I contratti “derivati” degli enti pubblici tra autonomia negoziale e principio di legalità
(considerazioni a margine della sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 12 maggio 2020, n. 8770)
Materia: contratti della pubblica amministrazione. Argomento: derivati. ABSTRACT La parabola dei “derivati” degli Enti pubblici territoriali è iniziata negli anni novanta, ha raggiunto il suo culmine negli anni duemila ed è stata contrassegnata da una serie di interventi legislativi progressivamente orientati a delimitare l’ambito dell’autonomia negoziale della Pubblica amministrazione. La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 8770 del 12 maggio 2020, ripercorrendo l’evoluzione normativa, ricostruisce in via interpretativa la “tipizzazione” legislativa di tali contratti sul presupposto di una visione unitaria dell’ordinamento giuridico, in cui la normativa privatistica e quella pubblicistica non si presentano come monadi a sé stanti, ma operano in una logica di vasi comunicanti. Detta “tipicità” contrassegna tanto la “causa”, quanto l’”oggetto” di tali contratti e conforma anche il procedimento amministrativo che ne precede la stipula, i cui vizi si ripercuotono sul piano della patologia negoziale nella sua forma più radicale della nullità del contratto. La sentenza è, nel contempo, l’occasione per un momento di verifica dei sempre controversi rapporti tra “diritto amministrativo” e “diritto privato” e tra autonomia negoziale e principio di legalità, confermando una volta di più che detto principio pervade l’intero raggio dell’azione amministrativa, a prescindere dalla natura giuridica dell’attività esercitata. |
Sommario: 1. Premessa. 2. L’evoluzione normativa dei “derivati” degli Enti pubblici. 3. La tipizzazione dei contratti “derivati” degli Enti pubblici quale portato di una visione unitaria dell’ordinamento. 4. La “causa” tipica dei “derivati” degli Enti pubblici. 5. L’”oggetto” tipico dei “derivati” degli Enti pubblici. 5.1. Il collegamento negoziale tra i “derivati” ed i rapporti debitori sottostanti. 6. La clausola di up front e la nozione di “indebitamento”. 6.1. La clausola di up front in un nuovo contratto “derivato”. 6.2. La clausola di up front in un contratto di “rinegoziazione” di un “derivato” esistente. 6.3. Conseguenze della qualificazione dell’up-front come clausola di “finanziamento”: la nullità del “derivato” per violazione dell’art. 119 Cost., dell’art. 202 d.lgs. n. 267 del 2000 e dell’art. 30, comma 15, legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Legge finanziaria 2003). 7. Il procedimento tipico per la stipula dei “derivati” pubblici. 7.1. Competenza. 7.2. Procedura di selezione dell’intermediario finanziario. 7.3. Conseguenze della violazione delle norme procedimentali sulla validità dei contratti “derivati”. 8. Autonomia negoziale della Pubblica amministrazione e principio di legalità: considerazioni finali.
1. Premessa.
Il presente scritto trae spunto dalla recente pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 8770 del 12 maggio 2020, con la quale la S.C. ha rigettato il ricorso proposto da una banca avverso la sentenza della Corte di Appello di Bologna n. 734 del 11 marzo 2014, con cui era stata dichiarata la nullità e l’inefficacia di alcuni contratti di finanza derivata stipulati con un Comune [1].
E’ importante, sin d’ora, sottolineare che detti contratti (quantomeno quelli per i quali vi era un effettivo interesse dell’Ente alla loro caducazione) erano stati sottoscritti nel 2013 e quindi prima che gran parte della normativa in materia di “derivati” degli Enti pubblici prendesse corpo [2].
Come noto, le problematiche relative ai derivati degli Enti pubblici (ed in particolare delle Regioni e degli Enti locali) sono esplose all’inizio degli anni 2000 e si sono notevolmente mitigate a seguito dei ripetuti interventi del legislatore, culminati con il decreto legge 25 giugno 2008, n. 112.
Continuano, però, tuttora a produrre i loro effetti i contratti stipulati prima delle misure di “contenimento” assunte dal legislatore, nella gran parte dei casi produttivi di ingenti differenziali negativi a carico delle Pubbliche Amministrazioni [3] : ed è per queste ultime situazioni che la sentenza delle Sezioni Unite, intervenuta a dirimere “questioni di massima di particolare importanza” per gli interessi degli Enti pubblici – in particolare territoriali (e delle collettività da essa rappresentati) è destinata a produrre i suoi effetti pratici [4].
La pronuncia è, nel contempo, di estrema importanza anche sul piano teorico, in quanto rappresenta un fondamentale momento di verifica dei sempre controversi rapporti tra “diritto amministrativo” e “diritto privato” e tra autonomia negoziale e principio di legalità amministrativa.
2. L’evoluzione normativa dei “derivati” degli Enti pubblici.
Come ricordato dalle Sezioni Unite, i contratti “derivati” si sono spontaneamente diffusi nella pratica degli affari privati e manca ancora oggi una definizione legislativa di carattere generale [5] : si comprende, pertanto, perché dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che si tratti di “contratti atipici”, sul presupposto della loro irriducibilità ad un tipo legislativamente regolato.
Ciò riguarda, in particolare, i “derivati” c.d. over the counter (OTC) – e, tra questi, segnatamente, i contratti di interest rate swap (IRS), maggiormente diffusi tra gli Enti pubblici – il cui contenuto è negoziato dalle parti al di fuori di modelli standardizzati [6] e per i quali si pone, pertanto, l’esigenza di verificare se siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico ex art. 1322, comma 2, cod. civ. [7].
Parallelamente alla disciplina di diritto comune, è andata gradualmente sviluppandosi una regolamentazione di stampo pubblicistico, volta a disciplinare i contratti “derivati” stipulati dagli Enti pubblici.
Se le ragioni per le quali l’ordinamento appronta regole e mezzi diversi da quelli propri del “diritto privato” – sì da configurare quello che è chiamato “diritto amministrativo” – sono tradizionalmente ricondotte alla necessità di regolamentare (e con ciò limitare) l’esercizio del potere autoritativo della Pubblica amministrazione nei confronti dei privati e – in specie nel campo dell’attività contrattuale – ad assicurare il corretto utilizzo delle risorse pubbliche, l’evoluzione della disciplina pubblicistica dei “derivati” pubblici pare, invece, ispirata da motivazioni ulteriori e del tutto peculiari.
La parabola del diritto amministrativo dei “derivati” pubblici è, invero, contrassegnata da due diverse tendenze analizzabili in senso diacronico, seppure entrambe ruotanti attorno ai limiti dell’autonomia negoziale della Pubblica amministrazione.
In una prima fase, affermatasi negli anni ’90, il legislatore, guardando alla prassi internazionale, ha perlopiù inteso promuovere l’utilizzo dei “derivati” da parte delle Pubbliche amministrazioni, partendo dal presupposto che dette operazioni potessero rappresentare un utile strumento di ristrutturazione del debito e di copertura dei rischi finanziari.
I primi interventi normativi erano, quindi, principalmente orientati ad affermare la legittimazione negoziale degli Enti all’utilizzo di detti strumenti contrattuali, giungendo finanche ad imporli.
In quest’ottica, il decreto ministeriale 10 novembre 1995 (Orientamenti operativi di riferimento in merito all’emissione ed alla gestione del debito pubblico dello Stato) menzionava tra “le operazioni di ristrutturazione del debito” anche “quelle effettuate attraverso le operazioni di swap” (art. 1), imponendone allo Stato la stipula con istituti finanziari di elevata affidabilità (art. 2) e precisando che “esse avranno come principale obiettivo, sulla base delle informazioni disponibili e dell’evoluzione delle condizioni di mercato, la minimizzazione del costo del debito.”.
Successivamente, l’art. 2 del decreto ministeriale 5 luglio 1996, n. 420 (Regolamento recante norme per l’emissione di titoli obbligazionari da parte degli enti locali in attuazione dell’art. 35 della legge 23 dicembre 1994, n. 724) ha imposto agli Enti locali le operazioni di swap per la copertura del rischio di cambio per tutti i prestiti in valuta estera [8].
Un ulteriore intervento legislativo, con più generico riferimento ad “altri strumenti operativi previsti dalla prassi dei mercati finanziari” per la ristrutturazione del debito pubblico statale interno ed esterno, è rappresentato dall’art. 2, comma 165, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 e dall’art. 48 della legge 23 dicembre 1999, n. 662, che hanno modificato alcune norme della legge finanziaria del 1985 (Legge 22 dicembre 1984, n. 887).
All’inizio degli anni duemila, si registrano i primi interventi legislativi più marcatamente regolatori dell’autonomia negoziale degli Enti, cominciando chiaramente ad affiorare la necessità di assicurare la rispondenza di tali strumenti contrattuali al perseguimento delle loro funzioni istituzionali: si affaccia già in questa fase il pericolo dell’abuso dei derivati pubblici da parte delle Pubbliche amministrazioni (ed in particolare degli Enti territoriali) per finalità non consone (ovvero non “tipiche”) ai compiti loro propri.
La ratio di questi interventi legislativi è differente dai primi, perché più che stimolare l’autonomia negoziale da parte degli Enti, il legislatore intende regolamentarne l’esercizio: appare chiaro, già in questa fase, l’esigenza di ricondurre anche questo particolare settore di attività contrattuale, nascente dalla prassi finanziaria ed apparentemente libero da vincoli procedimentali di evidenza pubblica [9] , al principio di legalità dell’azione amministrativa.
In quest’ottica va letto l’art. 41 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge Finanziaria 2002), che ha nuovamente previsto per gli Enti territoriali la stipula dei contratti di swap in occasione della emissione dei titoli obbligazionari (comma 2), rinviando ad un decreto ministeriale “le norme relative … all’utilizzo degli strumenti derivati da parte dei succitati enti” (comma 1) [10].
La disciplina regolamentare generale delle “operazioni in strumenti derivati” da parte degli Enti locali è stata poi emanata con il decreto ministeriale 1 dicembre 2003, n. 389 (Regolamento concernente l’accesso al mercato dei capitali da parte delle province, dei comuni, delle città metropolitane, delle comunità montane e delle comunità isolane, nonchè dei consorzi tra enti territoriali e delle regioni, ai sensi dell’articolo 41, comma 1, della L. 28 dicembre 2001, n. 448), la cui portata applicativa è stata esplicitata con Circolare del Ministero dell’economia e delle finanze 27 maggio 2004.
Successivamente, l’art. 1, comma 74, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 ha confermato la stipula degli swap a garanzia della emissione di titoli obbligazionari (in alternativa alla costituzione di un fondo di ammortamento del debito).
Siamo in una fase in cui molti Enti – ed in particolare molte Regioni ed Enti locali – allettati da proposte di ristrutturazione dei propri debiti non di rado arricchite da “premi di liquidità”, sottoscrivono operazioni di finanza derivata con banche nazionali ed estere, secondo modelli contrattuali predisposti unilateralmente da queste ultime.
Emerge, così, in chiaro che una siffatta tipologia di negoziazione, in cui (come dicono le Sezioni Unite) la banca è al tempo stesso un intermediario finanziario, ma anche un mandatario dell’investitore e << l’intermediario è tendenzialmente controparte diretta del proprio cliente >> [11], la necessità di una protezione della “parte debole” del contratto che in questo caso, a dispetto delle tradizionali acquisizioni del “diritto amministrativo”, non è il soggetto privato, bensì la Pubblica amministrazione.
Esigenza di protezione che non poteva essere adeguatamente soddisfatta con gli strumenti comuni del Codice civile e neppure con quelli previsti dal Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. n. 58 del 1998) [12].
Così si spiega il primo intervento legislativo di protezione di cui all’art. 1, commi 736, 737 e 738, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge Finanziaria 2007), che, nel ribadire alcuni “principi fondamentali per il coordinamento della finanza pubblica” sull’utilizzo degli strumenti derivati da parte delle Regioni e degli Enti Locali, ha approntato un sistema dei controlli del Governo nazionale sulle singole operazioni poste in essere dagli Enti.
