tratto da luigioliveri.blogspot.it

Riforma della dirigenza pubblica. I dirigenti “squillo”, al servizio della politica

 
Dirigenti pubblici a chiamata
Lo schema di riforma prevede il licenziamento senza giusta causa.
Una precarizzazione che col “merito” ha pochissimo a che vedere
 
Luigi Oliveri
 
Il decreto legislativo di riforma della dirigenza pubblica sortisce un evidentissimo risultato: la precarizzazione totale dei dirigenti pubblici, assoggettati completamente all’arbitrio della politica.
La riforma, così come impostata, presenta un passo verso la precarizzazione del lavoro ancora più forte e deciso di quanto non si sia verificato col Job’s Act.

Vengono, infatti, sovvertiti tutti gli ordinari schemi contrattuali e normativi. Il rapporto di lavoro dei dirigenti viene qualificato a tempo indeterminato, ma, in realtà, i dirigenti non avranno un unico datore. La riforma, infatti, prevede che l’attività lavorativa sia regolata dall’iscrizione e permanenza in un albo, nel quale giacere con lo stipendio base, per un limitato periodo di tempo, senza, tuttavia, prestare attività lavorativa alle dipendenze di nessuno. Solo se e quando un’amministrazione pubblica, a seguito di complesse e barocche procedure utili solo per travestire di selettività una scelta completamente arbitraria della politica, incaricherà un dirigente, emergerà un contratto di lavoro, che però potrà avere ordinariamente una durata, un segmento di 4 anni. Al decorso di questi, il contratto di lavoro, pur “indeterminato” in realtà perde i suoi effetti: l’amministrazione, infatti, deve risolvere il rapporto di servizio oltre che quello organico, dovendo necessariamente riattivare il sistema barocco della procedura “comparativa”, per assegnare l’incarico. Il dirigente precedentemente incaricato, quindi, si ritrova nuovamente a languire nell’albo, in attesa di un nuovo incarico. Se questo avverrà nel precedente ente, riprenderà efficacia il contratto di lavoro; se, invece, l’incarico gli sarà conferito da un altro ente, il contratto di lavoro quiescente contratto col precedente datore, sarà ceduto al nuovo datore.
Un sistema, come si nota, complicato e bizantino, che nella sostanza trasforma dipendenti che si vorrebbero “della Repubblica”, come molte volte propagandato dal Governo, in free lancer.
L’effetto della riforma è, dunque, sostanzialmente creare un bacino di personale con qualifica dirigenziale, lasciando alla politica la possibilità di scegliere se, come, quando e chi incaricare, senza nemmeno l’obbligo di attingere necessariamente a quel bacino, in quanto resteranno ampi margini di possibilità di rivolgersi ai “dirigenti a contratto”.
Il contratto, anche se qualificato a tempo indeterminato, è sostanzialmente un contratto intermittente, meglio noto come contratto “a chiamata”. Si tratta del contratto oggi disciplinato dall’articolo 13, comma 1, del d.lgs 81/2015, ai sensi del quale “il contratto di lavoro intermittente è il contratto, anche a tempo determinato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi […]”. Come si nota, le assonanze vi sono tutte. Poiché, però, questo tipo di contratto era stato considerato una tra le forme più evidenti di precariato, il d.lgs 81/2015 ne ha limitato l’impiego (articolo 13, comma 2), ai soli “soggetti con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni”.
La riforma della dirigenza, nella sostanza, estende questo meccanismo a tutti i dirigenti pubblici, che, appunto, nell’ambito dei ruoli unici restano “a disposizione” dei datori di lavoro pubblici. Il trattamento economico fondamentale, privo quindi di retribuzione di posizione e risultato (a seconda dei comparti, dunque, inferiore tra il 40% e il 70% alla retribuzione del dirigente con incarico), finisce per essere assimilato all’indennità di disponibilità, regolata dall’articolo 16 del d.lgs 81/2015 per il contratto intermittente.
Insomma, la riforma crea, quindi, la categoria dei dirigenti squillo a chiamata. Pronti, dunque, a rispondere alla chiamata in particolare del politico di turno al quale vincolarsi, per avere l’incarico che consentirà loro di proseguire l’attività lavorativa, evitare il licenziamento ed avere anche un trattamento economico non falcidiato.
