Riforma della dirigenza pubblica troppo puntata sull’attribuzione di responsabilità
di Luca Tamassia
Riviviamo oggi l’ennesima stagione delle riforme annunciate, riforme che, oramai, toccano tutti i settori della nostra società. Tuttavia la riforma può considerarsi tale se, sostituendo a un vecchio impianto una nuova strumentazione e una nuova cultura, produce, nel tempo, una reale utilità sociale, per cui un sistema riformista può dirsi vincente, non tanto misurandosi sulla quantità di riforme condotte in porto, ma valutando la qualità che le stesse sono in grado di veicolare nell’ambito innovato. La riforma della Pa è tema centrale di questa stagione governativa. Difficile confutare l’esistenza di questa esigenza, ma per considerarne i reali effetti bisogna valutare la tipologia e l’intensità dell’intervento riformista, per consentire di giudicarne l’efficacia, la bontà e la tenuta, anche sul piano culturale. Su tutte le riforme attualmente in cantiere si è conquistata il meritato primato quella, tanto attesa, della dirigenza pubblica che, già nel tempo, ha rappresentato l’area che ha accusato il maggior numero di interventi legislativi, a riprova del nervo scoperto che questo settore ancora oggi presenta.
Una serie di riforme
Dal 1993, con l’avvento del primo assetto revisionale introdotto dal decreto legislativo n. 29, in poi, infatti, non c’è stato un passaggio di Governo che non abbia apportato qualche ritocco normativo, più o meno sbandierato come “riforma”: è un fatto, dunque, che la dirigenza pubblica non abbia mai avuto, come oggi ancora non ha, pace riformista. Le riforme degli anni ’90 – in disparte la privatizzazione del lavoro pubblico che, comunque, ha prodotto meno benefici di quelli che, all’epoca, si potessero immaginare – ha originato l’affermazione di principi fondanti nel contesto dell’agire pubblico e del ruolo dirigenziale, attraverso, soprattutto, il conio di due criteri fondamentali per la realizzazione del meccanismo di trasformazione del sistema pubblico: da un lato, il principio di distinzione funzionale tra governo e gestione, dall’altro lato l’affrancamento dal sistema di controlli interni ed esterni sull’attività dalla pubblica amministrazione. Il primo criterio era funzionale a una maggiore indipendenza e a una più spiccata autonomia della classe dirigente pubblica rispetto all’organo politico, nonché, quale logica conseguenza, all’introduzione di più elevati livelli di responsabilizzazione dell’apparato gestionale pubblico che trova, nella funzione dirigenziale, il suo naturale fulcro. Sul secondo versante, invece, gioca la ricerca di un maggior spazio di autonomia operativa delle pubbliche amministrazioni, soprattutto territoriali, accompagnata dal lodevole tentativo di riduzione dei tempi e dei costi della produzione pubblica.