Dando seguito alla suddetta tendenza normativa, è quindi intervenuta la legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Finanziaria 2008), che dopo avere enunciato che “381. I contratti di strumenti finanziari anche derivati, sottoscritti da regioni ed enti locali, sono informati alla massima trasparenza”, ha previsto alcuni adempimenti obbligatori volti a rendere effettivo il principio di trasparenza (“383. La regione o l’ente locale sottoscrittore di strumenti finanziari di cui al comma 381 deve attestare espressamente di aver preso piena conoscenza dei rischi e delle caratteristiche dei medesimi, evidenziando in apposita nota allegata al bilancio gli oneri e gli impegni finanziari derivanti da tali attività.”), ha rafforzato ulteriormente il controllo del Governo nazionale sulle singole operazioni poste in essere dagli Enti, assoggettandoli al rispetto delle modalità di redazione stabilite con apposito decreto ministeriale (“382. I contratti di cui al comma 381 devono recare le informazioni ed essere redatti secondo le indicazioni specificate in un decreto del Ministero dell’economia e delle finanze, da emanare sentite la CONSOB e la Banca d’Italia. Il Ministero dell’economia e delle finanze verifica la conformità dei contratti al decreto “) ed ha disciplinato le conseguenze di eventuali violazioni, sia in termini di responsabilità erariale, sia intervenendo sulla efficacia stessa dei contratti (“384. Il rispetto di quanto previsto ai commi 382 e 383 è elemento costitutivo dell’efficacia dei contratti. In caso di contratti stipulati in violazione di quanto previsto al comma 382 o al comma 383, viene data comunicazione alla Corte dei conti per l’adozione dei provvedimenti di competenza .”).
Quest’ultima disposizione assume un particolare rilievo ai fini della presente discussione, perché con essa il legislatore stabilisce per la prima volta un sistema di vasi comunicanti tra “diritto amministrativo” e “diritto privato”, ammettendo espressamente che il rispetto delle norme di diritto pubblico è condizione di efficacia dei contratti.
Sulla stessa linea si colloca il successivo intervento legislativo di cui all’art. 62 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, così come modificato dalla Legge di conversione 06.08.2008, n. 133 e poi successivamente sostituito dall’art. 3, comma 1, della Legge 22.12.2008, n. 203 (Finanziaria 2009): la nuova normativa, ribadita a rango di “principi fondamentali per il coordinamento della finanza pubblica e la tutela dell’unità economica della Repubblica” ai sensi degli artt. 117 e 119 della Costituzione e quindi “di applicazione necessaria” (comma 1), opera una ancora più marcata tipizzazione dei contratti suddetti sulla base di appositi regolamenti ministeriali (comma 3: “Il Ministro dell’economia e delle finanze, sentite la Banca d’Italia e la Commissione nazionale per le società e la borsa, con uno o più regolamenti da emanare ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988 n. 400, d’intesa, per i profili d’interesse regionale, con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, individua la tipologia dei contratti relativi agli strumenti finanziari derivati previsti all’articolo 1 comma 3, del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998 n. 58, che gli enti di cui al comma 2 possono concludere, e indica le componenti derivate, implicite o esplicite, che gli stessi enti hanno facoltà di prevedere nei contratti di finanziamento. Al fine di assicurare la massima trasparenza dei contratti relativi agli strumenti finanziari derivati nonché delle clausole relative alle predette componenti derivate, il medesimo regolamento individua altresì le informazioni, rese in lingua italiana, che gli stessi devono contenere.”), specifica le modalità per rendere effettivo il principio di trasparenza (comma 4: “Ai fini della conclusione di un contratto relativo a strumenti finanziari derivati o di un contratto di finanziamento che include una componente derivata, il soggetto competente alla sottoscrizione del contratto per l’ente pubblico attesta per iscritto di avere preso conoscenza dei rischi e delle caratteristiche dei medesimi.”), stabilisce una nuova (ed ancor più radicale) sanzione civilistica nel caso di stipula dei contratti in violazione delle norme di legge (comma 5: “Il contratto relativo a strumenti finanziari derivati o il contratto di finanziamento che include una componente derivata, stipulato dagli enti di cui al comma 2 in violazione delle disposizioni previste dal regolamento emanato in attuazione del comma 3 o privo dell’attestazione di cui al comma 4, è nullo. La nullità può essere fatta valere solo dall’ente.”) ed impone una moratoria sino alla emanazione dei regolamenti statali (comma 6: “Agli enti di cui al comma 2 è fatto divieto di stipulare, fino alla data di entrata in vigore del regolamento di cui al comma 3, e comunque per il periodo minimo di un anno decorrente dalla data di entrata in vigore del presente decreto, contratti relativi agli strumenti finanziari derivati. Resta ferma la possibilità di ristrutturare il contratto derivato a seguito di modifica della passività alla quale il medesimo contratto derivato è riferito, con la finalità di mantenere la corrispondenza tra la passività rinegoziata e la collegata operazione di copertura.”).
Di particolare rilievo (anche ai fini della comprensione della pronuncia delle Sezioni Unite n. 8770 del 2020) è, poi, il comma 9 dello stesso art. 62, che fornisce l’interpretazione autentica dell’up-front: << All'articolo 3, comma 17, secondo periodo, della legge 24 dicembre 2003 n. 350, dopo le parole: “cessioni di crediti vantati verso altre amministrazioni pubbliche” sono aggiunte le seguenti: “nonché, sulla base dei criteri definiti in sede europea dall'Ufficio statistico delle Comunità europee (EUROSTAT), l'eventuale premio incassato al momento del perfezionamento delle operazioni derivate. >>.
Le ratio sottesa a questa disciplina differenziata, appositamente coniata per gli Enti pubblici, è efficacemente descritta dalla Corte Costituzionale con la sentenza 18 febbraio 2010, n. 52 (giudizio di costituzionalità promosso da alcune Regioni in tema di riparto di competenze), che ha evidenziato la necessità del legislatore di tener conto << della spiccata aleatorietà delle negoziazioni aventi ad oggetto gli strumenti finanziari in esame, all'evidente scopo di evitare che possa essere messa in pericolo la disponibilità delle risorse finanziarie pubbliche utilizzabili dagli enti stessi per il raggiungimento di finalità di carattere appunto pubblico e, dunque, di generale interesse per la collettività >>.
D’altra parte, la finalità di protezione degli Enti è chiaramente evincibile dalla sanzione civilistica prevista in caso di violazione delle disposizioni di legge, che è “relativa”, potendo essere fatta valere soltanto dall’Ente.
Significativo è altresì il rilievo del Giudice costituzionale, secondo il quale la disciplina legislativa predetta << si collochi alla confluenza di un insieme di materie, quelle relative ai “mercati finanziari”, all'”ordinamento civile” ed al “coordinamento della finanza pubblica” >>.
Nel frattempo, sul fronte più spiccatamente privatistico, il decreto ministeriale 11 novembre 2011 n. 236 (emanato in attuazione all’art. 6 comma 2-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, come introdotto dal d.lgs. 17 settembre 2007, n. 164) ha definito ed individuato i “clienti professionali pubblici” ai fini degli ambiti di tutela previsti dal TUIF.
La parabola legislativa dei derivati pubblici si è, infine, conclusa con la legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità 2014), il cui art. 1, comma 572, nell’apportare sostanziali modifiche all’art. 62 della legge n. 112 del 2008, ha fatto divieto alle Regioni ed agli Enti locali di stipulare contratti di finanza derivata (comma 3), fatte salve alcune eccezioni (commi 3-bis, 3-ter e 3-quater), volte perlopiù a risolvere situazioni contrattuali pendenti.
Divieto ancora una volta assistito dalla sanzione civilistica della “nullità relativa” dei contratti stipulati in violazione delle disposizioni di legge, rilevabile soltanto dagli Enti (comma 5).
3. La tipizzazione dei contratti “derivati” degli Enti pubblici quale portato di una visione unitaria dell’ordinamento.
La pronuncia delle Sezioni Unite riguarda un caso di contratti derivati stipulati da un Ente locale prima dell’entrata in vigore delle varie norme di “contenimento” introdotte dal legislatore ed il suo iter motivazionale si sviluppa intorno all’unica disciplina ratione temporis applicabile, rappresentata essenzialmente dall’art. 41 della legge n. 448 del 2001 (finanziaria 2002)
Proprio per tale motivo, i principi affermati dalla S.C. assumono una particolare valenza di ordine sistematico, in quanto fondamentale momento di ripensamento o comunque di ricognizione dei rapporti tra “diritto amministrativo” e “diritto privato” dei contratti pubblici.
Quello che, invero, può essere subito notato è che l’intero scrutinio condotto dalla S.C. (cosi come d’altra parte, in precedenza, dalla Corte di Appello) sulla validità dei contratti è svolto assumendo come parametro di legalità fonti normative o comunque principi di diritto appartenenti a quella branca dell’ordinamento tradizionalmente definita di “diritto amministrativo”.
Ciò sul presupposto di una visione unitaria dell’ordinamento giuridico, in cui non vi è posto per una netta e rigida demarcazione tra i due rami dell’ordinamento.
Un tale modo di procedere può sembrare scontato, ma non lo è affatto.
Si consideri, invero, che in tutt’altra prospettiva si era mossa la sentenza di primo grado (poi riformata dalla Corte di Appello), secondo la quale la normativa generale sulla intermediazione finanziaria (d.lgs. 58 del 1998) sarebbe valsa ad attribuire a tutti gli “strumenti finanziari”, compreso quelli stipulati da Enti pubblici, un’autonomia funzionale dal punto di vista giuridico-economico, neppure minimamente intaccata dalle norme di rango pubblicistico [13].
Impostazione corretta dalla Corte d’Appello di Bologna, che, nel qualificare i contratti derivati sottoposti al suo esame, rimarcava che << non sussiste incompatibilità alcuna fra la normativa civilistica e quella amministrativa >> regolanti i derivati degli Enti pubblici, trattandosi di discipline destinate ad essere integrate reciprocamente.
L’idea sottesa è che la normativa privatistica e quella pubblicistica (utilizzando tali definizioni convenzionalmente, essendo noti i limiti descrittivi della distinzione) non sono monadi a sé stanti, ma operano in una logica di vasi comunicanti ed il fatto che i contratti derivati (nelle loro molteplici varianti) siano contemplati – e per certi aspetti disciplinati – dal D.Lgs. n. 58 del 1998 in materia di intermediazione finanziaria, non significa che essi non soggiacciano contemporaneamente alla concorrente disciplina di rango pubblicistico.
Ne vale la qualificazione giuridica dei suddetti contratti.
Invero, se il processo di qualificazione negoziale serve ad identificare il modello legale astratto di un contratto nel quale inquadrare quello in concreto stipulato, nella fattispecie dei derivati stipulati dagli Enti pubblici l’individuazione di tale modello deve considerare anche l’esistenza della normativa speciale di rango pubblicistico, attingendo ad entrambe le fonti dell’ordinamento (quelle per così dire privatistiche e quelle pubblicistiche).
Con la conclusione che i contratti derivati degli Enti Pubblici sono (a differenza di quelli tra privati) “contratti tipici”, la cui disciplina è contenuta in un corpus normativo composto in parte dalla normativa sulla intermediazione finanziaria ed in parte dalla disciplina pubblicistica avente carattere “speciale” (in quanto destinata a disciplinare l’attività contrattuale delle Pubblica amministrazione) e di sempre più marcata pervasività (in quanto destinata a disciplinare molteplici aspetti della suddetta attività contrattuale).
Conclusione pienamente accolta dalle Sezioni Unite, per le quali << .. bisogna concludere che le disposizioni normative passate in rassegna, che tali possibilità prevedevano, consentivano solo ciò che, normalmente, sarebbe stato vietato, con la conseguenza che dette previsioni erano anzitutto di natura eccezionale e di stretta interpretazione, avendo reso i derivati stipulati dalle pubbliche amministrazioni come contratti tipici, diversamente da quelli innominati conclusi dai privati (per quanto appartenenti all’amplissimo e medesimo genus). >>.
Il concetto è denso di implicazioni giuridiche, se si considerino i corollari derivanti dal controllo di conformità del contratto stipulato rispetto al modello legale tipico di riferimento, avuto riguardo ai suoi elementi essenziali.
4. La “causa” tipica dei “derivati” degli Enti pubblici.
L’art. 41 della legge n. 448 del 2001 e le fondamentali regole di contabilità pubblica ci dicono che la “causa” tipica dei “derivati” degli Enti pubblici non può che essere di “copertura” del rischio finanziario derivante da un sottostante debito, mentre non vi è spazio per “derivati speculativi” [14].
