Per cambiare la Pa servono comportamenti e non leggi
di Francesco Verbaro
Il Sole 24 Ore
Lunedì, 27 Luglio 2015
Le novità introdotte dal Parlamento alla riforma della Pa hanno prodotto grande clamore e stimolato un dibattito più delle volte surreale. L’ illusione sulla forza innovatrice della legge ha portato in questi anni a pensare che la norma di per sé producesse il cambiamento, e la cronica mancanza di valutazione porta a non verificare l’ esistenza di un cambiamento concreto e conseguente alla novità normativa. Un emendamento riguarda la messa a disposizione dei dirigenti nel ruolo unico (articolo 9, comma 1, lettera h) e quindi la disciplina della decadenza a seguito di un periodo di collocamento in disponibilità. L’ emendamento aggiunge l’ inciso con il quale la cessazione dal ruolo (ndr licenziamento) avviene solo a seguito di valutazione negativa. A parte i titoli che hanno accompagnato l’ emendamento, la disposizione di fatto introduce una garanzia importante. Nel ruolo unico, in sostanza, si rimarrà salvo che il soggetto non sia stato collocato a disposizione a seguito di valutazione negativa. Chi conosce i dati sulla valutazione nella Pa e sulla dirigenza però sa bene che di valutazioni negative, concetto poi da chiarire (significa zero o sotto una determinata soglia?), se ne registrano raramente. Obiettivi ancora generici e poco sfidanti, e sistemi di valutazione ipergarantisti, consolidano nella Pa la prassi del pari trattamento, il tutto a scapito dei più bravi, della motivazione e dei servizi ai cittadini. Non a caso nella stessa delega si prevedono principi sulla semplificazione delle norme in materia di valutazione, sulla razionalizzazione e integrazione dei sistemi di valutazione o sullo sviluppo di sistemi distinti per la misurazione dei risultati raggiunti dall’ organizzazione e dai singoli dipendenti. Problematiche che avrebbero bisogno più di amministratori coraggiosi, che credono nella valutazione, che di norme. Altrettanto si può dire per l’ emendamento che prevedeva il «superamento del mero voto minimo di laurea quale requisito per l’ accesso ai concorsi e possibilità di valutarlo in rapporto a fattori inerenti all’ istituzione che lo ha assegnato» e che non è stato alla fine approvato. Un emendamento che ha alzato un polverone e il cui impatto sarebbe stato minimo se non assente. I concorsi pubblici sono uno strumento residuale nel reclutamento della Pa. Si calcola che solo il 30% degli attuali dipendenti è entrato per concorso pubblico, cioè aperto a tutti e senza riserve. Stabilizzazioni e sanatorie hanno condizionato la storia del reclutamento. Rari i concorsi che prevedono la valutazione dei titoli o del punteggio del titolo di studio. Quest’ ultimo aspetto, invece, ha interessato il 100% delle progressioni verticali, che a un certo punto hanno favorito un “mercato” dei titoli di studio facili. Prevedere che la Pa scelga i migliori e valuti anche l’ Istituto che ha rilasciato il titolo di studio non è uno scandalo. Uno scandalo è stato il modo di reclutare e far fare carriera in questi anni. In cambio, la commissione della Camera ha introdotto principi in materia di procedure di reclutamento (accentramento delle procedure, verifica della conoscenza delle lingue eccetera) , che avrebbero ben potuto trovare attuazione nell’ ambito del potere regolamentare e gestionale delle singole amministrazioni. Le solite leggi che provano a sostituire la buona gestione con pagine della Gazzetta ufficiale
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