Un sistema raffinato, ma scoperto, di precarizzazione assoluta della dirigenza, che si vuol soggiogare completamente alla politica, spingendola necessariamente ad abbracciare in modo esplicito idee, acquisendo tessere ma, soprattutto, benemerenze. Come? Ma è chiaro: non interferendo, coprendo le responsabilità, interpretando le norme per gli amici ed applicandole ai nemici, svolgendo funzioni attiviste.
Il tutto, ovviamente, in contrasto assoluto e totale con l’articolo 98, comma 1, della Costituzione, ai sensi del quale i dipendenti pubblici dovrebbero essere a servizio esclusivo della Nazione e non della forza o dell’esponente politico di volta in volta in sella.
L’ingegnosa opera di asservimento della dirigenza alla politica viene completata da un altro puntello: l’assoluta inutilità della valutazione ai fini della riconferma degli incarichi.
Da che mondo e mondo, il primo incentivo del lavoratore consiste nel far bene agli occhi del datore, in modo, così, da ottenere non solo gli eventuali premi connessi, ma soprattutto la riconferma nella fiducia tecnica al lavoro prestato, necessaria ai fini della prosecuzione dell’attività lavorativa.
Invece, la riforma introduce il licenziamento senza causa; all’opposto del licenziamento per scarso rendimento, si disciplina come fosse una cosa del tutto normale e razionale il licenziamento (o, comunque, la scadenza dell’incarico, che comunque spinge nel limbo della messa “a disposizione” dei ruoli a stipendio falcidiato) per “ottimo rendimento”. Infatti, anche laddove il dirigente nel corso del quadriennio ordinario del suo incarico abbia ottenuto valutazioni positive, in ogni caso il suo incarico deve scadere. Il datore di lavoro può avvalersi, certo, della facoltà (si ribadisce: facoltà) di rinnovare (rectius prorogare) di 2 anni l’incarico precedente, dopo di che, comunque, nulla da fare: “squadra che vince, si deve cambiare”, a prescindere dall’esito della valutazione positiva, come del resto suggerisce il Piano Nazionale Anticorruzione recentemente aggiornato dall’Anac, a conferma di una progressiva radicalizzazione del concetto di rotazione degli incarichi e delle parole spese a vuoto su “merito” e “valutazione”. Che, come si dimostra, non servono a nulla.
Pardon. Il tutto, invece, serve. Nel sistema attuale, la valutazione positiva del dirigente non consente al politico di turno di modificare o revocare l’incarico, meno che meno di licenziarlo. Allo scopo, occorrerebbe una profondissima motivazione e l’attuazione seria di un sistema di verifica e controllo dell’operato della dirigenza.
E’ noto, per carità, che in moltissime pubbliche amministrazioni, specie ministeri, regioni ed enti locali di grandi dimensioni, i sistemi di fissazione degli obiettivi e di misurazione dei risultati siano un colossale bluff: tante tabelle, “analisi di contesto”, parole, aggettivi, ma pochissimi obiettivi chiari e misurabili. Domani, con la riforma, vi sarà molta minore necessità di far evolvere i sistemi di valutazione verso qualcosa di realmente serio. Oggi, se detti sistemi fossero davvero utili ed efficaci, potrebbero consentire di evidenziare le motivazioni per la mancata conferma o il licenziamento dei dirigenti incapaci. Ma, come è noto, casi di questo genere sono come la mosca bianca. Perché tutti i dirigenti sono bravissimi, come irride spesso la stampa generalista nelle inchieste da bar dello sport, quelle nelle quali si afferma sempre che “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”, per avere audicence, applausi e far scaturire un altro “giro”? No. Perché alla politica, ed ad essa anche all’apparato di capi di gabinetto, segretari generali, direttori generali, consulenti vari addetti appunto alla formazione e presidio delle direttive, dà moltissima noia verificare davvero il raggiungimento degli obiettivi e misurare, quindi, con dati concreti il proprio operato.