Ciò si ricava – per le Sezioni Unite – già dall’art. 119, commi 4 e 6, della Costituzione, che enuncia il vincolo dell’equilibrio finanziario e la necessaria finalizzazione dell’indebitamento a spese di investimento, ma, più in generale, dalle “regole relative alla contabilità pubblica”, rispetto alle quali si rileva incompatibile l’aleatorietà elevata a “scommessa”.
E’ in gioco la legittimazione negoziale della Pubblica amministrazione [15].
La Corte sembra, in tal modo, evocare la teoria del c.d. “limite di scopo”, espressione della necessaria funzionalizzazione dell’attività contrattuale della P.A., tale per cui essa non può porre in essere negozi che contrastino – o non si pongano in rapporto di strumentalità – con i propri compiti istituzionali, così come determinati dalla legge [16].
5. L’”oggetto” tipico dei “derivati” degli Enti pubblici.
La tipicità dei derivati pubblici si riflette inevitabilmente anche sull’”oggetto” di tali contratti, ovvero sul loro contenuto, perché soltanto indicando << la misura dell’alea, calcolata secondo criteri riconosciuti ed oggettivamente condivisi >>, essi possono soddisfare i requisiti di determinazione o di determinabilità di cui all’art. 1346 Cod. Civ..
Peraltro, la tematica dell’oggetto contrattuale è strettamente interconnessa con quella della sua causa tipica, atteso che è soltanto attraverso un’adeguata rappresentazione nel contratto di determinati elementi contenutistici che è possibile verificare in concreto la funzione economico-sociale da esso svolta [17].
Sul punto, la pronuncia delle Sezioni Unite contiene pagine destinate a rappresentare un fondamentale punto di riferimento non soltanto per i “derivati” pubblici, ma anche per quelli sottoscritti dai privati (i quali, a differenza dei primi, sono legittimati a stipulare anche “derivati” con finalità speculativa).
Il principio affermato dalla S.C. è il seguente: << 9.2. E tale accordo sulla misurabilità/determinazione dell’oggetto non deve limitarsi al criterio del mark to market, ma investire, altresì, gli scenari probabilistici, poichè il primo è semplicemente un numero che comunica poco in ordine alla consistenza dell’alea. Esso deve concernere la misura qualitativa e quantitativa dell’alea e, dunque, la stessa misura dei costi, pur se impliciti. >> [18].
La ragione è presto detta: << 9.3. Infatti, l’importanza dei menzionati parametri di calcolo consegue alla circostanza che tramite essi si può realizzare la funzione di gestione del rischio finanziario, con la particolarità che il parametro scelto assume alla scadenza l’effetto di una molteplicità di variabili. >>.
In altri termini, non può esservi neppure la possibilità di una corretta gestione del rischio finanziario senza un’adeguata rappresentazione nel “derivato” dell’alea contrattuale, perché solo così l’operazione può dirsi una “scommessa razionale”.
Come detto, il principio affermato dalla S.C. trascende la questione dei “derivati” pubblici, riguardando anche quelli stipulati da privati, anche perché connessa con gli obblighi informativi imposti all’intermediario finanziario dal TUIF.
Ma, per quanto qui interessa, esso vale, a maggior ragione, per i “derivati” degli Enti pubblici, per i quali la finalità di copertura del rischio finanziario può dirsi in concreto sussistere << .. solo in presenza di una precisa misurabilità/determinazione dell’oggetto contrattuale, comprensiva sia del criterio del mark to market sia degli scenari probabilistici, sia dei cd. costi occulti, allo scopo di ridurre al minimo e di rendere consapevole l’ente di ogni aspetto di aleatorietà del rapporto .. >> (punto 9.8. della sentenza).
Tanto è bastato alla S.C. per confermare la nullità dei contratti stipulati dal Comune.
5.1. Il collegamento negoziale tra i “derivati” ed i rapporti debitori sottostanti.
La tematica dei requisiti di determinazione / determinabilità dell’oggetto dei contratti “derivati” pubblici involge anche un’ulteriore questione, sulla quale le Sezioni Unite hanno ritenuto di non soffermarsi, ritenendola probabilmente assorbita dai restanti punti della decisione [19].
Essa concerne il rapporto tra il “derivato” ed i rapporti debitori sottostanti.
Sono, invero, assai diffusi nella prassi contrattuale modelli che richiamano soltanto genericamente i rapporti debitori sottostanti (swappati), limitandosi ad indicare il “capitale nozionale” [20].
Ma se i “derivati” pubblici possono essere unicamente “derivati” di copertura, è ragionevole chiedersi se i rapporti debitori sottostanti non debbano essere analiticamente indicati dalle parti ed entrare a pieno titolo nell’”oggetto” del contratto.
Invero, il “collegamento negoziale” del “derivato” con i rapporti debitori sottostanti è, a ben vedere, affermato già dall’art. 41 della legge n. 448 del 2001 ed ha comunque trovato ulteriore esplicitazione con l’art. 3, comma 3, del d.m. n. 389 del 2003, nella parte in cui ha precisato che “Le operazioni derivate sopra menzionate sono consentite esclusivamente in corrispondenza di passività effettivamente dovute …”, chiarendo altresì che le “altre operazioni derivate finalizzate alla ristrutturazione del debito” sono consentite “solo qualora non prevedano una scadenza posteriore a quella associata alla sottostante passività” [21].
Pur non soffermandosi sul punto, anche le Sezioni Unite riconoscono la sussistenza di un << collegamento negoziale ex lege >> tra il “derivato” ed i rapporti debitori sottostanti (punto 10.4.2. della sentenza).
La rilevanza del suddetto “collegamento negoziale” è tale da potersi sostenere che la mancata indicazione del rapporto debitorio sottostante priva l’operazione di un elemento necessario ed essenziale del suo contenuto ai sensi dell’art. 1346 cod. civ., atteso che solo con l’esatta individuazione dei debiti swappati e delle loro caratteristiche è possibile verificare l’effettiva corrispondenza del “derivato” con la durata dei rapporti sottostanti e, quindi in definitiva, la sua finalità di copertura [22].
D’altra parte, la rilevanza del suddetto collegamento negoziale sul piano della “causa” dei “derivati” pubblici è stato da tempo adeguatamente evidenziato dalla dottrina [23] e dalla stessa giurisprudenza contabile [24] ed esso non può non riverberarsi anche sul piano del contenuto contrattuale, stante che il rapporto debitorio sottostante rappresenta la base della negoziazione e la valutazione della convenienza economica dell’operazione presuppone evidentemente la stima dei costi dell’indebitamento da ristrutturare.
E’ pertanto necessario che i contratti “derivati” stipulati dagli Enti pubblici indichino puntualmente ed analiticamente i singoli finanziamenti swappati e le loro principali caratteristiche (soggetto finanziatore, importo, tipo di tasso, durata, modalità di pagamento, ecc.), perché solo in questo modo è possibile verificare la dovuta “corrispondenza con le passività effettivamente dovute”, anche in termini di durata delle rispettive operazioni.
Diversamente opinando, detta “corrispondenza” diventerebbe un dato meramente virtuale, in quanto il “derivato” finirebbe per garantire un rischio finanziario che, in concreto, potrebbe non esistere affatto.
Invero, quando il c.d. “nozionale” ha carattere fittizio e non corrisponde alla realtà dei rapporti debitori sottostanti, il “derivato” non può che assumere i tratti di una pura “scommessa” [25].
Detta interdipendenza funzionale tra il derivato ed i rapporti debitori sottostanti è di tale rilievo da incidere anche sulle vicende successive alla stipula del contratto, in quanto il venir meno (per qualsiasi motivo) dei secondi fa venir meno la funzione economico-sociale del primo, rendendolo privo di causa [26].
6. La clausola di up front e la nozione di “indebitamento”.
La prima “questione di particolare importanza” posta dalla 1^ Sezione della Cassazione con l’ordinanza di rimessione riguardava la peculiarità dei “derivati” pubblici contenenti clausole di up-front (o, con formula equivoca utilizzata nella prassi contrattuale, c.d. sconto o premio di liquidità), prevedenti il pagamento di somma da parte di uno dei due contraenti (in genere la banca) a beneficio dell’altro al momento della stipula del “derivato”.
Come ricordato dalla sezione, trattasi di una clausola molto diffusa nella prassi, la cui esistenza non inficia di per sé la validità del “derivato”, visto che la sua funzione può essere (o dovrebbe essere) quella di riequilibrare il valore di partenza dello strumento finanziario quando esso non è pari a zero (c.d. contratti non par), compensando la parte che accetta condizioni più penalizzanti.
La sua validità (e di quella del “derivato” cui inerisce) va , quindi, verificata caso per caso, nel concreto assetto del rapporto negoziale predisposto dalle parti [27].
Nei “derivati” degli Enti pubblici (ed in particolare degli Enti territoriali) tale clausola assume, però, una specifica valenza, potendo assumere i tratti di un vero e proprio “finanziamento” dell’Ente e quindi di un suo “indebitamento”, con rilevanti conseguenze in ordine alla disciplina (pubblicistica) applicabile.
Invero, proprio nel caso definito dalle Sezioni Unite, l’Ente aveva sin dall’inizio sostenuto che i rilevanti up-front (previsti nei due contratti conclusi nel 2003) erano sostanzialmente assimilabili ad un vero e proprio “finanziamento”, sì che costituivano un elemento di fondamentale importanza del programma contrattuale stabilito dalle parti, capace di entrare nella “causa” del contratto e quindi in grado di influire sulla sua qualificazione giuridica e sulla disciplina ad esso applicabile, sia sul piano sostanziale, che su quello procedimentale [28].
In corso di causa era, poi, intervenuto l’art. 62 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, modificato in sede di conversione dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 e poi successivamente sostituito dall’art. 3 della legge 22 dicembre 2008, n. 203 (Finanziaria 2009), il cui comma 9 aveva chiarito che “sulla base dei criteri definiti in sede europea dall’Ufficio statistico delle Comunità europee (EUROSTAT), l’eventuale premio incassato al momento del perfezionamento delle operazioni derivate” costituisce “indebitamento” dell’Ente [29].
Di talchè la Sezione rimettente della Corte di Cassazione, dopo avere dato atto della problematica [30], si era chiesta se << lo swap, in particolare quello che preveda un upfront – e non sia disciplinato ratione temporis dalla L. n. 133 del 2008, di conversione del D.L. n. 112 del 2008 -, costituisca per l’ente locale un’operazione che generi un indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento, a norma della L. n. 289 del 2002, art. 30, comma 15 >>.
Nel risolvere la questione, le Sezioni Unite non hanno esitato ad affermare che clausole siffatte valgono a qualificare le somme percepite dall’Ente come “finanziamento” (punto 10.1.2. della sentenza), con la conseguenza che l’intera operazione del “derivato”, che << va guardata nel suo complesso >>, può tradursi sostanzialmente in un “indebitamento” (punto 10.1.4. della sentenza).
E ciò vale anche per il periodo antecedente l’entrata in vigore della legge n. 133 del 2008, atteso che quest’ultima ha << preso atto della natura di indebitamento di quanto conseguito con l’upfront, senza innovare l’ordinamento. >> (punto 10.1.3. della sentenza), consacrando un assetto definitorio già enucleabile dal sistema [31].
Ancora una volta merita di essere segnalato che l’operazione di qualificazione / tipizzazione negoziale dei “derivati” pubblici è condotta dalle Sezioni Unite sul presupposto della naturale osmosi tra “diritto amministrativo” e “diritto privato”, attingendo dalle nozioni di “finanziamento” e di “indebitamento” assunte dalla normativa pubblicistica, che concorrono a disciplinare l’istituto contrattuale.
In questa prospettiva, è evidente, invero, che la nozione di “indebitamento” dell’Ente pubblico non può essere tratta o desunta dal Codice civile, poichè lì è utilizzata a tutt’altri fini.
La nozione è piuttosto il frutto dell’elaborazione della scienza delle finanze ed è giocoforza destinata ad assumere rilevanza nella qualificazione giuridica dei contratti della Pubblica amministrazione.
Sotto questo profilo, precipua rilievo assumono i riflessi che le operazioni contrattuali comportano sulla situazione economico-finanziaria dell’Ente, di talchè costituiscono “indebitamento” tutte quelle attività di reperimento di risorse finanziarie che concorrono, effettivamente od anche potenzialmente, a determinare il “disavanzo” dell’Ente.
Posta tale premessa metodologica, l’esito qualificatorio cui pervengono le Sezioni Unite ne costituisce il logico corollario.
