tratto da http://waltertocci.blogspot.it/ - segnalato su FB da un collega
mercoledì 23 settembre 2015
I non detti del premierato assoluto
di T.
Ecco il mio intervento in aula del 23 Settembre 2015, nell’ambito della discussione sulla legge di revisione costituzionale.
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Quando gli storici di diritto costituzionale studieranno questa revisione della Carta, noteranno un’anomalia che noi non possiamo oppure non vogliamo vedere. Con i voti di un premio di maggioranza viziato da illegittimità si riscrive quasi tutta la seconda parte. La famosa sentenza della Corte raccomandava di approvare subito la legge elettorale per andare a votare al più presto, ma non chiedeva di riscrivere la Carta. Lo fa la classe politica proprio per evitare le elezioni. So di dire una cosa che suona sgradevole e mi viene quasi di scusarmi con voi. È come se ci fosse un inconsapevole accordo a non parlarne qui. Che la dice lunga sullo straniamento di questo dibattito.
Apparentemente si discute di riforma del bicameralismo, dopo l’approvazione della legge elettorale. Ma il combinato disposto, come si dice in gergo, produce una mutazione di sistema. Si cambia la forma di governo del Paese, senza annunciarla, senza discuterla come tale e senza neppure deliberarla esplicitamente. La legge costituzionale e l’Italicum istituiscono in Italia il premierato assoluto, come lo chiamava, con tremore di giurista, Leopoldo Elia. Lo definiva assoluto non perché fosse una svolta autoritaria come si dice oggi, ma perché privo dei contrappesi, cioè di quei meccanismi compensativi che sono in grado di trasformare ogni potere in democrazia.
Si affidano le sorti del paese all’arbitrio di una minoranza che diventa maggioranza per i rinforzi artificiali del premierato invece che per i consensi liberamente espressi dai cittadini. Si crea un governo maggioritario in una democrazia minoritaria, segnata sempre più da una disaffezione elettorale che allontana dalle urne ormai quasi la metà della popolazione.
I giuristi sono soliti fare la prova di resistenza delle leggi, cioè di valutarne gli esiti nello scenario peggiore. Proviamo anche noi. Un leader che raccoglie meno di un terzo dei consensi conquista il banco, è in grado di governare da solo – e fin qui si può accettare – ma può anche modificare le regole fondamentali con spirito di parte senza essere costretto a discuterne con tutti. Può decidere da solo sui diritti fondamentali di libertà, sull’indipendenza della Magistratura, sulle regole dell’informazione, sui principi dell’etica pubblica, sulla dichiarazione di guerra, sulle prerogative del ceto politico, e infine riscrivere le leggi elettorali e perfino ulteriori revisioni costituzionali al fine di prolungare sine die la vittoria che lo ho portato al potere.
Per tutto ciò il premier dispone di una maggioranza ubbidiente di parlamentari che ha scelto personalmente come capilista. D’altro canto, con l’Italicum i tre quarti dei parlamentari, sempre nel worst case scenario, sono sottratti al controllo degli elettori, non solo al momento del voto ma durante il mandato. Al contrario il premier riceve un’investitura diretta, seppure minoritaria, nel ballottaggio. Si crea così un forte squilibrio di legittimazione tra il capo del governo e l’assemblea, che si traduce in supremazia del potere esecutivo sopra il legislativo e indirettamente anche sull’ordinamento giudiziario.
I tre poteri fondamentali di una democrazia sono decisamente fuori equilibrio, e il principale fattore di questo squilibrio è il numero dei deputati. La Camera – unica depositaria del voto di fiducia – è sei volte più grande del Senato. Di fatto è un monocameralismo. Niente di male in linea di principio, lo proponeva con ardore anche il mio caro maestro, il presidente Pietro Ingrao, e tanti altri nella Prima Repubblica, ma tutti lo compensavano con legge elettorale proporzionale. Nessuno lo avrebbe mai accettato con una legge ipermaggioritaria. Eppure, eliminare lo squilibrio numerico sarebbe facile e doveroso. In nessun paese europeo si arriva a 630 deputati. E la proposta iniziale del governo faceva della riduzione dei parlamentari la priorità della revisione costituzionale. Perché allora non si riduce il numero dei deputati? Perché si cambia tutto tranne il numero della Camera? Da più di un anno questa domanda rimane senza risposta. Mi rivolgo in extremis alla ministra Boschi: abbia almeno la cortesia istituzionale di dare in quest’aula una spiegazione seria e convincente.