La politica si sublima nella “nomina” e nella “revoca”, basate sulla “fiducia”, come massimo atto di potere. E non vuole limiti, controlli, strumenti oggettivi.
La riforma mette su un piatto d’argento la realizzazione di questa vocazione. Gli incarichi ai dirigenti apparentemente saranno frutto di una “selezione” prodotta da Commissioni immancabilmente “indipendenti”, ma poi sempre nominate dalla politica, mentre, in realtà, a scegliere il dirigente, senza nemmeno dover motivare, sarà il ministro, sindaco o presidente della regione tra una rosa di candidati suggerita dalla Commissione, nella quale, se ne può essere certi, non sarà mai assente il dirigente “amico” che si voleva proprio incaricare.
Soprattutto, però, consentirà al nuovo ministro, sindaco, presidente di regione, di fare a meno del dirigente il cui incarico andrà a scadenza, senza nemmeno doversi scomodare ad individuare ragioni specifiche, senza, appunto, dover utilizzare la valutazione o l’evidenziazione di un giustificato motivo soggettivo o di una giusta causa per chiudere il rapporto. Basterà solo attendere la scadenza dell’incarico e anche se il dirigente abbia ottenuto ottime valutazioni, lo potrà salutare: “mi spiace, il Suo incarico è scaduto. Sa, io non La conosco bene, ho necessità di riporre fiducia in dirigenti capaci, che però condividano apertamente il mio disegno politico. Quindi, anche se Lei ha ben operato, non intendo proseguire il rapporto. Ma, comunque, bravo, eh? Sono certo che lavorerà proficuamente con altri e che la sua carriera sarà luminosa”.
Dialogo surreale, di una riforma che prevede, a ben vedere, effetti a sua volta totalmente surreali.
Questi sono, ovviamente, gli elementi di maggior spicco, nello scenario di una riforma che con efficienza, merito e valutazione non ha davvero nulla a che vedere. Ma, ve ne sono molti altri.
Corso concorso. Il sistema di assunzione dei dirigenti pubblici tramite corso-concorso appare davvero al di là del limite del razionale. Lo schema di d.lgs dispone che superato il corso-concorso i vincitori “sono immessi in servizio come funzionari, per un periodo di tre anni, presso le amministrazioni per le quali sono stati banditi i posti, tenuto conto dell’ordine di graduatoria: l’amministrazione presso la quale il vincitore presta servizio può ridurre il suddetto periodo fino a un anno, in relazione all’esperienza lavorativa maturata nel settore pubblico o a esperienze all’estero, secondo, le previsioni del Regolamento di cui all’articolo 28-sexies. Ai vincitori sono attribuiti incarichi dirigenziali temporanei, per una durata non superiore al suddetto periodo.
Dunque:
1.      i vincitori del corso-concorso per dirigenti, non sono assunti come dirigenti, ma come funzionari;
2.      sono immessi in servizio presso l’ente che ha manifestato un fabbisogno di dirigenti, appunto come funzionari;
3.      il periodo di assunzione è di tre anni, riducibile a uno;
4.      comunque, pur essendo assunti come funzionari, e non ancora iscritti nel ruolo unico dirigenziale, possono ricevere un incarico dirigenziale.
La norma si commenta da sé.
Commissioni “indipendenti”. Il sistema degli incarichi, volto a mascherare, come già detto, una scelta totalmente arbitraria della politica con una procedura pubblica “selettiva”, si regge su commissioni nazionali, che avranno il compito di fissare i criteri di valutazione ed applicarli per definire le “rose” di tre dirigenti da “offrire” agli organi politici, in esito all’apertura delle procedure per individuare i dirigenti da incaricare.
La legge 124/2015 afferma che deve trattarsi di commissioni “indipendenti”. Chi scrive non ci ha mai creduto. Lo schema di decreto legislativo conferma pienamente questo scetticismo. Infatti, si prevede che la commissione per il ruolo unico nazionale dei dirigenti statale sia compostao da sette membri, dei quali sono permanenti:
1.      il Presidente dell’ Anac
2.       il Ragioniere generale dello Stato,
3.      il Segretario generale del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale;
4.      il Capo Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero dell’interno,
5.      il Presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane.