La clausola di up-front può assumere, invero, diverse finalità, a seconda che si tratti della stipula ex novo di un contratto derivato o della rinegoziazione di uno precedente, ma in entrambi i casi espone l’Ente ad un potenziale “indebitamento”.
6.1. La clausola di up front in un nuovo contratto “derivato”.
In caso di stipula ex novo di un contratto derivato, l’up-front (che rappresenta una somma determinata e certa, che viene corrisposta immediatamente dall’intermediario all’Ente) rappresenta la contropartita di un peggioramento (implicito) delle condizioni di equilibrio del contratto, che quindi costituisce il mezzo occulto attraverso il quale il finanziamento viene restituito [32].
Né può valere l’obiezione secondo la quale, a fronte della corresponsione dell’up-front, non sarebbe prevista alcuna forma di rimborso (a differenza di un mutuo), atteso che l’”indebitamento” si sostanzia e si concretizza, ad ogni scadenza periodica del tasso, nella differenza tra le condizioni applicate e quelle che la Banca avrebbe applicato in assenza del c.d. “premio di liquidità”.
Non può confondersi, invero, la mancata esplicitazione nel contratto del meccanismo di rimborso (causato dal deficit di informazione da parte dell’intermediario) con l’inesistenza dello stesso: l’up-front corrisposto dalla banca in effetti è sempre pagato (rectius: rimborsato) dall’Ente, ancorchè in modo occulto [33] .
Questi peculiari aspetti legati alle clausole di up-front sono ben noti al Giudice contabile, secondo il quale operazioni siffatte sono sostanzialmente analoghe a quelle di un mutuo [34].
6.2. La clausola di up front in un contratto di “rinegoziazione” di un “derivato” esistente.
Le medesime conclusioni valgono per la “rinegoziazione” dei “derivati” già esistenti, laddove questi ultimi vengano in tutto o in parte estinti mediante attualizzazione del loro valore di mercato (mark to market), (peraltro unilateralmente determinato dalla banca) e la contestuale previsione di un up-front destinato ad essere utilizzato, in tutto o in parte, per coprire il “costo di sostituzione” della prima operazione estinta.
E’ infatti evidente che queste “rinegoziazioni” finiscono spesso per servire proprio per “finanziare” le perdite del primo, la cui chiusura anticipata consolida definitivamente.
In disparte la problematica della effettiva corrispondenza della “rinegoziazione” alla funzione di copertura del rischio che per legge i derivati degli Enti pubblici devono necessariamente avere [35], ciò che è certo è che il c.d. “premio di liquidità” previsto con la “rinegoziazione” di precedenti contratti non può essere considerato un semplice anticipo dei futuri ed eventuali flussi finanziari del contratto estinto, ma rappresenta (in tutto o in parte) il valore negativo di quest’ultimo al momento della sua conclusione, di talchè è innegabile la sua natura di “finanziamento” e di “indebitamento” dell’Ente [36].
6.3. Conseguenze della qualificazione dell’up-front come clausola di “finanziamento”: la nullità del “derivato” per violazione dell’art. 119 Cost., dell’art. 202 d.lgs. n. 267 del 2000 e dell’art. 30, co. 15, legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Legge finanziaria 2003).
La qualificazione dell’up-front come clausola di “finanziamento” incide sulla disciplina legale applicabile al “derivato” e sul giudizio di conformità al modello legale previsto da legislatore, sia sul piano sostanziale, che su quello procedimentale.
Di questo secondo profilo si dirà successivamente, in quanto affrontato dalle Sezioni Unite con uno sguardo di carattere più generale comprensivo anche dei “derivati” che non contemplano clausole di up-front.
Quanto al primo profilo, esso merita qualche considerazione, soprattutto perché rimasto in controluce nella sentenza delle Sezioni Unite.
Va premesso che la sentenza di merito giunta al vaglio della S.C., dopo avere appurato che le somme introitate a titolo di up-front avevano, in effetti, generato un “indebitamento” per l’Ente, aveva altresì accertato la mancata previsione (nei contratti e negli atti amministrativi propedeutici) della destinazione di tali somme a spese di “investimento”, traendone un ulteriore motivo di nullità negoziale per violazione di norme imperative di legge.
Il riferimento è, anzitutto, all’art. 119, ultimo comma, della Costituzione (nella formulazione risultante dalla riforma di cui alla legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3) che, nel prevedere che gli Enti locali “Possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento”, ha elevato a rango costituzionale un principio già previsto dall’art. 202 d.lgs. n. 267 del 2000 (“Il ricorso all’indebitamento da parte degli enti locali è ammesso esclusivamente nelle forme previste dalle leggi vigenti in materia e per la realizzazione degli investimenti.”).
L’art. 30, comma 15, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge Finanziaria 2003) ha poi stabilito le conseguenze della violazione del suddetto precetto, prevedendo che “Qualora gli enti territoriali ricorrano all’indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento, in violazione dell’articolo 119 della Costituzione, i relativi atti e contratti sono nulli. Le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti possono irrogare agli amministratori, che hanno assunto la relativa delibera, la condanna ad una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte l’indennità di carica percepita al momento di commissione della violazione.“.
La norma ha superato il vaglio di legittimità costituzionale della Consulta [37].
Il Giudice contabile se ne è occupato più volte facendone applicazione con riferimento alle sanzioni “personali” contemplate nel secondo capoverso della norma, rimesse espressamente alla sua giurisdizione.
Ha, invece, ben pochi precedenti l’applicazione delle sanzioni “oggettive” di nullità degli atti amministrativi e dei contratti, stante l’incertezza interpretativa sorta in merito alla particolare natura delle stesse.
Un parziale chiarimento è venuto dalle Sezioni Riunite della Corte dei Conti in sede giurisdizionale (sentenza n. 12 del 27 dicembre 2007), che ha, tra l’altro, precisato: a) che la norma prevede due distinte reazioni alla violazione del divieto costituzionale, la prima “oggettiva” consistente nella comminatoria di “nullità” degli atti e dei contratti di finanziamento e la seconda “personale” pecuniaria a carico dei trasgressori; b) che la sanzione della “nullità” va intesa nel senso suo proprio, quale inefficacia ed improduttività di effetti ex tunc sia della delibera di ricorso all’indebitamento, sia del contratto stipulato con l’ente erogatore del finanziamento; c) che le suddette due reazioni (sanzione oggettiva e sanzione personale) sono << strettamente correlate l'una all'altra, tanto che la sanzione pecuniaria sembra configurarsi quale conseguenza ulteriore rispetto alla nullità degli atti >>.
Le Sezioni Riunite della Corte dei conti non si sono, invece, espresse sulla questione della giurisdizione, non chiarendo quale sia l’organo giurisdizionale chiamato ad accertare e dichiarare la nullità degli atti amministrativi e dei contratti in caso di violazione del precetto costituzionale.
Sul punto esistono alcuni sporadici precedenti del Giudice contabile, che in qualche occasione si è spinto sino al punto di ritenere la propria giurisdizione anche sulla applicazione delle sanzioni c.d. “oggettive”, così dichiarando la nullità parziale degli atti amministrativi con cui un Comune aveva deliberato di assumere finanziamenti da destinare a spese diverse da quelle di investimento, nonché i “conseguenti atti negoziali” [38].
Ma si tratta di precedenti isolati che si prestano a forti obiezioni, in quanto in palese contrasto con l’assetto costituzionale del riparto di giurisdizione.
Va, infatti, ricordato che ai sensi dell’art. 103, comma 2, della Costituzione, “La Corte dei Conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge” e poiché è assai improbabile ricondurre lo scrutinio di validità di un contratto (per quanto della P.A.) nell’ambito delle “materie di contabilità pubblica” (anche alla stregua di una moderna concezione della giurisdizione contabile ancorata al concetto oggettivo di “finanza pubblica”), la giurisdizione del Giudice contabile sul punto richiederebbe una interpositio legislatoris che nel caso di specie manca, visto che l’art. 30, comma 15, della legge 289/2002 attribuisce letteralmente alle “sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti” soltanto l’applicazione delle sanzioni personali (di cui al secondo capoverso).
Discorso analogo riguarda l’accertamento di nullità dell’atto amministrativo, atteso che l’art. 113, comma 1, Cost. assegna la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi contro gli atti della P.A. “agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa” e il successivo comma 3 sancisce che “La Legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa.”.
Né dette giurisdizioni potrebbe sostenersi in considerazione di una qualche interferenza con le materie assegnate, stante il noto principio di inderogabilità della giurisdizione per ragioni di connessione.
Aggiungasi che il processo contabile mal si presterebbe alla tutela dei diritti soggettivi di cui l’erogatore del contratto di “finanziamento” è titolare, che non potrebbe trovare adeguata tutela nell’ambito di un processo (come quello contabile) strutturato secondo un modello inquisitorio, contraddistinto da una asimmetria processuale tra le parti ed in cui è completamente assente il contraddittorio nella fase istruttoria [39].
Deve, pertanto, concludersi che il sindacato sulla nullità dell’atto amministrativo e del contratto per violazione dell’art. 30, comma 15, l. 289 del 2002 segua le ordinarie regole di riparto della giurisdizione e che, per quel che riguarda in particolare il contratto, vada riconosciuta la giurisdizione del Giudice Ordinario, a cui di regola è attribuita la cognizione sulle posizioni di diritto soggettivo.
In questa direzione si è, infine, orientato lo stesso Giudice contabile, che si è dichiarato privo del potere di ius dicere sulla declaratoria di nullità del contratto ex art. 30, comma 15, l. 289 del 2002, rimessa alla giurisdizione del Giudice Ordinario [40].
La Corte d’Appello di Bologna, con la sentenza n. 734 del 2014, ha confermato questa linea in punto di giurisdizione, pervenendo per la prima volta ad una declaratoria, in sede civile, della nullità di contratti stipulati da una Pubblica amministrazione per violazione delle norme sopra menzionate.
La sentenza precisa anche che la sanzione “oggettiva” di nullità non è collegata al “fatto” della errata imputazione a bilancio delle somme introitate o dell’errato impiego delle stesse da parte dell’Amministrazione (comportamenti rimessi all’esclusiva responsabilità di quest’ultima ed estranei alla sfera di dominio della controparte contrattuale, se non altro perchè successivi alla stipula), ma al dato giuridico della mancanza di previsione del vincolo di destinazione delle somme negli atti amministrativi propedeutici alla stipula e nei contratti stessi, intendendo perciò detta previsione come requisito contenutistico essenziale di tali atti [41].
Anche questa parte della sentenza ha formato oggetto del giudizio giunto alla decisione delle Sezioni Unite, che hanno respinto il relativo motivo di ricorso della banca, con ciò confermando, ancora una volta, la vis expansiva delle regole di contabilità pubblica quale parametro di liceità dei contratti della Pubblica amministrazione.
7. Il procedimento tipico per la stipula dei “derivati” pubblici e le conseguenze sul contratto della violazione delle regole procedimentali.
7.1. Competenza.
La seconda “questione di particolare importanza” posta dalla 1^ Sezione della Cassazione con l’ordinanza di rimessione riguardava la competenza, all’interno dell’Ente, ad adottare la delibera a contrattare il “derivato”.
Sul punto le Sezioni Unite, nel confermare la sentenza di merito, hanno espresso la seguente regula iuris: << l’autorizzazione alla conclusione di un contratto di swap da parte dei Comuni italiani, specie se del tipo con finanziamento upfront, ma anche in tutti quei casi in cui la sua negoziazione si traduce comunque nell’estinzione dei precedenti rapporti di mutuo sottostanti ovvero anche nel loro mantenimento in vita, ma con rilevanti modificazioni, deve essere data, a pena di nullità, dal Consiglio comunale ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. i), TUEL di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000 (laddove stabilisce che “Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: (…) “spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi (…)”); non potendosi assimilare ad un semplice atto di gestione dell’indebitamento dell’ente locale con finalità di riduzione degli oneri finanziari ad esso inerenti, adottabile dalla giunta comunale in virtù della sua residuale competenza gestoria ex art. 48, comma 2, stesso Testo Unico. >>.
Secondo la S.C., quindi, la competenza ad adottare la delibera a contrattare il “derivato” è del Consiglio comunale quantomeno in due casi: a) quando esso contiene l’up front; b) quando esso incide (estinguendolo o modificandolo in modo rilevante) sui rapporti debitori sottostanti (mutui).
