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Prelazione sui beni culturali: non vale l’istituto dell’usucapione

di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista

Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 5671, del 3 ottobre 2018, nell’analizzare una casistica che non presenta analoghi giurisprudenziali simili, ha respinto il ricorso di alcuni proprietari di un immobile nei confronti dell’esercizio del diritto di prelazione su un bene vincolato, esercitato dal Comune.

Vediamo di analizzare la sentenza che tratta un argomento particolare e molto complesso.

Il contenzioso

Il Segretario comunale con provvedimento del Comune ha esercitato nei confronti dei proprietari di un immobile il diritto di prelazione ai sensi dell’art. 62, comma 3, D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Procedimento per la prelazione), vincolato come da D.M. 22 novembre 1974.

Avverso tale atto i contribuenti proprietari dell’immobile si sono rivolta al TAR.

La vicenda risale all’aprile del 1978 quando i ricorrenti avevano acquistato a titolo di compravendita, un immobile vincolato quale bene culturale come da decreto del Ministro dell’istruzione del 22 novembre 1974, dato che si tratta del rudere dell’antica fortezza che dà il nome al paese.

Nonostante ciò, e nonostante che nel corpo dell’atto si desse atto del vincolo esistente, all’epoca la vendita non venne denunciata all’autorità statale per metterla in condizione di esercitare il proprio diritto di prelazione ai sensi dell’allora vigente art. 31L. 1 giugno 1939 n. 1089.

I ricorrenti appellanti hanno quindi proceduto alla denuncia solo in epoca molto posteriore, con atto fatto pervenire il giorno 13 settembre 2004 alla Soprintendenza per i beni architettonici ed il paesaggio di un Comune emiliano-romagnolo.

A fronte di ciò, la Soprintendenza, ha comunicato di non voler esercitare in proprio la prelazione, ritenendo l’immobile “non utilizzabile a fini istituzionali”, salvo però “l’esercizio di tale diritto” nel termine di legge “da parte degli enti territoriali”, così come attualmente previsto dagli artt. 61 e 62D.Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42.

Il Comune ha quindi deciso di esercitare tale diritto, con deliberazione del dicembre 2004 del consiglio comunale e conforme atto del marzo 2005 del Segretario comunale, il tutto motivato con una relazione che fa riferimento, in sintesi estrema, al significato storico del bene, che come si è detto dà il nome al paese, e alla possibilità di restaurarlo come “principale e importante punto di partenza e riferimento della visione progettuale di ricucitura e di messa a sistema dell’assetto urbano”, nonché come elemento di un più ampio circuito di antichi castelli resi visitabili ai turisti, che si trovano nei comuni vicini e rappresentano un aspetto caratteristico di quella zona .

Il TAR ha respinto il ricorso proposto contro tali atti, ritenendo in sintesi la prelazione legittimamente spettante al Comune e da esso correttamente esercitata.

Contro tale sentenza, i ricorrenti hanno proposto impugnazione, con appello che contiene i seguenti quattro motivi:

– con il primo di essi, deducono un errore da parte della sentenza di I grado nella parte in cui non riconosce una presunta rinuncia ad esercitare la prelazione da parte della Soprintendenza, rinuncia che risiederebbe nella ricordata affermazione per cui il bene non era utilizzabile per i fini istituzionali di tale ufficio;

– con il secondo motivo, deducono errore da parte della sentenza di I grado nella parte in cui non ritiene che l’esercizio della prelazione fosse ormai precluso dall’intervenuto loro acquisto del bene a titolo originario per usucapione ventennale;

– con il terzo motivo, deducono ulteriore errore da parte della sentenza di I grado nella parte in cui riconosce legittimo per l’esercizio della prelazione il pagamento dell’importo originariamente pattuito come prezzo della compravendita, anziché l’importo rivalutato;

– con il quarto motivo, deducono infine la incostituzionalità per eccesso di delega delle norme sull’esercizio della prelazione da parte degli enti locali e invitano il Consiglio di Stato a sollevare la relativa questione.

Acquisto in via di prelazione di beni vincolati da parte degli enti locali

Il Ministero o, nel caso previsto dall’art. 62, comma 3, D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (cd. Codice dei beni culturali), la regione o gli altri enti pubblici territoriali interessati, hanno facoltà di acquistare in via di prelazione i beni culturali alienati a titolo oneroso o conferiti in società, rispettivamente, al medesimo prezzo stabilito nell’atto di alienazione o al medesimo valore attribuito nell’atto di conferimento. Qualora il bene sia alienato con altri per un unico corrispettivo o sia ceduto senza previsione di un corrispettivo in denaro ovvero sia dato in permuta, il valore economico è determinato d’ufficio dal soggetto che procede alla prelazione.

Ove l’alienante non ritenga di accettare la determinazione effettuata il valore economico della cosa è stabilito da un terzo, designato concordemente dall’alienante e dal soggetto che procede alla prelazione.