Si tratta, come è facile notare, di soggetti tutti direttamente incaricati dalla politica.

Gli altri due componenti saranno scelti tra persone “di notoria indipendenza”, con particolare qualificazione professionale ed esperienza in materia di organizzazione amministrativa, gestione delle risorse umane e finanziarie, contabilità, economia aziendale e management nel settore pubblico o privato, e nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentite le competenti Commissioni parlamentari.
Anche in questo caso, la nomina sarà integralmente politica. E già i vari consulenti che hanno collaborato negli anni alle varie riforme “epocali”, tutte inutili, della PA, si fregano le mani, consapevoli di essere in pole position per gli ambiti incarichi.
Le commissioni, infatti, diverranno lo “snodo” per la negoziazione degli incarichi. Ciascun sindaco, presidente di regione, ministro, per poter contare sulla possibilità di incaricare il dirigente di propria fiducia, dovrà agire sulle commissioni per far sì che selezionino nella “rosa” dei dirigenti da incaricare esattamente il soggetto “di fiducia”. Si possono già immaginare i contatti, le trattative, gli scambi, tra sindaco, referente del partito, referente del componente della commissione, per l’indicazione del nominativo da inserire nella terna. Ottenuto questo risultato, il gioco sarà fatto: il politico sceglierà liberamente nella terna il soggetto che meglio gli piaccia, senza nemmeno doversi sobbarcarsi il peso di spiegare perché.
Si intuisce, quindi, quale peso abbiano le commissioni e quale ruolo totalmente politico, di negoziazione e scambio, possiedano, tale da escludere in radice, al di là della composizione, che possano agire in modo “indipendente”.
Non di minore estrazioni politiche saranno le commissioni addette ai ruoli dei dirigenti regionali e locali.
Incarichi a contratto. Sebbene i ruoli siano quel “parcheggio di disponibilità” per il lavoro intermittente dei dirigenti squillo di ruolo, rimarrà la possibilità per la politica di continuare a cooptare dirigenti “a contratto” di fiducia.
Lo schema di decreto legislativo riproduce quasi integralmente l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001. Ma con due importanti modifiche:
1)      non occorrerà più la preventiva ricognizione dell’assenza di professionalità;
2)      non sarà necessario motivare il ricorso a soggetti non inseriti nei ruoli della dirigenza.
In particolare, la prima modifica è fondamentale. Nei ruoli confluiranno tra i 36.000 ed i 40.000 dirigenti pubblici: difficile se non impossibile dimostrare che non esistano le competenze necessarie. Dunque, la riforma apre totalmente all’arbitrio: i politici potranno incaricare soggetti esterni senza alcuna motivazione, dovendo solo assoggettarsi a limiti percentuali dell’8% per i dirigenti generali, 10% per gli altri dirigenti, percentuale che sale fino all’assurdo 30% della dirigenza locale. Ma si sa perfettamente che nessuno controllerà l’effettivo rispetto di questi limiti, che, per altro, non è nemmeno sanzionato.
Un’arma di pressione ulteriore e perfetta per assoggettare i dirigenti di ruolo, la cui vita lavorativa non solo è messa a rischio dalla precarizzazione descritta prima, ma anche dalla circostanza che una significativa percentuale degli incarichi teoricamente disponibili sarà comunque loro sottratta, per essere ancor più facilmente attribuita agli uomini “di fiducia” della politica.
Procedura per gli incarichi: la grande “ammuina”. Fare “ammuina” significa far confusione, lasciar credere che si stia facendo un gran lavoro produttivo, mentre, in realtà, ci si muove a casaccio, senza concludere nulla.
Il ruolo delle commissioni nell’assegnazione degli incarichi dirigenziali altro non è se non questo: un grande polverone, per destare l’impressione che gli incarichi saranno conferiti in base a chissà quali raffinate attività di selezione e scelta, degli “indipendenti” e “qualificatissimi” componenti.
La realtà sarà tutt’altra, molto vicina a quella che abbiamo sintetizzato sopra: una “stanza di compensazione” ove negoziare i componenti delle rose.