In entrambi i casi, la fonte della competenza consiliare è rinvenuta nell’art. 42, comma 2, lett. i) del t.u.e.l., che prevede tra gli “atti fondamentali” del Consiglio le “spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi …”.
In tal modo, le Sezioni Unite si sono allineate alla posizione espressa dal Giudice contabile in sede consultiva [42], nonché all’avviso della giurisprudenza amministrativa, secondo la quale la norma predetta va letta nel senso della attribuzione al Consiglio comunale della competenza per tutti gli atti che concernono i più rilevanti aspetti economico-finanziari dell’ente locale [43].
Ciò è il portato della logica degli assetti delle competenze istituzionali all’interno dell’Ente, atteso che i “derivati”, in quanto operazioni di durata, comportano impegni finanziari così rilevanti per l’Ente da avere ricadute negative sulla gestione dei suoi bilanci per molti anni: conseguentemente, un ruolo centrale non può che essere riservato al Consiglio comunale che, quale organo esponenziale della popolazione di riferimento dell’Ente, è l’unico soggetto che può valutare l’opportunità di porre vincoli all’utilizzo delle risorse future [44].
D’altra parte, – e con specifico riferimento ai “derivati” contenenti clausole di up-front – la competenza consiliare si desume anche dal combinato disposto di cui agli artt. 42 e 203 del t.u.e.l., per i quali il ricorso all'”indebitamento” (e quindi non soltanto dei mutui) va deliberato dall’organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo dell’Ente secondo determinate modalità procedimentali (presupponendo l’avvenuta deliberazione del bilancio annuale nel quale sono contenute le relative previsioni).
Rappresentando l’atto consiliare la deliberazione a contrattare (secondi i dettami stabiliti dall’art. 192, comma 1, del d.lgs. 267 del t.u.e.l.), avente la funzione di autorizzare l’operazione contrattuale avuto riguardo a tutte le sue componenti essenziali, essa deve necessariamente indicare: “a) il fine che il contratto intende perseguire; b) l’oggetto del contratto, la sua forma e le clausole ritenute essenziali; c) le modalità di scelta del contraente ammesse dalle disposizioni vigenti in materia di contratti delle pubbliche amministrazioni e le ragioni che sono alla base.”.
Non è, pertanto, sufficiente che il Consiglio comunale esprima genericamente una “linea di indirizzo” a stipulare strumenti di finanza derivata nell’interesse dell’Ente, dando generico mandato alla Giunta o ai Dirigenti (come era avvenuto nel caso sottoposto alla S.C.), occorrendo una ponderata valutazione di tutte le componenti essenziali dell’operazione.
7.2. Procedura di selezione dell’intermediario finanziario.
Vi è un’ulteriore affermazione di notevole rilievo nella pronuncia delle Sezioni Unite (che per vero non era stata neppure oggetto di discussione nei tre gradi di giudizio) che la Corte ha ritenuto di esprimere nel contesto generale della trattazione della tematica dei “derivati” pubblici.
Essa attiene alle modalità di selezione dell’intermediario finanziario.
E’ noto, invero, che la stipula degli strumenti finanziari da parte delle Pubbliche amministrazioni beneficia, da sempre, di un’area di esenzione dalle procedure di evidenza pubblica [45], ritenendosi tradizionalmente che la negoziazione di tali contratti debba e possa legarsi al particolare giudizio di affidabilità e di solidità del singolo intermediario [46].
Vero è che escludere i “derivati” dall’applicazione delle norme del Codice dei contratti non equivale ad escluderli dall’applicazione dei principi generali dell’azione amministrativa e della contabilità pubblica.
E su questo punto le Sezioni Unite introducono un elemento fortemente innovativo, affermando che << 10.4.1. L'organo consiliare deve valutare la convenienza di operazioni che porranno vincoli all'utilizzo di risorse future, precisando che l'attività negoziale dell'ente territoriale deve avvenire secondo le regole della contabilità pubblica che disciplinano lo svolgimento dei compiti propri dell'ente che utilizza risorse della collettività. Pertanto, ove il Comune intenda procedere ad un'operazione di ristrutturazione del debito, deve individuare le principali caratteristiche e le modalità attuative di essa e, poi, selezionare con una gara la migliore offerta in relazione non solo allo scopo che mira a raggiungere, ma anche alle modalità che vuole seguire, dovendo la P.A. conformare la sua azione ai principi di economicità e convenienza economica. >>.
Il richiamo alla procedura di gara in omaggio al principio di economicità (e di imparzialità e di buon andamento) si pone in evidente rottura con la diffusa prassi (seguita da gran parte delle Amministrazioni negli anni passati) di negoziare direttamente e “fiduciariamente” con il singolo intermediario finanziario l’operazione in “derivati” e ciò comporta evidenti ripercussioni anche sul piano della validità contrattuale.
7.3. Conseguenze della violazione delle norme di procedura sulla validità dei contratti “derivati”.
Quello dei rapporti tra gli atti propedeutici alla stipula dei contratti della P.A. ed i contratti stessi è, come noto, un tema molto dibattuto anche nell’ambito della stessa giurisprudenza di legittimità, nell’ambito della quale sono emerse diverse opzioni ermeneutiche nel corso del tempo.
La questione si riproponeva, quindi, anche nel caso di specie, in cui i “derivati” non erano stati preceduti da una delibera a contrattare dell’organo competente (Consiglio comunale).
Secondo l’indirizzo più tradizionale, la mancanza – o la sussistenza di un vizio radicale – dell’atto autorizzatorio a contrattare integra una causa di annullabilità del negozio ex artt. 1425 o 1427 cod. civ., sul rilievo che le norme che regolano le procedure ad evidenza pubblica servono a consentire la corretta formazione della volontà del contraente pubblico, di talchè la loro violazione costituisce un vizio del consenso della P.A. o comunque ne rivela l’incapacità a contrarre [47]: a sostegno di questa tesi, si afferma che gli atti della procedura di formazione della volontà dell’Amministrazione (che culminano con la deliberazione a contrattare) costituiscono requisiti che attengono ad una fase temporale relativa alla “conclusione del contratto”, trattandosi di requisiti di “legittimazione a contrattare” della P.A. stipulante, oppure requisiti che attengono alla sua “capacità” e “volontà negoziale” [48].
Per contro, secondo altro e altrettanto tradizionale indirizzo, il contratto concluso dal legale rappresentante dell’Ente in assenza del necessario atto deliberativo dell’organo competente, o preceduto da un atto radicalmente viziato, sarebbe da assimilare al negozio concluso dal falsus procurator ai sensi e per gli effetti dell’art. 1398 cod. civ., con conseguente sua inefficacia sino all’eventuale ratifica del dominus [49].
Infine, secondo il più convincente orientamento della giurisprudenza amministrativa e civile, la totale mancanza dell’atto o la sussistenza di un vizio radicale viene ad integrare una causa di nullità assoluta del contratto per difetto del requisito dell’accordo delle parti ex art. 1325 n. 1 e 1418 cod. civ. [50] o per violazione di norme imperative, attesa la natura inderogabile delle disposizioni che regolano la procedura di evidenza pubblica ed il processo di formazione della volontà negoziale della P.A.[51].
Nel solco di quest’ultimo orientamento, si è anche parlato di inefficacia originaria del contratto, con risultati pratici pressoché equivalenti [52].
E’, poi, di rilievo il fatto che la radicale sanzione civilistica della nullità in caso di mancanza o di nullità della delibera a contrattare riguarda tutti i contratti della Pubblica amministrazione, anche se di natura strettamente privatistica, perchè è, anzi, proprio in tali ipotesi che l’Amministrazione, non potendo contare sull’autotutela amministrativa, deve essere messa in grado di avvalersi degli ordinari rimedi civilistici per sottrarsi all’adempimento di obbligazioni invalidamente assunte [53].
Le Sezioni Unite, consacrando quest’ultimo più recente indirizzo, dopo avere accertato la mancanza della preventiva deliberazione a contrattare da parte dell’organo competente, ha dichiarato i contratti derivati stipulati dal Comune radicalmente nulli (vedi punti 10.6. e 10.8. della sentenza).
8. Autonomia negoziale della Pubblica amministrazione e principio di legalità: considerazioni finali.
Le questioni involte in questa importante pronuncia delle Sezioni Unite sollecitano alcune considerazioni di carattere più generale sull’attuale stato dei rapporti tra autonomia negoziale della Pubblica amministrazione e principio di legalità.
Il tema è, ovviamente, di respiro tale da non poter essere trattato in queste poche righe conclusive, ma merita comunque un cenno, perché l’occasione è particolarmente significativa, in considerazione dell’operazione di qualificazione / tipizzazione dei “derivati” pubblici condotta dalla S.C. sul filo del “vincolo di scopo” immanente all’azione della Pubblica amministrazione e delle acclarate interferenze tra il modello procedimentale amministrativo “tipico” ed i profili di patologia negoziale dei contratti.
Sotto questo profilo, la sentenza conferma il convincimento, per vero prevalente in dottrina e pienamente condiviso dalla giurisprudenza, che il principio di legalità pervade necessariamente l’intero raggio dell’azione amministrativa, a prescindere dalla natura giuridica dell’attività esercitata dalla Pubblica amministrazione, governando tanto l’attività c.d. provvedimentale, quanto quella paritetica ed in specie contrattuale, atteso che irrinunciabile è il duplice “vincolo di scopo” e “di mezzi” cui essa è ontologicamente astretta [54].
Elemento comune ed imprescindibile di tutta l’attività posta in essere dalla Pubblica amministrazione e che la contraddistingue da quella dei privati, governata dal principio di libertà, con il solo limite della liceità.
Ed è interessante notare come la S.C. confermi che il limite della legalità è destinato ad operare (ed a soccorrere) non soltanto, ovviamente, nei casi in cui il legislatore appronti una dettagliata disciplina del suo agire, ma soprattutto quando si tratti di trarre dal sistema, in via interpretativa, il principio guida che indirizza l’azione amministrativa [55].
Detto “vincolo di scopo” si staglia nitido allorché la S.C., mediante un’operazione ermeneutica volta a ricomporre l’ordinamento ad unum al di là della provenienza (pubblica o privata) delle fonti normative, perviene alla conclusione che il “derivato” pubblico non può che avere una “finalità di copertura” di un debito preesistente e giammai una “finalità speculativa”.
Invero, tale “vincolo di scopo” è talmente essenziale ed immanente nell’operato degli Enti pubblici – e quindi anche nell’attività contrattuale – da incidere sulla loro “legittimazione negoziale”.
Vero è che l’asserzione non rappresenta una novità nella giurisprudenza della Corte di Cassazione [56], ma il fatto che essa abbia costituito la trama motivazionale per risolvere << un tema di fondamentale rilievo per gli interessi degli enti locali e degli intermediari bancari e finanziari >> (come aveva considerato la Sezioni rimettente) dimostra che oggi deve considerarsi un dato acquisito dell’ordinamento.
Indicazione che non può che trovare un naturale punto di convergenza con la giurisprudenza del Giudice amministrativo (che dell’interesse pubblico fa la sua ragione istitutiva) per il quale << il nesso di stretta strumentalità del negozio .. rispetto ai fini istituzionali dell’Ente >> (nesso non di mera compatibilità, ma di stretta strumentalità) rappresenta << un principio .. immanente nel sistema >> [57].
Sempre più attuale e densa di significati risulta, quindi, la norma posta in apertura dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990 (“L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge .. “), senza che la sua portata possa essere ridimensionata dall’addenda del comma 1-bis (“La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente.”).
Per certi versi, ancora più significativa è, poi, la valenza che le Sezioni Unite riconoscono al “vincolo di mezzi” cui è tenuta la Pubblica amministrazione nel suo operare, inteso come necessario rispetto delle regole di riparto delle competenze istituzionali al suo interno e di quelle procedimentali.
Se, invero, la considerazione di detto vincolo è terreno naturale del Giudice amministrativo, è di rilievo il fatto che anche la Corte di Cassazione ne colga la fondamentale funzione di garanzia non soltanto (come per tradizione) per i soggetti incisi dall’azione amministrativa, ma per la stessa Pubblica amministrazione e quindi per la collettività da essa rappresentata.