Se le parti non si accordano per la nomina del terzo, ovvero per la sua sostituzione qualora il terzo nominato non voglia o non possa accettare l’incarico, la nomina è effettuata, su richiesta di una delle parti, dal presidente del tribunale del luogo in cui è stato concluso il contratto.

Le spese relative sono anticipate dall’alienante.

La determinazione del terzo è impugnabile in caso di errore o di manifesta iniquità.

La prelazione può essere esercitata anche quando il bene sia a qualunque titolo dato in pagamento.

La sentenza del Consiglio di Stato

Per i giudici amministrativi di Palazzo Spada l’appello è infondato e va respinto. Il Consiglio di Stato rileva che in riferimento ad una presunta rinuncia alla prelazione da parte della Soprintendenza, si tratta di una questione infondato in fatto, dato che, a semplice lettura dell’atto , si comprende come l’inutilizzabilità del bene fosse riferita ai fini istituzionali di quell’ufficio, e facesse salva in modo espresso una possibile diversa valutazione da parte degli enti locali, che poi c’è stata da parte del Comune. Anche a semplice logica, infatti, si può comprendere come un bene come quello per cui è causa possa risultare di poca o nessuna utilità per l’ufficio ministeriale che sovrintende a un sito di interesse mondiale come il Comune interessato (si trattava della città di Ravenna), mentre possa essere di grande importanza per la piccola comunità alla quale ha dato il nome nel corso dei secoli.

E’ infondato anche il motivo di ricorso relativo alla presunta incompatibilità fra l’esercizio della prelazione e l’acquisto a titolo originario che i ricorrenti affermano maturato a loro favore per usucapione, essendo trascorsi più di vent’anni dall’atto.

I giudici di Palazzo Spada affermano che ai sensi degli artt. 1158 c.c. e seguenti, la proprietà di un bene, si acquista a titolo originario in forza del possesso pubblico, pacifico, continuato e non interrotto del bene stesso per un periodo variabile, nella specie ventennale, trattandosi di un bene immobile; va però puntualizzato che, nel silenzio della legge in proposito, non esiste una logica incompatibilità fra l’usucapione di un bene e l’eventuale permanenza sullo stesso di pretese altrui genericamente intese, fra le quali potrebbe rientrare anche la prelazione per cui è causa. Il problema si pone specificamente per i beni immobili, per i quali non esiste una norma analoga all’art. 1153, comma 2, c.c., per cui la proprietà di un bene mobile acquistata in buona fede da chi non sia proprietario si acquista libera da diritti altrui sulla cosa che non risultino dal titolo.

Il Consiglio di Stato osserva, nella propria disamina, che la problematica, cui ci si riferisce parlando di ammissibilità dell’usucapio libertatis, ovvero di presunta retroattività dell’usucapione, non ha trovato una compiuta analisi in giurisprudenza, al di là di decisioni della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez. II, 27 marzo 2001, n. 4412) , per cui nel nostro ordinamento la usucapio libertatis non esisterebbe, ovvero Cass. civ., Sez. II, 28 giugno 2000, n. 8972, per cui l’usucapione avrebbe invece effetto retroattivo, e quindi le pretese altrui sul bene si estinguerebbero.

I giudici di Palazzo Spada osservano che un approfondimento sulla materia è stato fatto dalla prassi notarile, la quale sottolinea la necessità di risolvere caso per caso l’interrogativo, avuto riguardo da un lato alle caratteristiche del possesso esercitato e dall’altra alla natura della pretesa altrui che si vorrebbe estinta: l’estinzione si verificherà tutte le volte in cui, in generale, il possesso ventennale sia stato esercitato in modo confliggente con la pretesa in esame.

La prassi notarile fa l’esempio di una servitù di passaggio sul fondo usucapito, che non si estingue se, nel periodo dell’usucapione, il titolare di essa ha potuto continuare a passare sul fondo interessato così come la servitù gli permette.

Il Consiglio di Stato applicando tale principio al caso concreto, ritiene che siano assenti gli elementi per sostenere che il possesso ventennale, in sé non controverso, da parte dei ricorrenti appellanti sia stato esercitato in modo confliggente con la prelazione sì da estinguerla; in altri termini, costoro hanno continuato a possedere un bene soggetto a prelazione con tale caratteristica. Una incompatibilità non si può certo ravvisare, in primo luogo, con la richiesta di autorizzare una manutenzione straordinaria, che potrebbe provenire in astratto anche da un non proprietario, e nulla dice su un possesso al fine di acquistare tale diritto; lo stesso va detto per la richiesta di un contributo statale, che anzi presuppone trattarsi di un bene culturale.

Il riconoscimento del permanere della prelazione va invece riconosciuto in positivo nell’atto di tardiva denuncia della vendita, che non avrebbe significato alcuno se non ammettendo che i ricorrenti appellanti avessero accettato la possibilità di un esercizio di essa.

Le conclusioni

Il Consiglio di Stato nel respingere il ricorso nell’evidenziare che non vi sono casi analoghi giurisprudenziali simili, decide per la compensazione delle spese.

Cons. di Stato, Sez. VI, 3 ottobre 2018, n. 5671

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