltivare una serie di pulsioni e di istanze revanchistiche da parte della classe politica che ancora non trovano pacifica soluzione, come dimostra l’ennesima riforma impostasi in questi ultimissimi mesi ed ancora in fieri.

Per  ricomporre la divaricazione che impone tale principio alla conduzione delle macchine pubbliche, è insorta la tentazione di percorrere la scorciatoia dello spoil system, istituto – non a caso – trattato a lungo come una vera singolarità, e pacificamente ritenuto di pertinenza esclusiva di ordinamenti fondati su valori e pratiche totalmente alieni rispetto a quelle del diritto pubblico italiano. Per tutti basti leggere le lapidarie considerazioni che Mortati ha consegnato alla Storia, inserendo poche righe in nota a pag. 400 del tomo I delle sue Istituzioni di diritto pubblico. La considerazione che lo spoil system è un fattore che concorre in maniera determinante al “regime di corruzione largamente diffuso nella vita politica nord-americana”, costituisce più di una condanna senza appello dell’istituto.  

Il rapporto vertice politico/dirigenza resta un questione drammaticamente aperta che neppure la L. 124/15 ha saputo comporre, se non accentuando la pretesa della classe politica da un canto di “gestire per interposta persona”, al riparo dello scudo della irresponsabilità erariale, rilanciata ora proprio dalla L. 124, e dall’altro di precarizzare il rapporto di lavoro della dirigenza.

Si tratta di due risposte sbagliate ad un problema mal posto.

Ma se sociologicamente e politicamente il principio di separazione non ha un gran fondamento (se le cose non funzionano in Comune la gente chiede la testa del Sindaco e non quella dei dirigenti), è dal punto di vista giuridico che quel principio rivela tutta la sua inconsistenza.

Scrive Oliveri, riprendendo un insegnamento pigramente tralatizio, che il principio di separazione “delle funzioni di indirizzo politico, rispetto a quelle gestionali, posto dal d.lgs 267/2000 e dal d.lgs 165/2001,” non sarebbe altro che l’applicazione “di un principio desunto dagli articoli 97 e 98 della Costituzione”.

Si tratta di una affermazione non nuova, anzi diffusamente ripetuta e come tale ritenuta per vera (siamo difronte della famosa badwagon fallacy o argumentum ad populum o argomento quia omnes dicunt).

Testualmente non si comprende dove mai dagli artt. 97 e 98 si possa enucleare tale principio. Almeno all’analisi testuale, condotta secondo i criteri esegetici previsti dall’art. 12 delle preleggi, non sembra facilissimo distillarlo. Del resto, l’esegesi testuale è suffragata dalla prova storica, atteso che per oltre 40 anni, ossia dal varo della Costituzione ed almeno sino al marzo del 1993 (quando viene varato il D.lgs. 29) quel principio è ignoto (lo è sicuramente ai redattori di quel DPR n. 3/1957 che costituirà l’architrave normativo dell’amministrazione pubblica italiana per  oltre un trentennio). Ed anche nell’originaria versione del D.lgs. 29 residuavano ancora spazi significativi per interventi del Ministro sugli atti dei dirigenti (come ben spiega Caringella in Corso di Diritto Amministrativo pp. 1286 e ss.). Dopo il varo del D.lgs. 29/1993 è però stata una battaglia congiunta di dottrina e giurisprudenza per l’applicazione spinta del principio cosicché nelle successive revisioni del D.lgs. 29 e sino alla sua definitiva trasfusione del D.lgs. 165/01, il potere ministeriale è stato progressivamente nullificato.

Una battaglia totalmente insensata che, non risolvendo alcuna delle criticità della PA, ha finito per alimentare un sentimento di latente revanchismo della classe politica, la quale dapprima si è impegnata in una campagna di feroce delegittimazione della classe burocratica (le battaglie contro i fannulloni e poi direttamente contro la burocrazia), per poi cercare di prendersi rivincite per altre vie (spesso tortuose e poco virtuose) come lo spoil system, la precarizzazione della dirigenza e da ultimo tentando di rovesciare tutta la responsabilità da mala gestio sulla classe burocratica.

Verrebbe da dire che chi di principio di separazione ferisce dello stesso principio perisce. E non sono tanto le strampalate difese della ex presidente della provincia di Venezia (contro cui leva principalmente la sua voce Oliveri)  a preoccupare quanto quella lettera m), inserita nel corpus dell’art. 11 della L. 124/2015.

Ma, alla fine, si tratta solo di opinioni in libertà o c’è, in termini giuridici, qualcos’altro? C’è qualche dato giuridico che fa luce sulla rilevanza e sulla stessa sussistenza del principio di separazione che tutti danno per presupposto ma cui nessuno si preoccupa di fornire adeguato fondamento giuridico?