Ecco, allora, che, per un verso le Sezioni Unite non hanno difficoltà ad accogliere una nozione sostanziale (e non meramente formale) della “competenza” degli organi deputati ad adottare gli atti propedeutici alla stipula dei contratti “derivati”, riconoscendo la peculiare valenza di tali atti nella sequenza procedimentale che conduce ad assumere decisioni fortemente incidenti sul bilancio degli Enti; e, per altro verso, esse non esitano a riconoscere l’immediata incidenza dei vizi procedimentali sul piano della patologia negoziale, nella sua forma più radicale della nullità del contratto.
Anche quando agisce secondo i moduli del diritto privato la Pubblica amministrazione è soggetta al principio di legalità ed è quindi inevitabile che il “diritto privato” applicato alle Pubblica amministrazione diventi (anche) “diritto amministrativo”.
Andrea Berti
Avvocato
Pubblicato il 22 maggio 2020
[1] La sentenza della Corte di Appello di Bologna n. 734 del 11 marzo 2014 (Pres. Colonna; Est. Guernelli) è pubblicata integralmente su www.IlCaso.it. Per un suo commento, ci permettiamo di rinviare a Berti A., Considerazioni sulla qualificazione negoziale e sui requisiti di validità e di efficacia dei contratti “derivati” stipulati dagli enti locali (Nota alla sentenza della Corte di Appello di Bologna n. 734 del 11 marzo 2014), www.IlCaso.it, 12 aprile 2014.
[2] Precisamente, i due contratti per “operazioni su strumenti finanziari derivati” erano stati stipulati dal Comune in questione (Comune di Cattolica) in data 15.05.2003 ed in data 01.12.2003, ovvero in un momento in cui era vigente l’‘art. 41 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Legge Finanziaria 2002), ma non era ancora entrato in vigore il d.m. 1 dicembre 2003, n. 389 e tutta la successiva normativa.
[3] Dall’ultimo report semestrale della Banca d’Italia, pubblicato il 28 febbraio 2020 e riportante dati aggiornati a dicembre 2019, risulta che sono ancora 98 le Amministrazioni che hanno in corso contratti derivati aventi un valore di mercato negativo, con ciò intendendo il potenziale esborso che gli Enti dovrebbero subire se i contratti venissero chiusi. Il valore nozionale dei “derivati” in essere è di 5.539 miliardi di Euro ed il valore di mercato negativo complessivo per gli Enti è pari ad 1 miliardo e 48 milioni di euro. Se si pensa che nel 2007 le Amministrazioni coinvolte erano 669, per un nozionale di 31,5 miliardi di Euro, il trend appare in miglioramento, ma il complessivo valore di mercato negativo resta sostanzialmente equivalente agli anni passati, a causa dei bassi tassi di interesse.
[4] La causa è giunta alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione a seguito della sua rimessione da parte della sezione I, disposta con ordinanza 10 gennaio 2019, n. 493 sulla base della seguente motivazione: << 12. - Reputa il Collegio che le indicate questioni possano assurgere a questioni di massima di particolare importanza, a mente dell’art. 374 c.p.c., comma 2: oltre a rivestire grande rilievo, sul piano pratico, per le concrete ricadute che le soluzioni da adottare potranno avere nel quadro del contenzioso tra gli intermediari e gli enti locali in tema di derivati (contenzioso vertente, spesso, su flussi monetari di notevole consistenza), esse ineriscono a temi su cui la Corte dei conti, nelle diverse articolazioni, amministrativa e giurisdizionale, e il Consiglio di Stato hanno fornito responsi contrastanti. Il rilievo delle questioni giuridiche da trattare discende, quindi, dal quadro di grave incertezza che è consegnato dai diversi organi che se ne sono occupati in sede di amministrazione di controllo, di accertamento giurisdizionale della responsabilità contabile e di vaglio giudiziario della legittimità dell'esercizio del potere di autotutela dell'ente locale. Il Collegio, pur essendo ovviamente consapevole che nella controversia portata al suo esame rilevano posizioni di diritto soggettivo, non implicate negli accertamenti compiuti dalla Corte dei conti e dal Consiglio di Stato, crede vada valorizzata l'esigenza di evitare, per il futuro, che le pronunce assunte dalla prima sezione della Corte di legittimità marchino oscillazioni su di un tema, di fondamentale rilievo per gli interessi degli enti locali e degli intermediari bancari e finanziari, che è già segnato dai richiamati dissensi. >>.
[5] Il decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) li assegnava al genus degli “strumenti finanziari” secondo la definizione di cui all’art. 1, comma 2, lett. d) in particolare a quello degli “strumenti finanziari derivati” (art. 1, comma 3), definizioni abrogate dal decreto legislativo 3 agosto 2017, n. 129. Oggi, l’Allegato I, sezione C) elenca le varie tipologie di “derivati” tra gli “strumenti finanziari” e l’art. 1, comma 2-bis (come da ultimo modificato con d.lgs. n. 129 del 2017) demanda al Ministero dell’Economia e delle Finanze l’individuazione di nuovi contratti derivati. Salvo, poi, disciplinarne (ancorchè in modo frammentario e disorganico) alcuni aspetti (vedi ad esempio artt. 23 e 30).
[6] Ricordano le Sezioni Unite che il derivato OTC è << un contratto: a) in cui gli aspetti fondamentali sono dati dalle parti e il contenuto non è eteroregolamentato come, invece, accade per gli altri derivati, cd. standardizzati o uniformi, essendo elaborato in funzione delle specifiche esigenze del cliente (per questo detto bespoke); b) perciò non standardizzato e, quindi, non destinato alla circolazione; c) consistente in uno strumento finanziario rispetto al quale l’intermediario è tendenzialmente controparte del proprio cliente. >> (punto 4.3. della sentenza).
[7] A tale riguardo, le Sezioni Unite respingono l’idea che gli OTC possano risolversi in una mera “scommessa”, ravvisandone piuttosto la causa concreta nella “negoziazione e nella monetizzazione di un rischio”, che ne fanno una “scommessa razionale”. In particolare, gli swap costituiscono << negozi a causa variabile, perché suscettibili di rispondere ora ad una finalità assicurativa ora di copertura di rischi sottostanti; così che la funzione che l’affare persegue va individuata esaminando il caso concreto e che, perciò, in mancanza di una adeguata caratterizzazione causale, detto affare sarà connotato da una irresolutezza di fondo che renderà nullo il relativo contratto perché non caratterizzato da un profilo causale chiaro e definito (o definibile). >> (punti 5 e 6 della sentenza).
[8] Art. 2 d.m. 5 luglio 1996, n. 420 (Prestiti in valuta estera – Copertura rischio di cambio) : “1. Per la copertura del rischio di cambio tutti i prestiti in valuta estera devono essere accompagnati, al momento dell’emissione, da una corrispondente operazione di swap. L’operazione di swap dovrà trasformare, per l’emittente, l’obbligazione in valuta in un’obbligazione in lire, senza introdurre elementi di rischio. Il costo di tale operazione, insieme con tutti gli oneri sopportati dall’ente emittente in relazione all’emissione del prestito, ivi compresa la commissione di cui al successivo art. 12, concorre alla determinazione del costo effettivo di cui all’art. 5 del decreto-legge n. 287 del 1996. 2. L’operazione di swap dovrà essere effettuata da intermediari di provata affidabilità ed esperienza nel settore, con riferimento anche alla valutazione assegnata agli intermediari medesimi dalle maggiori agenzie di rating.”.
[9] Sul punto si tornerà infra alla luce degli importanti rilievi delle Sezioni Unite.
[10] L’art. 41 della legge n. 448 del 2001 ha previsto al comma 1 che con decreto ministeriale “sono approvate le norme relative all’ammortamento del debito e all’utilizzo degli strumenti derivati da parte dei succitati enti.”, stabilendo al comma 2 che “Gli enti di cui al comma 1 possono emettere titoli obbligazionari e contrarre mutui con rimborso del capitale in una unica scadenza, previa costituzione, al momento dell’emissione o dell’accessione, di un fondo di ammortamento del debito, o previa conclusione di swap per l’ammortamento del debito.”. Al riguardo le Sezioni Unite, con la sentenza n. 8770 del 2020 hanno rilevato quanto segue: << 7.1.4. Risulta evidente come il legislatore del 2001 abbia cercato di impedire il moral hazard di emettere debito, imponendo un fondo di ammortamento o un amortizing swap, cioè uno swap che costringesse l’ente pubblico ad effettuare pagamenti alla controparte dello swap in una misura per cd. equivalente ad un ipotetico piano di ammortamento del debito contratto dall’ente medesimo [lo swap appena descritto ha finalità certamente non speculative (ammortamento del debito) e, comunque, richiede, contestualmente, la convenienza economica dell’operazione]. Si è fatto notare come il legislatore abbia in fatto prescritto all’ente pubblico di guadagnare senza rischiare, il tutto all’interno del mercato dell’intermediazione finanziaria dove, connaturata all’operazione, è l’alea di rischio. >> (punto 7.1.4.).
[11] Osservano, al riguardo, le Sezioni unite: << Assume rilievo, perciò, la questione del conflitto di interessi fra intermediario e cliente, poiché nei derivati OTC, a differenza che in quelli uniformi, tale conflitto è naturale, discendendo dall’assommarsi nel medesimo soggetto delle qualità di offerente e consulente. .. >> (punto 6.6.1 sentenza).
[12] In disparte, non essendo questo il tema oggetto del presente scritto, si rileva che le tutele previste dal TUIF a protezione del cliente risultavano, in quella fase, applicabili agli Enti pubblici soltanto dimostrando che il soggetto stipulante non era “operatore qualificato”, atteso che l’art. 31, comma 1, del Regolamento Consob 1 luglio 1998, n. 11522 (nel testo allora vigente), emanato in attuazione dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 58 del 1998, stabiliva che “A eccezione di quanto previsto da specifiche disposizioni di legge e salvo diverso accordo tra le parti, nei rapporti tra intermediari autorizzati e operatori qualificati non si applicano le disposizioni di cui agli articoli 27, 28, 29, 30, comma 1, fatta eccezione per il servizio di gestione, e commi 2 e 3, , commi 3, 4 e 5, , fatta eccezione per il comma 1, lettera d) 38, 39, 40, 41, 42, 43 comma 5, lettera b), comma 6, primo periodo, e comma 7, lettere b) e c) 44, 45, 47, comma 1, 60, 61 e 62.”. Dimostrazione che incontrava l’ostacolo della clausola seriale, contenuta in quasi tutti i contratti predisposti dalle banche, del seguente tenore: “Il Cliente dichiara altresì di possedere una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari derivati ai sensi e per gli effetti dell’art. 31 del Regolamento Consob citato.”. In effetti, anche nelle fasi di giudizio che hanno preceduto la decisione delle Sezioni Unite n. 8770 del 2020, la questione dell’”operatore qualificato” era stata ampiamente dibattuta, in quanto il Comune aveva contestato la validità e l’efficacia di tale autodichiarazione e la Corte di Appello di Bologna aveva ritenuto assorbito il motivo, pur non mancando di rilevare che detta dichiarazione non sembrava << sufficientemente giustificata sul piano obiettivo >>.
[13] A fronte della linea difensiva del Comune volta ad affermare la necessità di qualificare i contratti derivati stipulati dal Comune avendo riguardo all’art. 41 della legge n. 448 del 2001 ed ai principi di diritto ad essa sottesi, il Tribunale di Bologna affermava in modo perentorio che << Ciò che non si condivide di questo sillogismo è la premessa minore, ché gli swap sono swap, non mutui o che altro. La pratica finanziaria internazionale ormai di qualche decennio è venuta definendo questo strumento secondo un modello base cui possono associarsi molte varianti; l’ordinamento italiano l’ha accolto collocandolo tra gli strumenti finanziari dell’art. 1 d.lgs. 58 del ’98 secondo una definizione che gli attribuisce autonomia funzionale dal punto di vista giuridico-economico e che non lo può far di certo qualificare nel senso voluto dall’attore. >> (Trib. Bologna sez. II 14 dicembre 1999, n. 5244).
[14] Cass. civ., S.U., n. 8770 del 2020: << 8.1. Innanzitutto, il derivato per essere ammissibile, doveva essere economicamente conveniente essendo vietato concludere derivati speculativi. >>.
