tratto da quotidianopa.leggiditalia.it
La Cassazione chiarisce la differenza tra decadenza e procedimento disciplinare in presenza di dichiarazioni non veritiere rese in fase di assunzione
di Vincenzo Giannotti – Dirigente Settore Gestione Risorse (umane e finanziarie) Comune di Frosinone
Un dipendente dichiarato decaduto dalla procedura di assunzione per aver autocertificato l’assenza di condanne penali in occasione dell’assunzione, si è visto respingere il ricorso dalla Corte di appello. A supporto della tesi dei giudici di appello, è stata indicata la sentenza del giudice di legittimità (Cass. civ. n. 18719 del 2016) secondo cui la decadenza per non veridicità della dichiarazione sostitutiva resa si ponesse non come sanzione, ma quale effetto oggettivo dell’assenza dei requisiti richiesti e della non corrispondenza al vero della dichiarazione.
Avverso la decisione della Corte di Appello il dipendente estromesso ha proposto ricorso in Cassazione evidenziando come fosse necessario accertare, da parte dell’ente, se le sentenze di condanna di cui era stata omessa la dichiarazione (a causa dell’errore che esse non fossero contemplate dal certificato penale da lui richiesto), risultassero «relative a fatti comunque di per sé non ostativi all’assunzione dell’impiego», in quanto comunque l’omessa indicazione ha «il grave effetto di non consentire proprio alla P.A. una valutazione ex ante in ordine alla gravità dei reati non dichiarati». Secondo il ricorrente, nel caso di specie, non sarebbe sufficiente una dichiarazione “oggettivamente” mendace, per l’applicazione della decadenza, ma l’ente avrebbe dovuto verificare se il beneficio non sarebbe stato conseguito senza la predetta dichiarazione. Infatti, nel caso di specie di tratterebbe di condanne non dichiarate risalenti nel tempo, con intervenuta estinzione dei reati così come da certificato del casellario giudiziario che evidenzia risultanze negative, tanto da indurre in buona fede il dipendente a non dichiarare le citate condanne nella domanda di partecipazione al concorso.
Le diverse disposizioni legislative
Evidenziava, in via preliminare, la Cassazione come, in tema di falsità documentali, coesistono una pluralità di disposizioni normative. Da una parte, vi è sia l’art. 127, lett. d) D.P.R. n. 3 del 1957, che prevede che vi sia decadenza dall’impiego «quando sia accertato che l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile», sia la disposizione di cui all’art. 75, D.P.R. n. 445 del 2000, la quale prevede che, rispetto alle dichiarazioni sostitutive, la «non veridicità del contenuto» comporti la decadenza del dichiarante «dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera». Si tratta, in entrambi i casi di fattispecie in cui l’effetto caducatorio è delineato come tale da determinarsi, senza margini di apprezzamento discrezionale per la P.A. e per il solo fatto oggettivo della falsità. Dall’altro lato, nelle disposizioni regolanti il rapporto di impiego pubblico privatizzato si prevede che siano causa di licenziamento «le falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera» (art. 55-quater, lett. d), D.Lgs. n. 165 del 2001), delineando in questo caso una vera propria sanzione disciplinare, come tale assoggettata non solo al relativo procedimento applicativo (art. 55-bis, D.Lgs. n. 165 del 2001), ma anche alla regola della proporzione della misura rispetto al concreto atteggiarsi dell’infrazione nella singola vicenda (Cass. civ. 24 agosto 2016, n. 17304). In merito alle disposizioni di cui al D.P.R. n. 3 del 1957 e all’art. 75, D.P.R. n. 445 del 2000, precisa la Cassazione che nell’accesso al pubblico impiego l’art. 69 D.Lgs. n. 165 del 2001 fa salva, anche in regime di lavoro pubblico privatizzato, la disciplina di fonte legale ed esclude l’intervento della contrattazione collettiva, a riprova del trattarsi dì aspetti che si riportano ad una disciplina inderogabile.