L’impianto riformista, di per sé, era volto al conseguimento di nobili obiettivi di rilancio dell’opacizzata immagine dell’amministrazione pubblica e del recupero di efficienza e di economicità dell’agire pubblico da sempre in forte affanno, all’epoca questioni molto sentite, anche dall’opinione pubblica. Il limite di sistema, tuttavia, è stato rinvenuto, all’esito della pratica esperienza di questi anni, nell’incapacità etica e culturale di metabolizzare principi, meccanismi e culture che non appartengono al nostro sistema tradizionale di azione pubblica e da questo, dunque, non sono stati riconosciuti, né integralmente accettati e inglobati a regime. Si è tentato di mutuare, in altri termini, un’impostazione istituzionale importandola dagli esempi virtuosi di culture tradizionalmente più avanzate ed attente, ad iniziare da quella francese, non comprendendo che l’importazione di assetti istituzionali che non ci appartengono, se non corredata di un vero e proprio riconoscimento culturale, avrebbe fatalmente prodotto, nel tempo, un fenomeno di rigetto. Un’attenta valutazione dell’esperienza di un quarto di secolo, nel corso del quale tali principi hanno operato in quanto imposti per legge, ci offre il più chiaro ed inequivocabile spaccato del fenomeno d’intolleranza riformista che si è venuto a determinare nel settore pubblico. Il principio di distinzione funzionale tra governo e gestione, infatti, lungi dal costituire un traguardo in grado di indurre a comportamenti corretti ed accompagnati da un incremento dei livelli di responsabilità, quanto meno gestionale, nei fatti ha consolidato la supremazia del governo sulla gestione, mettendo quest’ultima, solo formalmente, nelle mani dei dirigenti, ma, in concreto, non sottraendo le relative scelte dai pesanti condizionamenti di governo. Questo fenomeno – certamente non sconfessabile, in quanto sotto gli occhi di tutti, almeno di coloro che hanno un minimo di esperienza interna nell’apparato di funzionamento dell’amministrazione pubblica, a qualsiasi livello – ha cagionato un rilevante evento distorsivo, trasformando l’indipendenza della gestione in alibi pretestuosi, spesso utilizzati per eludere le responsabilità degli organi di governo. Basti considerare le più elementari linee difensive addotte dai livelli politici allorquando i relativi organi vengano chiamati in causa in relazione all’adozione di atti lesivi: in tali circostanze la pratica più diffusa è quella di apprestare una difesa tutta squilibrata sugli errori gestionali della dirigenza, autoassolvendosi da scelte non di rado indotte dagli stessi e, quindi, non autonomamente e genuinamente maturate nel contesto gestionale.
La responsabilità dei dirigenti
Rispetto a questo fenomeno distorsivo – che vede il dirigente quasi sempre come unico capro espiatorio di un sistema che non ha avuto la capacità di trovare un fulcro di equilibrio tra esigenze distinte, ma convergenti – ci si può domandare quale rimedio è stato apprestato dal nostro ordinamento. La risposta è affidata all’osservazione dei fenomeni normativi: la reazione dell’impianto istituzionale si è immediatamente rivolta ad un significativo incremento del carico di responsabilità dirigenziali, sul presupposto, del tutto errato, che qui si annidi il vero problema dell’inefficienza, o peggio, della corruzione, come evento tipicamente pubblico da fronteggiarsi con una sensibile elevazione dell’asticella dei profili di responsabilità che fanno capo al dirigente pubblico. Oggi, infatti, assistiamo a una distonia che non ha pari in altri Paesi, un crescendo di fattori di responsabilizzazione dell’apparato dirigenziale che, oramai, adduce veri e propri toni parossistici: responsabilità penali, civili, patrimoniali, contabili, dirigenziali, amministrative, lesive ecc., in tutti i campi. Negli ultimi tempi, infatti, non c’è testo normativo (in materia di trasparenza, anticorruzione, incompatibilità, appalti, contratti, codici, e chi più ne ha più ne metta) in cui il legislatore del momento non faccia a gara per introdurre una sanzione, di qualunque natura, basta che ci sia un meccanismo punente, nella convinzione che, responsabilizzando e sanzionando le dirigenze, si possa risolvere questo stato di cose. La tensione verso un’estesa responsabilità dirigenziale e un suo tendenziale ampliamento e incremento progressivo, per contro, non solo non appare produttiva – anche in funzione della latente e scarsa capacità sanzionatoria degli apparati a ciò deputati – ma risulta del tutto controproducente, un vero e proprio freno all’efficienza, un limite all’economicità ed un perimetro imposto all’efficacia dell’azione pubblica. In questo contesto di eccesso sanzionatorio, infatti, la struttura pubblica non risponde più ai criteri di efficienza e di economicità nella scelta delle opzioni, bensì orienta il proprio operato a un ovvio principio di difesa conservativa: la scelta dell’azione da assumere, infatti, non risponderà più a criteri utilitaristici a salvaguardia dell’interesse pubblico, ma sarà improntata a criteri di autoconservazione rispetto ad un soffocante meccanismo di responsabilizzazione fortemente afflittivo.