Io insisto. Negli artt. 97 e 98 Cost. non vi alcuna traccia testuale né alcun rimando che sia utile a dare sostanza a quel principio.

Vi è invece nell’art. 95 della stessa Costituzione una previsione che sembra andare in direzione esattamente contraria a quella che indicano i sostenitori di quel principio.

E’ scritto, infatti, nel comma 2: “I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri”.

Il ministro, in quanto vertice politico del proprio dicastero, risponde dunque direttamente degli atti (in principio, di tutti gli atti) del dicastero stesso. E’ una previsione che si pone in aperto ed insanabile conflitto con il dogma del principio di separazione. Come si fa ad essere responsabile degli atti di un apparato se una parte consistente dell’attività di quell’apparato sarebbe sottratta al responsabile stesso?

Ma il principio costituzionale richiamato, in quanto rispondente a dinamiche profonde dell’ordinamento, trova corrispondenza – fors’anche con maggior dettaglio  -anche nell’ordinamento locale.

L’art. 50, commi 1 e 2, prevede, infatti: “1.  Il sindaco e il presidente della provincia sono gli organi responsabili dell’amministrazione del comune e della provincia. 

2.  …..  sovrintendono al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti. ”. Verrebbe da aggiungere, anche qui: di tutti gli atti.

Come fa, dunque, in presenza di tali precise disposizioni, a reggere un rigoroso principio di separazione?

Non bisognerebbe, invece, prendere atto che la PA è una sorta di complesso filamento, piuttosto contorto, in cui le competenze dovrebbero intersecarsi e non giustapporsi?

Il principio di separazione, specie se interpretato in maniera oltranzistica (come spesso è avvenuto), ha finito per mettere in sempre più frontale contrapposizione vertice politico e classe burocratica.

In apicibus, poi, il sistema esige l’obiettiva esistenza di una reductio ad unum (come dimostrano sul piano giuridico il comma 2 dell’art. 95 cost., ed i commi 1 e 2 dell’art. 50 TUEL). Reductio ad unum che impone il superamento proprio del principio di separazione, che non è certamente principio di “chiusura” del sistema quanto invece un mero canone operativo di rilevanza empirica e per lo più meramente tendenziale.

I rapporti tra politica e dirigenza sono stati adulterati dall’erronea posizione, interpretazione ed applicazione del principio di separazione.

Un principio che, a rigore, non discende direttamente dalla Costituzione e che invece si è interposto come spurio elemento fondante del sistema. Una enfasi sicuramente eccessiva ne ha poi caratterizzato l’applicazione.

La risposta della classe politica non si è fatta attendere e, a principio spurio ha fatto seguito principio spurio. Così la classe politica ha lentamente elaborato due strumenti per rivendicare quella “primazia” che naturalmente le spetta in quanto interprete e rappresentante della “volontà popolare”, unica titolare del potere sovrano (art. 1 cost.).

I due strumenti sono noti: lo spoil system ed il progressivo rovesciamento del carico delle responsabilità in capo alla classe burocratica.

Attraverso il primo strumento (estraneo alla tradizione pubblicistica italiana) la classe politica intende recuperare, per altra via, il controllo sulla macchina amministrativa. Se l’art. 95 cost. (e poi l’art. 50 TUEL) assicurava questo “controllo” attraverso una diretta ingerenza nell’attività gestionale; negata questa – attraverso la surrettizia posizione di un principio privo di reale fondamento giuridico – ora il controllo tende a passare attraverso il “controllo sulle persone”. In questo senso allo spoil system, rivolto verso i dirigenti “di ruolo”, si affianca anche la rivendicazione del potere di nomina di dirigenti “fiduciari” ossia ancora più direttamente legati al vertice politico.

Lo scarico della responsabilità (erariale) pressoché integralmente sulla classe dirigente è il secondo pilastro su cui pare reggersi ormai questo sistema sempre più irrazionale e sempre meno collegato al modello che emergeva dal testo costituzionale. In questo caso, oltre che l’esigenza di recuperare “potere”, la pulsione della classe politica è quella di sottrarsi ai rigori di una incipiente e sempre più debordante juristocracy.

Sono tutti fenomeni certamente deprecabilissimi e bene fa Oliveri a scriverne tutto il male possibile. Il problema però è che non basta inveire e non basta indicare il male come tale. Occorre una seria ed attendibile eziopatogenesi, che consenta di individuare il germe che ha adulterato il sistema e che ora produce i disastri che tutti detestiamo.

Se non individuiamo correttamente la causa della malattia sarà fatale sbagliare anche la cura. E’ quanto sta accadendo da molti anni. Si racconta che troppe cure uccisero il cavallo. E’ proprio quello che sta accadendo con la nostra PA.

 

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