[15] Cass. civ., S.U., n. 8770 del 2020: << Il riconoscimento della legittimazione dell’Amministrazione a concludere contratti derivati, sulla base della disciplina vigente fino al 2013 (quando la legge n. 147 del 2013 ne ha escluso la possibilità) e della distinzione tra i derivati di copertura e i derivati speculativi, in base al criterio del diverso grado di rischiosità di ciascuno di essi, comportava che solamente nel primo caso l’ente locale potesse dirsi legittimato a procedere alla loro stipula. >>.
[16] D’altra parte, che i “derivati” rappresentino un impegnativo banco di prova per l’autonomia negoziale della Pubblica amministrazione è dimostrato dal fatto che anche in ordinamenti di ben diversa tradizione (di common law), dove il sistema finanziario ha assunto anche un più elevato grado di evoluzione, la legittimazione da parte degli Enti pubblici territoriali a stipulare simili contratti sconta limiti stringenti, essendo finanche preclusa in via generale ed assoluta, pena la nullità degli stessi ed il diritto dell’Ente di ripetere le somme versate (si vedano le pronunce della House of Lords del 24 gennaio 1991 e del 16 maggio 1996, citate da Catalano in Foro it. 2003, I, 616).
[17] Ricorderà più avanti la S.C. (citando una condivisa giurisprudenza di merito) che detti elementi contenutistici del contratto costituiscono un << elemento essenziale dello stesso ed integrativo della sua causa tipica … >> (punto 9.7. della sentenza).
[18] La definizione del mark to market e dei costi impliciti (o occulti) è riportata ai punti 4.6. e 4.7. della sentenza.
[19] Trattasi di una questione sollevata dal Comune sin dal primo grado di giudizio ed affrontata dalla Corte d’Appello con la pronuncia oggetto di ricorso.
[20] Si definisce “capitale nozionale” il capitale teorico assunto dalle parti per il calcolo dei flussi di interessi, ovvero quel capitale che, pur non costituendo oggetto di scambio, costituisce il punto di riferimento per definire il volume e la dimensione dell’operazione.
[21] Il concetto è stato, poi, ribadito dall’art. 1, comma 736, della legge n. 296 del 2006: “Gli enti possono concludere tali operazioni solo in corrispondenza di passività effettivamente dovute, avendo riguardo al contenimento dei rischi di credito assunti.”.
[22] Sul punto la Corte di Appello di Bologna (n. 734 del 11 marzo 2014), con riferimento al caso in questione, rilevava che << In nessuno dei tre IRS (e/o negli amministrativi presupposti) vi è un riferimento di una qualche serietà ai mutui sottostanti in relazione ai quali gli stessi sarebbero stati contratti … La conseguenza è, come nota correttamente l’appellante, che dai contratti o dagli atti amministrativi presupposti … non emerge in alcun modo la loro effettiva causa concreta (funzione economico sociale anche normativamente predeterminata), di cui quindi non è dimostrata l’esistenza, così come di un oggetto avente i requisiti di cui all’art. 1346 c.c.. In altre parole il contratto inerente il derivato deve invece contenere tutti i requisiti essenziali per farne emergere la causa in concreto esercitata; deve inoltre avere un oggetto determinato o determinabile, ossia deve avere, per integrare entrambi i requisiti, una percepibile e misurabile correlazione tra le (solo) menzionate “posizioni creditorie e debitorie” e l’importo di riferimento – il nozionale – sottostante, nonché tra tassi praticati nelle dette posizioni e il “tasso parametro” che le parti reciprocamente si assegnano per le liquidazioni periodiche. >>.
con la sentenza n. 734 del 2014
[23] Vedasi, De Iuliis (“Lo swap d’interessi o di divise nell’ordinamento italiano”, Banca borsa tit. cred., 2004, 3, 391); Fadel-Marangoni (“Enti locali e strumenti finanziari derivati: evoluzione normativa” in Il Caso.it, 28.11.2008, 16); Astegiano (“Enti territoriali e strumenti finanziari derivati: margini di utilità e rischi” in AziendItalia, maggio 2008, n. 5 pag. 5).
[24] Vedasi le Deliberazioni Corte dei Conti – sez. reg. di controllo per la Lombardia – n. 596 del 26 settembre 2007 e n. 52 del 2008: << Il profilo assume essenziale rilevanza nei contratti stipulati dagli enti pubblici. Per questi enti, e in particolare per gli enti territoriali, il collegamento funzionale in quanto espressamente previsto dalla legge o in quanto connaturato con la natura degli enti pubblici entra nella causa giuridica del negozio, perché elemento oggettivo dello stesso previsto dalla legge. Ne consegue che per detti enti la mancata funzionalizzazione del contratto all’andamento dei rischi di mutui stipulati dall’ente si riflette sulla causa genetica dei contratti di swap."; analogamente Corte Conti sez. reg. Molise n. 34/2009 del 23.07.2009 secondo cui << l’operazione deve essere sempre riferita ad un sottostante debito con il quale sussiste un collegamento funzionale che, in quanto espressamente previsto dalla legge e collegato alla natura degli enti pubblici, penetra nella causa del negozio giuridico. La mancata funzionalizzazione del contratto all’andamento dei rischi scaturenti da mutui stipulati dall’ente si riflette, pertanto, sull’aspetto genetico del contratto di swap di tasso di interesse, viziandolo irrimediabilmente >>; nello stesso senso ancora si sono espresse le Sezioni Riunite della Corte dei Conti con il documento di “Indagine conoscitiva sull’utilizzo e la diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazioni nelle pubbliche amministrazioni” rassegnata alla 6° Commissione Finanze e Tesoro del Senato della Repubblica in data 18.02.2009 (documento reperibile in internet).
[25] Corte app. Milano 18 settembre 2013, n. 3459, in www.Ilcaso.it. Si è, d’altra parte, precisato che, per poter essere considerati di “copertura”, i “derivati” devono avere le seguenti caratteristiche: a) siano esplicitamente posti in essere al fine di ridurre la rischiosità di altre posizioni debitorie del cliente; b) vi sia una chiara correlazione tra le caratteristiche tecnico-finanziarie dell’oggetto della copertura e lo strumento derivato e detta correlazione sia documentata ed approvata dalle parti; c) siano contemplate procedure e misure di controllo idonee ad assicurare che le condizioni di cui sopra ricorrano effettivamente (vedi Corte app. Milano 3 maggio 2013, n. 141; Trib. Novara 19 luglio 2012, n. 569 in www.Ilcaso.it; vedi anche comunicazioni Consob del 06.08.1998, del 26.02.1999 e del 11.04.2001).
[26] In questi termini Trib. Salerno 21 giugno 2011 (in www.IlCaso.it) che, partendo dalla nozione di “negozi collegati” e ravvisando un collegamento negoziale tra il derivato con finalità di copertura ed il mutuo sottostante, afferma che in questi casi << il contratto di swap non può essere riguardato singolarmente, ma unitamente a quello di mutuo cui è strettamente strumentale … con la conseguenza che la sorte del contratto di mutuo incide anche sulla sorte di quello di swap. Pertanto, se al contratto di mutuo le parti non hanno dato attuazione, ciò non può non influire sul contratto di swap, la cui funzione di copertura è venuta meno, in quanto non v'è alcun adempimento da garantire ... >>. Sulla stessa linea Trib. Lucera 26 aprile 2012 (in www.IlCaso.it) secondo il quale << deve assumersi in modo altrettanto pacifico l'esistenza di un collegamento negoziale tra strumento di finanziamento e quello di copertura, che ha natura non solo economica ma negoziale ravvisandosi un'interdipendenza funzionale fra i medesimi, utilizzati in combinazione strumentalmente volta a realizzare lo scopo pratico unitario, costituente la causa concreta della complessiva operazione, specifica ed autonoma rispetto a quella dei singoli contratti;”. Vedi anche Trib. Brindisi 29.01.2013 (in www.IlCaso.it), secondo il quale << in presenza di una risoluzione anticipata dei contratti di mutuo e venuta meno la suddetta esigenza di copertura, il contratto di swap … deve ritenersi oramai privo di giustificazione e sprovvisto di una funzione economico-sociale meritevole di tutela, con conseguente applicabilità del principio simul stabunt simul cadent >>.
[27] Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2017, n. 18781.
[28] Detta prospettazione difensiva era stata decisamente respinta dal Tribunale di Bologna con la sentenza di primo grado (n. 5244 del 2009), secondo la quale l’up-front doveva considerarsi soltanto una mera modalità di pagamento inidonea ad incidere sulla causa del contratto. Di diverso avviso era stata, invece, la Corte di Appello di Bologna (con la sentenza n. 734 del 2014) che aveva parlato di << una enucleabile sottocategoria di swaps connotati da una specifica forma di indebitamento possibilmente individuabile nella clausola di up-front, con conseguente integrazione della relativa disciplina, anche se più restrittiva per la sottocategoria individuata. >>.
[29] Ed anche la Nota Istat del 22 ottobre 2008, illustrando la metodologia di calcolo dell’”indebitamento” delle Pubbliche amministrazioni secondo il Trattato di Maastricht, aveva precisato che “eventuali somme una tantum incassate dalle pubbliche amministrazioni debbano essere considerate come prestiti e quindi incluse nel calcolo del debito pubblico”.
[30] Rilevava la sezione che << Si è opinato, però, sia in dottrina che in giurisprudenza, che la somma erogata dalla banca al cliente – che può trovare diversi fondamenti giustificativi sul piano pratico (riduzione del rischio verso la controparte che paga l’upfront, esigenze di liquidità, semplice incentivo del cliente alla stipula di un contratto di contenuto aleatorio) – sia suscettibile di assolvere a una funzione creditizia (generando un obbligo restitutorio che si attuerà con i pagamenti che il percettore dell’upfront dovrà porre in atto, al netto di quelli che dovrà ricevere). Seguendo tale impostazione, dunque, potrebbe ritenersi che la conclusione di swap con upfront consenta certamente all’ente locale di acquisire una disponibilità di cassa immediata, evidentemente utile per la gestione delle spese correnti o per il ripianamento di precedenti esposizioni debitorie (come è accaduto nel caso della seconda operazione oggetto di causa, in cui l’erogazione è stata quasi integralmente impiegata per sovvenire alle perdite prodottesi in precedenza), ma genererebbe, al contempo, un indebitamento (seppure potenziale, tenuto conto che il contratto è pur sempre aleatorio e la previsione dei flussi potrebbe rivelarsi errata in favore del cliente). >> (Cass. civ. sez. I ord. n. 493 del 2019).
[31] Sul punto anche il Giudice di secondo grado aveva affermato che << Il fatto che la normativa amministrativa qualificatoria in termini di indebitamento per la clausola di up-front sia entrata in vigore successivamente a uno o più dei contratti in questione (l'art. 1 c. 739 e 740 l. 296/2006 e la l. 133/2008; il d.m. 389/2003) non significa che gli stessi non potessero essere anche precedentemente interpretati nel medesimo senso, senza che venga in rilievo alcuna applicazione retroattiva delle norme. >> (Corte app. Bologna n. 734 del 2014).
[32] In questi termini, in dottrina, vedasi Girino E., I contratti derivati, Milano, 2010, 474.
[33] Così ritornando alla problematica dei “costi occulti o impliciti”, ripetutamente evocata dalle Sezioni Unite in sentenza.
[34] In tal senso, vedasi il parere reso dalla Corte dei Conti – sez. contr. – il 3 marzo 2005 all’esito della “Indagine conoscitiva sulle problematiche relative alla diffusione di strumenti finanziari derivati” inviata alla VI Commissione Finanze della Camera dei Deputati: << Il premio di liquidità si risolve … in un anticipato versamento di fondi che sconta l'attualizzazione sui relativi tassi contrattuali a carico della controparte, oppure si ripercuote sullo spread. Sostanzialmente, seppure incorporata in uno swap, si tratta di operazione analoga alla contrazione di un mutuo, laddove la sua concessione comporta un tasso o uno spread che attualizza il premio corrisposto in via anticipata dalla banca all'ente >>. Tale asserzione è confermata dall’analogo parere reso dalle Sezioni Riunite in data 18 febbraio 2009. Significativa anche la pronuncia della Corte dei Conti -sez. reg. di controllo per la Lombardia (Deliberazione n. 596/2007 del 26 settembre 2007), che, in merito alla clausola di up-front, ha osservato quanto segue: << Innanzitutto, la previsione dell’erogazione di tale importo che, se non integralmente, per lo meno in parte dovrà essere restituito all’operatore finanziario in sede di regolazione dei rispettivi flussi configura un finanziamento all’ente che, pertanto, sia nell’utilizzo che nella classificazione in bilancio deve tenere conto del disposto dell’art. 119 Cost. Si tratta di una forma di indebitamento la cui regolazione è demandata ad elementi futuri, incerti nella loro dimensione finanziaria, che, comunque, dovranno essere tenuti presenti al momento di allocare in bilancio i proventi derivanti da eventuali plusvalenze. Pertanto, questo importo non può essere utilizzato per finanziare la spesa corrente ma solo per quella di investimento, peraltro previa costituzione di un apposito fondo per far fronte agli eventuali pagamenti che l’ente potrebbe essere tenuto ad effettuare in favore dell’intermediario finanziario, ove la situazione dei tassi evolvesse negativamente per l’ente. ..... A livello di bilancio dell’ente l’anticipazione deve essere allocata al Titolo IV, quale forma atipica di indebitamento, come risulta stabilito anche dai Principi contabili stabiliti dall’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali del Ministero dell’Interno. >>.