I cantori e magnificatori della “riforma epocale” affermano che la nuova procedura di incarico consente di valorizzare il merito e le capacità, addirittura rendendo i dirigenti maggiormente autonomi. Su Il Messaggero del 27 agosto, nel pezzo di A. Bassi “Statali, il 10% riceverà un premio extra” si legge uno stralcio della relazione di accompagnamento allo schema di decreto: “l’intento delle nuove norme è anche quello di dotare il sistema della dirigenza pubblica di maggiore trasparenza, per evitare i pericoli di prevaricazione politica nelle procedure di conferimento degli incarichi dirigenziali, garantendo nel contempo un’effettiva attuazione degli indirizzi politici”.
Poco freno all’ipocrisia, come si nota. Anche se il testo dello schema di decreto, invece, appare molto più sincero. Sebbene la stampa generalista, che fa da eco alle relazioni ed ai commenti propagandistici del Governo, affermi che il nuovo sistema è finalizzato a predisporre “procedure selettive”, il testo della norma è molto diverso. Non parla per nulla di procedure “selettive”. Ed è logico: la “selezione” i dirigenti l’hanno già fatta e superata al momento del concorso.
Per questo, in un anelito di schiettezza, il testo qualifica il tutto come “procedure comparative”. Nelle quali, quindi, non si seleziona proprio un bel nulla. Le commissioni saranno pienamente libere di scegliere tra i candidati che risponderanno agli avvisi pubblici una terna di dirigenti (nel caso di dirigenti generali) o una cinquina (il testo appare confuso: pare che possano essere 5 i candidati nel caso di incarichi dirigenziali non generali). Punto. Ma, non è un organo “indipendente” ad assegnare l’incarico, come ci si sarebbe aspettati in un sistema nel quale in attuazione del principio di separazione tra politica e gestione discendente dagli articoli 97 e 98 della Costituzione, oltre 25 anni fa si decise di estromettere politici e sindacalisti dalle commissioni di concorso. I politici riacquistano tutto lo spazio, ed anche di più, perso e diventano arbitri assoluti delle scelte: potranno “pescare” dalle rose formate dalle commissioni chi vorranno, senza motivare.
Per questo, come rilevato sopra, tutta l’attenzione si sposterà solo su come far includere nelle rose le persone di interesse. Il resto sarà, appunto, solo “ammuina”.
Mobilità e dirigenti senza incarico. Per chi voglia credere che davvero la riforma abbia l’obiettivo e intenda cogliere il risultato di creare un “mercato della dirigenza pubblica”, finalizzato ad agevolare la rotazione e lo scambio di esperienze, deve sapere che questo è già possibile nell’attuale ordinamento.
Infatti, l’articolo 23-bis, comma 2, del d.lgs 165/2001 dispone: “è assicurata la mobilità dei dirigenti, nei limiti dei posti disponibili, in base all’articolo 30 del presente decreto. I contratti o accordi collettivi nazionali disciplinano, secondo il criterio della continuità dei rapporti e privilegiando la libera scelta del dirigente, gli effetti connessi ai trasferimenti e alla mobilità in generale in ordine al mantenimento del rapporto assicurativo con l’ente di previdenza, al trattamento di fine rapporto e allo stato giuridico legato all’anzianità di servizio e al fondo di previdenza complementare. La Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento della funzione pubblica cura una banca dati informatica contenente i dati relativi ai ruoli delle amministrazioni dello Stato”.
Dunque, il sistema già consente la libera circolazione dei dirigenti. Ovviamente, la norma in questione viene abolita, per essere sostituita dalla scriteriata riforma. C’è un perché e sta nelle parole che abbiamo enfatizzato in grassetto:
a.       la continuità dell’azione amministrativa;
b.      la libera scelta dei dirigenti.
L’intero sistema previsto dalla riforma si pone in assoluto ed insanabile contrasto col principio di continuità dell’azione amministrativa, creando un immenso spoil system, in aperta sfida agli insegnamenti della Corte costituzionale derivanti dalla giurisprudenza formatasi a partire dalle sentenze 103 e 104 del 2007, che hanno evidenziato l’incostituzionalità dello spoil system e analoghi strumenti di decadenza automatica degli incarichi, sia per l’effetto di precarizzare la dirigenza privandola dell’autonomia necessitata dalla Costituzione, sia per la negazione della necessaria ed utile continuità amministrativa.