Il risultato è un Senato senza funzioni e senza autorevolezza. Anzi un vero pasticcio: da un lato un eccesso di potere costituzionale, improprio per un’assemblea composta anche da figure amministrative, e dall’altro la mancanza di poteri ordinamentali e soprattutto di penetranti controlli – inchieste, audizioni dei dirigenti, analisi dei risultati ecc. – che andrebbero a pennello per il ramo sprovvisto della fiducia e quindi più libero dal condizionamento di governo. Che senso ha mantenere in vita una gloriosa istituzione svuotata di prestigio? Meglio allora eliminarla del tutto. Non c’è niente di peggio di un’assemblea senza poteri, con il rischio che li ottenga tramite il consociativismo col governo, degradando ulteriormente la trasparenza e l’efficienza del sistema.
Non rinnego il Senato elettivo a base proporzionale che ho sostenuto insieme ad altri. Rimango convinto che avrebbe rinsaldato il rapporto tra eletti ed elettori, oggi essenziale per ricostituire la fiducia nelle istituzioni. Avrebbe ricordato al premier – che è assoluto nei poteri ma carente nei consensi – quali siano gli orientamenti popolari profondi. La presidente Finocchiaro lo considera un freno inaccettabile, ma sarebbe un importante contrappeso. In questo senso abbiamo parlato di un Senato di garanzia, per i poteri e per il mandato elettorale diretto.
Ma non mi innamoro delle proposte. In teoria la garanzia si può ottenere anche in una sola camera, magari eletta con i collegi uninominali, ricorrendo a voti qualificati, superiori al premio di maggioranza, nella legislazione dei diritti fondamentali. E i costituzionalisti sarebbero in grado di suggerire tanti altri modi di compensazione. È dirimente l’equilibrio generale, non la singola proposta, neppure quella a me cara del Senato elettivo. La legislazione costituzionale non è altro che produzione di sistema. La qualità di una legge costituzionale si misura nell’effetto di sistema. Qui la misura è negativa sotto i punti di vista; anche la mediazione che si affaccia sulla quasi elezione dei senatori, un passo avanti certamente positivo, non è in grado di modificare l’impianto, non riduce lo squilibrio del premierato assoluto. Non cancella la mia valutazione negativa.
Si è persa anche l’occasione della riforma del bicameralismo. Perché si è raccontato un falso all’opinione pubblica da almeno trent’anni. Le famose navette che vanno da una camera all’altra riguardano solo il 3% delle proposte di legge, per lo più a causa di testi scritti male dal governo. Non è vero che ci sia un problema di velocità del procedimento legislativo, anzi è vero esattamente il contrario: è troppo facile, c’è una bulimia delle leggi, se ne scrive una nuova prima che la precedente sia applicata. Lo sanno bene i cittadini, le amministrazioni e le imprese ormai sommersi da un’alluvione normativa che soffoca la vita quotidiana. Il nuovo bicameralismo dovrebbe aumentare la qualità e non la velocità, per produrre poche leggi organiche, brevi e leggibili anche per i cittadini.
A tale compito dovrebbe dedicarsi un nuovo Senato di alta legislazione, per curare i grandi Codici, lasciando alla Camera la responsabilità di attuare il programma di governo entro una cornice solida ed efficace. Questa è la riforma mancata del bicameralismo. Non si è potuto neppure discuterne perché c’è il feticcio del Senato federale. Era una grande idea, certo dell’Ulivo e di altri. Molti di noi hanno speso le migliori energie giovanili per una Repubblica federale. Ma si è rivelato un disegno disastroso, le regioni oggi sono al punto più basso di credibilità come dimostra la bassa partecipazione alle ultime elezioni; nel frattempo gli squilibri territoriali, a cominciare da quello Nord-Sud, si sono aggravati.