[35] Ha osservato Corte cost. con la citata sentenza n. 52 del 2010 che << ... la realtà ha ampiamente dimostrato che persino le operazioni di rinegoziazione dei contratti derivati, a seguito di ristrutturazione del debito, nel prevedere fin dall'inizio condizioni di sfavore degli enti, comportano l'assunzione di rischi aggiuntivi mediante lo spostamento nel tempo degli oneri derivanti da condizioni ancora più penalizzanti rispetto a quelle iniziali.”.
[36] Anche questo aspetto era stato considerato dalla Corte di Appello di Bologna con la sentenza n. 734 del 2014, che aveva sottolineato come l’up-front previsto in una “rinegoziazione” di derivati servisse in gran parte a coprire il “costo di sostituzione” dei derivato sostituito.
[37] Con sentenza n. 320 del 05 novembre 2004 la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione di incostituzionalità della norma sollevata da alcune Regioni, ritenendo che << La previsione della nullità degli atti e dei contratti posti in essere in violazione del divieto di ricorrere all'indebitamento per finanziare spese diverse da quello di investimento, di cui all'ultimo comma dell'art. 119 Cost. .... non inerisce, come sostiene la ricorrente, alla materia della disciplina dell'ordinamento e dell'organizzazione amministrativa e contabile delle Regioni e degli enti locali, ma trova il suo fondamento nella potestà legislativa dello Stato di dare attuazione al sesto comma dell'art. 119 Cost., dal momento che configura esclusivamente alcune sanzioni per comportamenti confliggenti con il divieto affermato nella disposizione costituzionale. >>.
[38] Corte Conti sez. giur. Umbria n. 87 del 23 maggio 2008 e n. 184 del 16 dicembre 2011.
[39] Per queste ed altre considerazioni sul modello processuale contabile, vedasi P. Santoro, L’illecito contabile, 2006 (547 ss.).
[40] Corte Conti sez. giur. Lazio 22 marzo 2011, n. 473.
[41] Spiega al riguardo la Corte felsinea che “Con ciò non si intende naturalmente affermare che [la banca] dovesse verificare a posteriori e sindacare la successiva destinazione dei flussi generati dai contratti, ma che tale necessaria e preventiva destinazione doveva essere contenuta, menzionata e specificata negli atti amministrativi presupposti, se non nei contratti stessi.”.
[42] In questo senso vedasi Delibere Corte dei Conti sez. reg. controllo Umbria 2 ottobre 2008, n. 41 e sez. reg. Molise 23 luglio 2009, n. 34, che osservavano quanto segue << In relazione al mancato coinvolgimento del Consiglio comunale in merito alla sottoscrizione del contratto di swap si osserva che l’impegno finanziario derivante da tale gestione attiva del debito espone l’Amministrazione al rischio di perdite finanziarie future che solo l’Organo consiliare del Comune può, consapevolmente, autorizzare, in quanto organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo deputato, ai sensi dell’art. 42 del TUEL, ad approvare gli atti di spesa “che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi”. Sotto questo profilo, la delibera del Consiglio comunale non può limitarsi ad autorizzare l’operazione in modo generico, ma deve indicare, analiticamente, gli indirizzi operativi che devono condurre alla conclusione dell’operazione nonché i vincoli finanziari che l’Ente intende assumere. >>.
[43] Cons. St., sez. V, 3 marzo 2005, n. 832. Di diverso segno sembrerebbe, invece, Cons. St., sez. V, 30 giugno 2017, n. 3174, secondo il quale lo swap sarebbe mero << atto di gestione dell’indebitamento dell’ente locale con finalità di riduzione degli oneri finanziari ad esso inerenti, legittimamente adottabile dalla giunta comunale in virtù della sua residuale competenza gestoria ex art. 48, comma 2, del testo unico di cui al d.lgs. n. 267 del 2000. >>; dalla lettura di detta sentenza non risulta, peraltro, se nel caso di specie trattavasi di “derivati” con up-front o incidenti sui rapporti debitori sottostanti (questioni non affrontate dalla pronuncia).
[44] Cass. Civ., S.U., n. 8770 del 2020: << 10.4. A favore della scelta consiliare, oltre che le condizioni sostanziali di tali forme di finanziamento, depone anche la necessità di assicurare il coinvolgimento degli schieramenti assembleari di minoranza, i quali sono chiamati ad esercitare un controllo sull’operazione finanziaria. >>.
[45] Ai sensi dell’art. 17, comma 1, lett. e), del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), le disposizioni del Codice non si applicano “agli appalti ed alle concessioni di servizi finanziari relativi all’emissione, all’acquisto, alla vendita e al trasferimento di titoli o di altri strumenti finanziari ai sensi del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, servizi forniti da banche centrali e operazioni concluse con il Fondo europeo di stabilità finanziaria e il meccanismo europeo di stabilità”; una norma analoga era contenuta nell’art. 19, comma 1, lett. d) del primo Codice (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163) e, precedentemente, nell’art. 5, comma 2, lett. d) del d.lgs. 17 marzo 1995, n. 157. Dette esclusioni trovano corrispondenza nella normativa eurounitaria (vedasi, da ultimo, art. 10, lett. e), direttiva 16 febbraio 2014, n. 2014/24/UE.
[46] Garofoli R. – Ferrari G., Codice degli appalti pubblici, Roma, 2007, 115.
[47] Cass. civ., sez. II, 8 maggio 1996, n. 4269; sez. I 28 marzo 1996, n. 2842; sez. II, 21 febbraio 1995, n. 1885; sez. III, 7 aprile 1989, n. 1682; sez. I, 13 ottobre 1986, n. 5983; sez. I, 20 novembre 1985, n. 5712; sez. II, 5 febbraio 1982, n. 671.
[48] Come ricordato da Cass. civ., sez. II, 21 febbraio 1995, n. 1885, la nozione di “legittimazione a contrarre” è stata elaborata proprio per dar conto di fenomeni che non possono essere ricondotti alle categorie generali della “capacità giuridica” e della “capacità di agire”, nelle quali si esprime l’idoneità, riconosciuta al soggetto, ad essere titolare di situazioni giuridiche soggettive e ad esercitare le relative facoltà; per dar conto, cioè, di quelle ipotesi in cui l’ordinamento richieda nel soggetto, perché possa compiere validamente o efficacemente un determinato atto, un potere di disposizione in relazione ad una particolare situazione giuridica, o, come si è detto, l’idoneità ad essere soggetto del rapporto che si svolge nell’atto, ovvero del potere di assumere obbligazioni verso terzi.
[49] Cass. civ., sez. III, 29 luglio 1987, n. 6578; sez. I, 5 marzo 1993, n. 2681.
[50] Cass. civ., sez. III, 9 gennaio 2002, n. 193.
[51] Cass. civ., S.U., 19 gennaio 2007, n. 1142. In particolare, la radicale sanzione della nullità contrattuale è stata enunciata in relazione ai casi in cui la deliberazione a contrattare non conteneva l’indicazione dei mezzi finanziari per far fronte all’obbligazione assunta (vedi Cass. civ., S.U., 10 giugno 2005, n. 12195 e 28 giugno 2005, n. 13831 in sede di composizione di contrasto; e poi, coerentemente sez. I, 26 maggio 2006, n. 12636 e sez. II, 31 gennaio 2006, n. 2169).
[52] Cass. civ., sez. lav., 1 aprile 2004, n. 6450.
[53] Cass. civ., sez. II, 18 agosto 1990, n. 8410.
[54] Sul punto la produzione dottrinale è ricchissima, ma punto di riferimento rimane il contributo di Amorth A., Osservazioni sui limiti dell’attività amministrativa di diritto privato, Arch. Dir. Pubbl., 1938. Per rimanere alle fonti presenti sul sito www.giustizia-amministrativa.it, ci limitiamo a citare Carpentieri P., L’azione amministrativa e la sua inaggirabile specialità, 2015, secondo il quale << La funzionalità ai fini dati dalla legge e la controllabilità dell’esercizio della funzione (che impiega risorse pubbliche) rendono irrimediabilmente speciale l’agire amministrativo rispetto al diritto comune dei privati. >>, ricordando che << L’opinione prevalente afferma la funzionalizzazione della stessa attività di diritto privato della p.a. (anche della tradizionale attività contrattuale jure gestionis finalizzata all’approvvigionamento di beni e servizi): non esiste un’attività privata della p.a. (distinta dall’attività di diritto privato) che possa ritenersi sottratta al raggio di azione del fondamentale canone dell’art. 97 della Cost. che regola l’essere prima ancora dell’agire della p.a.). >>. Vedi anche Poli V., Principi generali e regime giuridico dei contratti stipulati dalle Pubbliche amministrazioni, 2002, il quale osserva che se << L’attività contrattuale della p.a. in passato, era stata sempre considerata specularmente inversa a quella autoritativa e funzionale, dipendendo l’agire iure gestionis o iure imperii dalla posizione di supremazia o meno in cui operasse l’amministrazione >>, << Oggi, invece, il discrimine si pone tra finalità pubblicistiche e privatistiche perseguite dalla p.a., in quanto è acquisita la consapevolezza che, anche attraverso l’attività contrattuale, la p.a. può realizzare un fine pubblico. >>, rilevando altresì che << .. la giurisprudenza utilizza il criterio secondo cui quei contratti che si presentino strumentali o complementari allo scopo dell’ente, sia pure genericamente inteso, possono essere adottati. >>. Vedasi anche Cirillo P.C., I contratti e gli accordi delle Amministrazioni pubbliche, ricorda che << .. già nell’800 .. si ritenne che anche l’attività privata delle amministrazioni pubbliche dovesse sottostare alla disciplina cui era assoggettata l’attività di diritto pubblico, in quanto in entrambi i casi vi era spendita di pubblico denaro. >>.
[55] Tale era, invero, la situazione normativa ratione temporis applicabile al caso dei “derivati” pubblici risolto dalle Sezioni Unite estraendo un principio sulla base del solo art. 41 della legge n. 448 del 2001.
[56] Vedi Cass. civ. sez. 10 giugno 1981, n. 3748, secondo la quale << i divieti posti alle persone giuridiche pubbliche di svolgere determinate attività non toccano la capacità giuridica dell’Ente, intesa come astratta attitudine ad acquistarne diritti ed a contrarre obblighi, ma si configurano come limitazioni della legittimazione negoziale. >>. E, soprattutto, Cass. civ. sez. II 21 aprile 2000, n. 5234, che ha accertato la “nullità di un contratto stipulato da una Pubblica amministrazione per “incompetenza assoluta” sulla base del seguente rilievo: << La capacità di diritto privato delle persone giuridiche, salvo che per i rapporti incompatibili con la loro natura, è potenzialmente "generale", ma per gli enti pubblici incontra il limite appunto della "competenza", che è delimitata da norme qualificabili senz'altro come "imperative", ai sensi dell'art. 1418 c.c., sicché la loro violazione comporta la radicale invalidità dell'atto, in quanto affetto da "incapacità negoziale" (cfr. Cass. 10 giugno 1981 n. 3748) .. >>.
[57] Cons. St., A.P., 3 giugno 2011, n. 10. Per gli effetti sul piano negoziale, vedasi Tar Milano sez. I 12 febbraio 2009, n. 1253 (confermata da Cons. St., sez. IV, 6 dicembre 2011, n. 6400), secondo il quale se l’accordo esula dall’ambito circoscritto delle finalità dell’ente pubblico firmatario, esso è nullo.
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