Ovviamente, l’impostazione della riforma così inconciliabile con i principi costituzionali non può che eliminare qualsiasi scelta “libera” dei dirigenti. Se la scelta fosse libera, non vi sarebbe lo stato di soggezione che, invece, viene prodotto dalla riforma.
E gli strumenti della mobilità e della disciplina dell’assenza degli incarichi attestano in modo chiarissimo come i dirigenti vengono assoggettati e privati di qualsiasi autonomia operativa.
Come noto, gli incarichi durano al massimo 4 anni, eventualmente solo prorogabili di 2. Dopo di che, i dirigenti ricevono il benservito e debbono andare a disposizione del ruolo, con lo stipendio più che dimezzato.
L’analisi della procedura degli incarichi svolta prima evidenzia che i dirigenti nulla possono concretamente fare per ricevere un nuovo incarico. I giornali parlano della loro “capacità di ottenere” il nuovo incarico. Ma si “ottiene” qualcosa, solo in esito ad un’attività svolta a tale fine. La procedura “comparativa” priva del tutto – a differenza di un concorso o di un sistema selettivo – i dirigenti della possibilità di agire attivamente per “ottenere” l’incarico. Sono, dunque, in totale balìa delle commissioni e degli organi di governo che scelgono attingendo alle rose.
In caso di decadenza dall’incarico e di privazione del lavoro, che può portare anche alla risoluzione addirittura del rapporto di lavoro, legato semplicemente ad eventi automatici, la scadenza del termine dell’incarico, e del tutto casuali: le decisioni delle commissioni e degli organi politici. Dove stiano selettività e merito qualcuno dovrà spiegarlo.
Dunque, scaduto l’incarico, il dirigente resta iscritto nel relativo ruolo ritrovandosi però in disponibilità fino al conferimento di un nuovo incarico dirigenziale.
Cosa accade ai dirigenti privi di incarico? Una serie di conseguenze che accentuano la condizione di precarietà creata dalla riforma:
1.      la falcidia al trattamento economico: viene erogato, a carico dell’ultima amministrazione che ha conferito l’incarico, per il primo anno il trattamento economico fondamentale. Nell’anno successivo, le parti fisse o i valori minimi di retribuzione di posizione, eventualmente riconosciuti nell’ambito del trattamento fondamentale, sono ridotti di un terzo del loro ammontare.
2.      hanno l’obbligo di partecipare, nel corso di ciascun anno di permanenza a nulla fare nel ruolo, ad almeno cinque procedure comparative di avviso pubblico, per le quali abbiano i requisiti. Ma nel caso dei dirigenti è evidente che non si applica il criterio territoriale della mobilità nel limite dei 50 chilometri dalla sede di lavoro. La norma è scritta in modo tale che il dirigente che lavora in Calabria deve partecipare alle 5 procedure comparative, anche se queste si svolgano in Piemonte;
3.      in ogni caso, stabilisce la norma, il dirigente privo di incarico è tenuto ad assicurare “la presenza in servizio”. Ma, sarebbe bello sapere: dove? Presso l’ente dove si è conclusa la durata dell’incarico? E a fare cosa? La norma precisa sul punto, che rimane a disposizione dell’amministrazione (si immagina quella per la quale ha lavorato e ove l’incarico è giunto a scadenza) per lo svolgimento di mansioni di livello dirigenziale. Ma, in questo caso, allora, pur essendo “in disponibilità” gli viene riconosciuto lo stipendio connesso alla posizione ed ai risultati legati alle mansioni che gli sono richieste? Ma, non era più razionale prevedere che le amministrazioni confermassero periodicamente gli incarichi, avviando i dirigenti in disponibilità solo nel caso di giustificato motivo soggettivo o oggettivo?