Da qui la percezione che il dirigente sia improduttivo e inefficiente: sfido chiunque, anche il miglior manager sul mercato, date queste condizioni, a immergersi in una gestione così configurata, con la pretesa di gestire correttamente, in modo efficace e con obiettivi di economicità, senza timore del regime sanzionatorio che l’ordinamento ha apprestato per il mancato rispetto dei vincoli che, oramai, dilagano in tutti i settori quale unica risposta dell’ordinamento alla pretesa inefficienza pubblica. La riforma della dirigenza pubblica, inoltre, non sembra dare un contributo decisivo alla soluzione di questo problema, anzi, la precarizzazione del ruolo dirigenziale pare volgere le sorti ancora una volta a vantaggio del Governo, ritenendo, evidentemente, che la soluzione sia da ricercarsi nell’agevolare le scelte politiche rispetto a un assetto dirigenziale recalcitrante e improduttivo, piuttosto che affrontare radicalmente la questione. Cambiare il dirigente, infatti, non appare una soluzione, anzi, può sembrare ancor più un segnale dell’incapacità di affrontare una così complessa questione e della conseguente debolezza di chi è chiamato a gestire il cambiamento. La realtà dei fatti, invece, depone per ben altre riforme che non siano (solo) quella della libera scelta del dirigente e passa attraverso una cultura radicalmente diversa e nell’alveo di soluzioni completamente opposte alla realtà dei nostri giorni. Riformare la dirigenza, invero, non significa, semplicemente, mutarne i meccanismi di gestione nell’ottica di una maggiore discrezionalità o incrementarne a dismisura gli ambiti di responsabilità, ma vuol dire incidere sulle condizioni di contesto dell’azione dirigenziale, vuol dire, in altri termini, sfoltire il sistema normativo che ne ingabbia le capacità gestionali e le potenzialità di risposta rispetto a bisogni sociali estesi e in profonda trasformazione, liberandone i reali potenziali di produttività. L’eccesso normativo, è un fatto, non elimina i rischi d’improduttività o, peggio, di corruzione, ma, al contrario, li alimenta. Non è una novità che gli eventi corruttivi si riproducano nell’alveo del rispetto formale delle norme per insinuarsi nelle pieghe dell’ordinamento e in queste trovare la massima tutela: e più si disciplina, più si creano fattori di rischio, in un meccanismo che vede un rapporto diretto tra aumento normativo e incremento del pericolo dei fattori degenerativi.
Conclusioni
È solo un esteso, profondo e reale fenomeno non solo di delegificazione, ma di vera e propria denormazione che consentirebbe di condurre una ben più efficace azione di contrasto alle condotte corruttive. Nelle norme si annida la sicurezza dell’impunità, atteso che il loro rispetto ossequioso spesso elide ogni profilo di responsabilità, soprattutto laddove il risultato conseguito non è quello voluto dall’ordinamento, ma si realizza in ragione della circostanza per la quale è consentito dalla scrupolosa osservanza della sequenza dispositiva. L’assenza di prescrizioni di dettaglio, viceversa, la cui presenza costituisce un vero e proprio baluardo di difesa delle azioni distorsive, consentirebbe una compiuta e trasparente verifica delle condizioni, dei presupposti e delle motivazioni che conducono alle scelte, in quanto un sistema che si muova su principi generali e non su minute normazioni imporrebbe, necessariamente, l’adozione di autonomi meccanismi di scelta che renderebbero l’iter seguito del tutto trasparente e maggiormente motivato, al fine di supplire all’alibi della norma attraverso una ricostruzione delle opzioni assunte nel modo più trasparente e tracciabile. Gestire per principi significa, dunque, esporsi, facendo emergere la traccia più chiara delle proprie scelte, senza il comodo nascondiglio delle norme. Ma forse non siamo pronti oggi ad affrontare un fenomeno così esteso e convinto di denormazione, in quanto ancora la presenza del dettaglio normativo ci rassicura: chi delinque trova qui ancora il suo alibi, chi legifera trova qui la giustificazione che assicura la pace della coscienza.
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