Si doveva fare un bilancio serio del fallimento del federalismo in sede parlamentare. Il governo lo ha fatto da solo, togliendo poteri alle regioni e compensando il ceto politico con il pennacchio del Senato. Il risultato è deprimente. Non abbiamo più il vecchio regionalismo, non abbiamo più il federalismo, rimane solo un rapporto confuso che diventerà ancora più litigioso con le funzioni ripartite secondo una doppia competenza esclusiva, che – lo dice la logica – è difficile da mediare. Bisogna invece ridurre il numero delle regioni, come propongo con un emendamento. Una decina di macroregioni potrebbero trovare un rapporto più costruttivo con lo Stato, rendendo più compatto il sistema paese nella competizione internazionale.
Sulla base di queste considerazioni di sistema, e non solo per il Senato elettivo, lo scorso anno ho espresso il mio disagio, insieme ad altri, non partecipando al voto, sperando che nei passaggi successivi si potesse migliorare. L’equilibrio, a mio avviso, è peggiorato, il debole passo avanti sul senato elettivo è vanificato dall’approvazione dell’Italicum e dal diniego della riduzione del numero dei deputati. Alla seconda lettura siamo chiamati a una valutazione definitiva, per questo il mio voto sarà contrario, non essendoci sulla materia costituzionale un vincolo di partito.
Sento già il ritornello – “allora vuoi far cadere il governo?” È la domanda più stupida che si legge sui giornali. È una strabiliante inversione tra causa ed effetto. È inaudito che il governo ponga in sede politica una sorta di fiducia sul cambiamento della Costituzione. Non è mai accaduto nella storia della Repubblica. Il fatto che oggi venga considerato normale, che si dia quasi per scontato, che venga messo all’indice chi si sottrae, è la conferma che il dibattito pubblico italiano è malato, che già nell’agenda di discussione, prima ancora che nelle soluzioni, si vede un pericoloso sbandamento dei principi e di valori.
Si è costruita artificiosamente un’emergenza costituzionale per conferire una legittimazione politica a un governo sprovvisto di un diretto mandato degli elettori. È l’ennesima anomalia italiana. In un paese normale il governo non si occupa della Costituzione. In un paese normale l’esecutivo governa secondo un programma presentato agli elettori. Si può derogare a queste semplici regole in situazioni straordinarie e per breve tempo. Da noi lo stato d’eccezione durerà per quasi tutto questo decennio.
Non si può dare la colpa solo agli ultimi venuti. Da venti anni si cambia la Costituzione per contingenti finalità politiche; prima il centrosinistra col titolo V per inseguire la Lega, poi Berlusconi nel 2005 per sigillare la sua maggioranza, poi lo ius sanguinis del voto all’estero per legittimare Fini e poi i tentativi di Tremonti di salvarsi modificando l’articolo 41. Tutte riforme costituzionali fallite, perché sbagliato era il metodo. Ma già negli anni ottanta, da quando persero la capacità di governo, i partiti hanno preso il vezzo di dire che non era colpa loro ma della Costituzione. Per non affrontare la crisi della politica hanno aperto la crisi delle istituzioni. Hanno cominciato a sfogliare l’atlante del modello francese, inglese, tedesco, spagnolo e americano.
Il perfettismo istituzionale è un sintomo della malattia della politica. Le Costituzioni sane sono imperfette perché prodotte dalla storia. Il modello decisionale americano è pazzesco, non prevede neppure il decreto legge, eppure ha gestito un impero. Le imperfezioni sono compensate dalla volontà politica, che è come il coraggio di don Abbondio, chi non ce l’ha non se la può dare. Da trent’anni la classe politica italiana invece di governare si consola con l’orsacchiotto di pezza delle riforme istituzionali.
Quando il presidente Renzi si vanta di fare le cose in programma da venti anni, non si accorge di parlare da conservatore. È il paradosso dei rottamatori che applicano l’agenda dei rottamati. Ripetono l’errore più grave, quello di servirsi della revisione costituzionale per finalità politiche contingenti.
La Carta sarebbe da cambiare in tante cose – non sono tra coloro che ne fanno un altare. Ma ci vuole umiltà. Cambiare la Costituzione significa servirla, non servirsene. La mia generazione non è stata all’altezza del compito. La notizia triste è che neppure la generazione dopo di noi se ne mostra capace. Forse devono ancora nascere i riformatori di domani in grado di migliorare il capolavoro ricevuto in eredità.
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