4.      possono, in qualsiasi momento, formulare istanza di ricollocazione in qualifiche non dirigenziali, in deroga all’articolo 2103 del codice civile, nei ruoli delle pubbliche amministrazioni. In questo caso, sono assegnati d’ufficio dalla Funzione Pubblica alle amministrazioni secondo le previsioni dell’articolo 4, comma 3quinquies, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125. Ma, se esiste un sistema di ricollocazione d’ufficio come dirigenti – come vedremo tra poco – a che serve prevedere l’umiliazione del demansionamento, che, per altro, per i dirigenti sarà definitivo, a differenza degli altri dipendenti, per i quali il d.lgs 165/2001 lo contempla già, ma solo in via temporanea con possibilità di tornare alla categoria di iscrizione?
Il testo dello schema di decreto in modo molto confuso cerca – opportunamente – di distinguere, comunque, la posizione dei dirigenti rimasti privi di incarico per semplice scadenza, da quella dei dirigenti cui sia stato revocato per mancato raggiungimento degli obietitvi.
Si prevede, allora, che per i soli dirigenti dello Stato in disponibilità privi di incarico decorso un anno dal collocamento in disponibilità nel Ruolo, le amministrazioni statali possono conferire direttamente incarichi dirigenziali per i quali essi abbiano i requisiti, senza espletare la procedura comparativa di avviso pubblico, laddove ricorrano le condizioni, stabilite in via generale dalla relativa Commissione di cui all’articolo 19.
La stessa norma, pochi commi dopo, afferma che decorsi due anni dal collocamento in disponibilità nel Ruolo (si tratta dei ruoli della dirigenza regionale e locale? E perché la discriminazione tra dirigenti statali e gli altri?), il Dipartimento della Funzione pubblica provvede a collocare i dirigenti privi di incarico, ove ne abbiano i requisiti, presso le amministrazioni dove vi siano posti disponibili. Un salvataggio d’ufficio dalla sinecura. Le amministrazioni che si vedranno paracadutati i dirigenti in disponibilità (con un meccanismo che i comuni hanno conosciuto in relazione ai segretari comunali) conferiranno a detti dirigenti un incarico dirigenziale, senza espletare la procedura comparativa di avviso pubblico, secondo i criteri stabiliti in via generale dalla relativa Commissione.
In questo caso, però, laddove il dirigente rifiuti l’attribuzione dell’incarico decade dal Ruolo. Ancora una volta, si nota che manca qualsiasi limite territoriale alla ricollocazione d’ufficio della Funzione Pubblica. Dunque, rimane sempre aperta la possibilità della transumanza forzata del dirigente privo di incarico dalla Lombardia alla Puglia e viceversa.
Revoca. Nel caso di dirigenti che finiscono in disponibilità non per scadenza naturale dell’incarico, bensì per revoca, si prevede la conseguenza della decadenza dal relativo Ruolo della dirigenza, con effetto di licenziamento, decorso un anno senza che abbiano ottenuto un nuovo incarico.
Tale termine è sospeso in caso di aspettativa per assumere incarichi in altre amministrazioni, ovvero in società partecipate, o per svolgere attività lavorativa nel settore privato.
In questo modo, come si nota, il testo del decreto intende operare quella differenziazione tra dirigenti che scadono per mero fatto, da quelli revocati per responsabilità dirigenziale.
A tale proposito, la riforma modifica in modo piuttosto pesante l’articolo 21 del d.lgs 165/2001, introducendo le seguenti ulteriori cause di mancato raggiungimento degli obiettivi, da cui possono discendere appunto provvedimenti di revoca: la valutazione negativa della struttura di appartenenza, riscontrabile anche da rilevazioni esterne; la reiterata omogeneità delle valutazioni del proprio personale, a fronte di valutazione negativa o comunque non positiva della performance organizzativa della struttura, e in particolare il mancato rispetto della percentuale del personale prevista dalla legge, o della diversa percentuale oggetto di negoziazione, cui attribuire indennità premiali, secondo le indicazioni dei contratti collettivi di lavoro; il riscontrato mancato controllo sulle presenze, e sul contributo qualitativo dell’attività lavorativa di ciascun dipendente; la mancata rimozione di fattori causali di illecito; il mancato rispetto delle norme sulla trasparenza, che abbiano determinato un giudizio negativo dell’utenza sull’operato della pubblica amministrazione e sull’accessibilità ai relativi servizi; il mancato rispetto dei tempi nella programmazione e nella verifica dei risultati imputabile alla dirigenza.
