tratto da luigioliveri.blogspot.it

I minori costi di licenziamento incrementano i salari?

 
 

 
Su Il Sole 24 Ore del 23 agosto, l’articolo del consigliere economico della Presidenza del consiglio dei ministri, Marco Leonardi, titolato “Jobs act e decontribuzione spingono in alto i salari”, ipotizza che “se si riducono i costi di licenziamento solo per i nuovi contratti (come ha fatto il Jobs Act) i lavoratori che non sono ancora occupati ma stanno cercando un’occupazione potranno concordare un salario più alto a fronte della riduzione della protezione contro il licenziamento”.

Mario Seminerio, nel suo articolo a commento “Il miracolo del Jobs Act che aumenta lo stipendio dei nuovi assunti” pubblicato su Phastidio.net, commenta così l’osservazione del Leonardi: “La riduzione dei costi di licenziamento riduce il potere contrattuale del lavoratore ma si traduce anche in una riduzione di costo per il datore di lavoro: tale beneficio può essere spartito tra lavoratore e datore. Ma quando accade ciò? Intuitivamente, in base alla forza contrattuale del lavoratore, cioè alle sue competenze: è un caso di domanda e offerta di lavoro, e di inclinazione delle rispettive curve. Un mercato molto segmentato perché riflette le differenti competenze. Detto in termini meno astratti: gli ad personam in busta paga varieranno a seconda del profilo professionale dell’assunto”.
Mentre, dunque, il Leonardi considera automatico l’effetto di un incremento della busta paga per nuovi contratti di lavoro a “protezione ridotta contro il licenziamento” (una definizione oggettivamente molto più azzeccata delle cosiddette “tutele crescenti”…), specie se spinto anche dalla decontribuzione, il Seminerio osserva, più classicamente, che ciò è possibile, ma resta comunque legato intanto all’incremento di valore aggiunto derivante dall’attività lavorativa e, comunque, soprattutto alle tensioni dell’incontro domanda/offerta. Sicchè, tanto più un’attività lavorativa sarà a valore aggiunto e di elevata specializzazione tecnica, tanto più facilmente il lavoratore potrà ottenere un riconoscimento del più alto rischio di permanenza al lavoro, dovuto all’eliminazione della tutela reale, cioè della reintegra in caso di licenziamento che non sia discriminatorio.
Le affermazioni del Leonardi, anche così come più realisticamente interpretate dal Seminerio, tuttavia, richiederebbero maggiori approfondimenti.
Occorrerebbe, in primo luogo, realmente sapere in quali settori, per quali qualifiche, profili e mansioni, si sono registrati gli aumenti stipendiali, così da poter calare una teoria generale sull’atto pratico e verificare se, per caso, la “protezione ridotta contro il licenziamento” non abbia, invece, spinto in alto magari anche gli stipendi di lavori e mansioni non particolarmente specialistici.
Ma, soprattutto, se realmente la “protezione ridotta contro il licenziamento” fosse di per sé, senza alcun riferimento alla logica del mercato, delle competenze e dell’incontro domanda/offerta, stimolo verso salari più elevati, occorrerebbe capire perché in alcuni eclatanti casi la già sussistente e talvolta drastica riduzione della protezione contro il licenziamento non abbia prodotto nessuno dei benefici teorizzati.
Ci si riferisce, in particolare, ai contratti a tempo determinato, rispetto ai quali il Leonardi ci informa non essere intervenuti, negli anni del Jobs Act, incrementi salariali. E, tuttavia, non risulta che né dal Jobs Act in poi, né prima, i contratti a tempo determinato siano mai stati remunerati maggiormente dei contratti a tempo indeterminato per il fatto di avere una “protezione contro il licenziamento” pari a zero, dal momento che il conseguimento del termine dedotto in contratto estingue il rapporto tra le parti, senza nessun costo a carico del datore. Tanto che, a ben vedere, anche in tempi di Jobs Act, i contratti a termine sono attivati in misura di gran lunga superiore rispetto ai contratti a tempo indeterminato; eppure, senza alcun beneficio salariale.
Per altro, il tema dell’incremento sia salariale, sia contributivo, per i contratti flessibili, come deterrente da un lato contro gli abusi e rimedio contro la scarsa contribuzione dei lavoratori troppo spesso in transizione tra un rapporto e l’altro, è da molto tempo trattato, senza che si sia mai giunti ad una conclusione: né normativamente né contrattualmente (almeno, a livello collettivo) si è fin qui pensato di spingere verso l’alto le retribuzioni e le contribuzioni (se non di poco); né la dinamica dell’incontro domanda/offerta di rapporti a tempo determinato ha sortito effetti sull’entità dei salari connessi a tali contratti.
Sarà, allora, corretto sostenere che la spinta salariale rilevata dal Leonardi derivi anche dalla decontribuzione che fino a quest’anno accompagna i nuovi contratti, tale da indurre i datori a rinunciare a parte del proprio beneficio economico per trasferirlo nella busta paga dei neo assunti?
Potrebbe essere. Ma, allora non si spiega perché un altro contratto, con zero costi per il licenziamento dovuti alla previsione normativa espressa della libera recedibilità a formazione compiuta, come è l’apprendistato non produca l’effetto della spinta verso l’alto delle retribuzioni, nonostante sia caratterizzato da una sostanziosissima riduzione degli oneri contributivi. Si può correttamente affermare che nel caso dell’apprendistato, la particolare causa anche formativa del contratto giustifica salari anche più bassi (specie all’inizio dell’attività lavorativa); non risulta, tuttavia, acclarato che nel corso del periodo formativo i contratti registrino incrementi salariali particolari, né che ciò accada con regolarità nel caso di prosecuzione del rapporto di lavoro.
Si torna, dunque, alla necessità di un’indagine estremamente accurata dei comparti e delle qualifiche interessate dagli incrementi salariali di questi anni, perché fermarsi a medie astratte, che per altro potrebbero essere influenzate non poco appunto dalla forte decontribuzione, fornisce solo un indizio, ma non la prova che la semplice circostanza della riduzione dei costi da protezione contro i licenziamenti sia la chiave per incrementare i salari.
Per altro verso, proprio la quantità dei contratti a tempo determinato, molto superiore (nel dato di flusso) rispetto ai contratti a tempo indeterminato semmai dimostra che se le aziende hanno intenzione di stare attente ai “costi da licenziamento”, fanno molto prima e molto più comodamente a stipulare contratti a termine, che nemmeno postulano costi di licenziamento.

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