Tra corruzione e burocrazia: dalla cultura del sospetto al ritorno della buona fede
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Guido Castelli – Sindaco di Ascoli Piceno e Presidente dell’Ifel
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Ieri la Guardia di Finanza, in occasione del 224 anniversario della fondazione del corpo, ha curato il report annuale delle molteplici furbizie criminali che deteriorano il pubblico erario. Le cifre snocciolate dal Comandante Generale della GdF non hanno riguardato solo la “classica” evasione fiscale, tradizionale campo di intervento delle Fiamme Gialle, ma anche altre forme di infedeltà più o meno articolate che vanno dalle false attestazioni rese per ottenere prestazioni sociali o sanitarie non dovute, alla corruzione in senso stretto. Sarebbe molto arduo stilare una classifica sulla “gravità morale” di quanto commesso dai reprobi perseguiti dalla Guardia di Finanza. È più riprovevole aver percepito il contributo di autonoma sistemazione riservato ai terremotati dichiarando il falso (come abbiamo anche appurato ad Ascoli, passando in rassegna una per una le pratiche dei circa ottocento beneficiari dell’indennità) o aver evaso l’Iva? Difficile rispondere ma certo è che l’esame dei dati della GdF, in aggiunta alla lettura delle cronache più recenti riguardanti le indagini sul nuovo stadio della Roma, confermano alcune considerazioni che ho provato a svolgere, la scorsa settimana a Milano in occasione di un convegno promosso dall’Unaep (l’Associazione degli avvocati degli Enti pubblici) sul tema “Lotta alla corruzione e alle sue connessioni con la criminalità”.
La corruzione è un fenomeno grave, antico, persistente e diffuso nel pubblico e nel privato, che va combattuto senza posa evitando, tuttavia, con molta cura di farne argomento di propaganda politica. La strumentalizzazione politica delle questioni etiche, in effetti, allontana le soluzioni e tende per certi versi, soprattutto nella Pubblica Amministrazione, a danneggiare gli interessi pubblici. Aggiungendo ai danni della corruzione, anche quelli delle iniziative che teoricamente dovrebbero arginarla. A ben vedere, in Italia, la bandiera della “questione morale” nell’ultimo quarto di secolo è stata sventolata da soggetti politici diversi. Prima di Tangentopoli dal Pci di Berlinguer, dopo il ’94 dalla sinistra in funzione anti-berlusconiana e oggi – nella versione 2.0 – dal Movimento 5 stelle. Epoche diverse e fasi storiche difficilmente sovrapponibili ma, a ben vedere, vi è un tratto comune nell’atteggiamento di tutti coloro che, negli ultimi 40 anni, hanno chiesto consenso politico in nome di una supposta diversità o superiorità etica. Mi riferisco alla tendenza ad individuare nella complessità normativa, nell’iper-procedimentalizzazione delle azioni pubbliche e nell’aumento delle regole formali il vero rimedio alla corruzione.
Più regole, meno disonestà: questo sarebbe il paradigma che, contrariamente a quanto auspicato dai suoi esegeti in Italia, non ha tardato a evidenziare molti limiti. Un paradigma che ha finito per bloccare investimenti e lavori pubblici senza produrre l’auspicata palingenesi morale della P.A. e che, inoltre, ha generato una profonda e dilagante cultura del sospetto. Su tutto, su tutti.
Anti-corruzione, da più di vent’anni il tema dei temi del dibattito pubblico; l’ansia quotidiana per chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica e soprattutto per chi non si vota all’inerzia. Già, perché il rischio corruzione ha determinato in questi anni una tale quantità di norme scritte in modo discutibile, da interpretare più che da applicare, quasi sempre contraddittorie, che hanno finito per fare spiaggiare le piccole o grandi balene delle opere pubbliche nei cassetti di tante Pubbliche Amministrazioni.
Il legislatore, producendo norme in quantità industriale, ha voluto smarcarsi dall’accusa della piazza: nessuna connivenza con corrotti e corruttori. E quindi regole aggiuntive e vincoli. Il concetto stesso di “corruzione” è ampiamente esondato rispetto a quello definito dall’articolo 318 del codice penale (in cui è corrotto il pubblico funzionario che riceve per sé “denaro o altra utilità” per l’esercizio delle sue funzioni). Alcune direttive dell’Anac hanno teso ad assimilare alla corruzione anche la mera “mala amministrazione”.
L’inefficienza, l’inadeguatezza o il semplice errore dei pubblici amministratori possono assurgere a corruzione. Tutto è diventato corruzione. La cultura del sospetto è diventata la regola. La Pubblica Amministrazione che produce errori è sinonimo di corruzione e quindi è considerata come fraudolenta e criminale. In contesti siffatti è inutile chiedersi che cosa intossica la vita pubblica, civile e politica. Intendiamoci, i controlli e le misure di prevenzione contro ogni atto di illiceità amministrativa sono doverosi e necessari; ma forse è il tempo di disboscare la normativa pletorica e di riproporre una presunzione di buona fede.
Se non si recupera la cultura della collaborazione si distrugge la stessa possibilità di vita comune e del contratto sociale (prima ancora che contratto di governo, bisognerebbe rinnovare il senso e le ragioni del contratto sociale). Fin qui, nel nome sacrosanto della lotta alla corruzione, si sono invece aggiunti lacci e lacciuoli, impedimenti, ostacoli a carico degli uffici pubblici. Il risultato è che gli onesti, ritrovandosi a dover districare la matassa burocratica, fanno male e poco, mentre chi è corrotto continua ad agire. Si perseguono atti formalmente perfetti, ma opachi nel merito. Come l’ha definita il Presidente della Corte dei Conti è la corruzione “con le carte in regola”. Quella più complicata da contrastare e la più difficile da accertare.
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