Mandarini. Sergio Rizzo è uno tra i più sperticati fautori della riforma, che, a suo dire, serve per dare finalmente una raddrizzata ai “mandarini” di Stato, eliminando i loro privilegi. Sarà davvero così?
La risposta è, ovviamente, no. Se da un lato la riforma elimina la distinzione (esistente, comunque, solo nelle amministrazioni statali) tra dirigenti di prima e seconda fascia, e costringe anche ai dirigenti di prima fascia a “mettersi sul mercato”, a ben vedere l’esito finale è quello di incrementare il potere dei “mandarini” e di creare tanti dirigenti “più uguali degli altri”. Vedere per credere:
1.      l’eliminazione della prima fascia sarà graduale. Fino al suo esaurimento, gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale saranno conferiti almeno per il 30% (“almeno”, non “fino al”…), del numero complessivo di posizioni dirigenziali di livello generale previste nell’amministrazione che conferisce l’incarico, ai dirigenti di prima fascia appartenenti ai ruoli della amministrazione alla data di entrata in vigore del. Dunque, i dirigenti di prima fascia, tra i quali si annidano gli odiati “mandarini” per almeno un 30% possono stare tranquilli. Anzi, tra mandarini si creano due fasce: i privilegiati, i supermandarini che restano al loro posto, e gli altri che dovranno “sudarlo”;
2.      i veri “mandarini”, i dirigenti di staff della politica, come i capi di gabinetto, quelli che vengono da sempre incaricati in via fiduciaria e spessissimo reperiti tra magistrati di ogni categoria che fanno a sportellate per ottenere questi incarichi molto politici e poco tecnici, restano del tutto fuori dal “mercato dei dirigenti”. La riforma, infatti, semplicemente esclude dal suo campo di applicazione, nel caso delle amministrazioni statali, gli incarichi di segretario generale dei ministri e dei ministeri, quelli di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali, quelli di livello equivalente, e quelli conferiti presso gli uffici di diretta collaborazione di cui all’articolo 14 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Cioè, il gotha dei mandarini non viene nemmeno sfiorato dalla riforma. Con buona pace di Sergio Rizzo, che, comunque, continuerà certamente ad incensare il decreto;
3.      i “dirigenti apicali”, che negli enti locali si sostituiranno ai segretari comunali, consentendo – finalmente – ai sindaci di circondarsi di propri accoliti sostenitori, cessano dall’incarico se non rinnovato entro novanta giorni dalla data di insediamento degli organi esecutivi. Questo significa, quindi, che a differenza degli altri dirigenti, per il “dirigente apicale” sarò possibile non solo una durata dell’incarico superiore ai 4 anni, perché uguale a quella del mandato elettorale, ma il rinnovo continuo, senza passare dall’ammuina del processo comparativo.
Insomma, come si nota, la riforma non tocca nessun privilegio, ma al contrario aumenta la distanza tra la dirigenza di estremo vertice, quella da sempre di fortissima estrazione politica (nella quale albergano gli Odevaine e Incalza, per capirsi), dal resto della dirigenza.
La bufala dello stipendio. Naturalmente, altro “strillo” per incensare la riforma è affermare che il trattamento economico viene profondamente modificato, perché almeno il 50% dovrà essere legato al merito.
A scrivere in modo tra lo stupito ed il compiaciuto, sono quegli stessi giornali che da giorni scrivono con grande soddisfazione che i dirigenti senza incarico, poiché si pagherà loro solo lo stipendio tabellare, subiranno un taglio al trattamento economico tra il 40% e il 70%. Non si rendono, dunque, conto, questi raffinati analisti che la “riforma” del trattamento economico in realtà nella sostanza non cambia per nulla le cose, che nella gran parte dei casi stanno già come la “riforma” prevede che stiano.

 

Agenzia. Ah. Visto che c’erano gli estensori costituiscono l’ennesima Agenzia, nella quale verrà trasformata la Scuola nazionale della pubblica amministrazione. Perché ad un’autohority o a ad un’agenzia, dai, non si può proprio rinunciare.

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