Pertanto, secondo i giudici di Piazza Cavour, è possibile dire che, allorquando la legge (o anche un bando di concorso, purché non in contrasto con la legge), rispetto ad un certo requisito, stabilisca una regola certa di incompatibilità con l’accesso al pubblico impiego, la decadenza operi di diritto, al di fuori di un procedimento disciplinare, quale effetto del manifestarsi di un vizio “genetico” del contratto. In tale contesto, quando il giudice di legittimità ha evidenziato che «la non veridicità della dichiarazione sostitutiva presentata alla P.A. comporta la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, ai sensi dell’art. 75, D.P.R. n. 445 del 2000» ha avuto cura di precisare che ciò costituiva «effetto dell’assenza, successivamente accertata, dei requisiti richiesti» per tali evidentemente intendendosi i requisiti sostanziali che le dichiarazioni sono chiamate ad attestare (Cass. civ. n. 18179 del 2016 e Cons. di Stato, sez. V, sentenza n. 5192 del 2015).
In altri termini, rispetto alle indicazioni della Corte territoriale, non sarebbe possibile escludere la rilevanza dell’accertamento in concreto dell’incidenza che quanto erroneamente dichiarato o taciuto, ossia non è possibile giungere, pena l’intollerabile rinuncia ad un confacente rapporto di adeguatezza col caso concreto (v. Corte Costituzionale n. 329 del 2007, cit.), fino al punto di determinare la necessaria caducazione di un rapporto di lavoro rispetto al quale l’erroneità o l’insufficienza dichiarativa non siano con certezza influenti sotto il profilo del diritto sostanziale. Pertanto, è possibile precisare come solo la falsità sui dati sicuramente decisivi per l’assunzione potrà comportare la decadenza, senza possibilità di qualsivoglia valutazione di diverso tipo. Mentre nel caso di specie, si potrebbe essere all’interno della diversa disposizione di cui all’art. 55-quater, D.Lgs. n. 165 del 2001 in quanto l’ente avrebbe dovuto, mediante il procedimento disciplinare, verificare se le omissioni delle condanne fossero tali da pregiudicare l’instaurazione del rapporto di pubblico impiego, ossia per la loro gravità (natura del dato sottaciuto o manifestato erroneamente; circostanze della dichiarazione erronea; sopravvenire o meno di un rapporto duraturo che renda meno rilevante quanto originariamente accaduto etc.), siano tali da comportare, in un giudizio concreto di proporzionalità, la lesione, pur apprezzata ex post, del vincolo fiduciario.
Nel caso di specie, pertanto, spetterà al giudice di merito verificare se rispetto al caso delle condanne penali pregresse, la decadenza ex lege, al di fuori dal procedimento disciplinare, può trovare applicazione solo se la dichiarazione mendace riguardi condanne che non avrebbero in ogni caso consentito l’instaurazione del rapporto di pubblico impiego. Mentre, in caso contrario, l’adozione della misura attraverso un provvedimento di mera decadenza è da considerare non legittima, dovendo semmai la P.A. procedere nelle forme disciplinari, previa valutazione della gravità concreta dell’accaduto.
Principio di diritto
In considerazione della rilevanza tra la sanzione espulsiva della decadenza e quella invece instaurata a seguito del procedimento disciplinare, la Cassazione ha emesso il seguente principio di diritto «Il determinarsi di falsi documentali (art. 127, lett. d), D.P.R. n. 3 del 1957) o dichiarazioni non veritiere (art. 75, D.P.R. n. 445 del 2000) in occasione dell’accesso al pubblico impiego è causa di decadenza, per conseguente nullità del contratto, allorquando tali infedeltà comportino la carenza di un requisito che avrebbe in ogni caso impedito l’instaurazione del rapporto di lavoro con la P.A. Nelle altre ipotesi, le produzioni o dichiarazioni false effettuate in occasione o ai fini dell’assunzione possono comportare, una volta instaurato il rapporto, il licenziamento, ai sensi dell’art. 55-quater, lett d), in esito al relativo procedimento disciplinare ed a condizione che, valutate tutte le circostanze del caso concreto, la misura risulti proporzionata rispetto alla gravità dei comportamenti tenuti».
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