tratto da quotidianopa.leggiditalia.it

Consumo sul posto negli esercizi di vicinato e somministrazione nei pubblici esercizi: a distinguerli è solo la presenza o meno del servizio al tavolo

di Michele Deodati – Responsabile SUAP Unione Appennino bolognese e Vicesegretario comunale

Consumo sul posto negli esercizi di vicinato e somministrazione in bar e ristoranti sempre più simili, al punto che in entrambe le attività si possono utilizzare le stesse attrezzature per lo stazionamento del pubblico. Cambiano le abitudini di consumo, e con esse anche il modo di fare impresa. Dopo una diatriba lunga anni, combattuta a suon di circolari, è finalmente caduto l’ultimo dei tabù che separavano il consumo sul posto nei negozi da quello effettuato nei pubblici esercizi. Quella che ne esce è una nozione più ampia di somministrazione.

La norma di riferimento è contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. f)-bis, D.L. n. 223 del 2006, secondo cui “le attività commerciali (…) e quelle di somministrazione di alimenti e bevande sono svolte senza (…) il divieto o l’ottenimento di autorizzazioni preventive per il consumo immediato dei prodotti di gastronomia presso l’esercizio di vicinato, utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda con l’esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l’osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie”. Inoltre, l’art. 4, comma 2-bis, ha estenso la possibilità di consumo sul posto anche ai panifici, con il rispetto dei medesimi requisiti, mentre il comma 8-bis dell’art. 4D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228, consente di effettuare il servizio di somministrazione non assistita anche per gli avventori degli imprenditori agricoli, alle condizioni già espresse più sopra.

Vendita o somministrazione? La sanzione

In un laboratorio di gastronomia calda e fredda con vendita al dettaglio, il titolare ha arredato la sala all’ingresso del locale con 6 piani di appoggio laterali e 1 piano di appoggio centrale con accostati 22 sgabelli. La Polizia municipale, in sede di sopralluogo, ha considerato tale allestimento coincidente con le attrezzature tipiche della somministrazione. Di conseguenza, ha elevato sanzione in quanto l’attività di somministrazione di alimenti svolta nei confronti del pubblico è stata ritenuta priva di titolo, trattandosi di laboratorio alimentare con annessa vendita e non di pubblico esercizio come bar e ristoranti. Solo in questi ultimi -secondo l’interpretazione degli agenti- sarebbe possibile la somministrazione mediante l’uso delle relative attrezzature per lo stazionamento della clientela. Nel dettaglio, la sanzione ha comportato la cessazione dell’attività di somministrazione abusivamente intrapresa, con richiesta di attenersi a quanto previsto dal titolo effettivamente posseduto.

Il ricorso al T.A.R.

Ricevuto il verbale, l’operatore lo ha impugnato davanti al T.A.R., il quale però ha respinto il ricorso, argomentando che “la disposizione delle sedute e la condizione di apparecchiatura dei tavoli lascia evincere, secondo comune esperienza, che l’organizzazione del servizio nel locale è finalizzato alla somministrazione e non si pone in rapporto di strumentalità solo eventuale al mero consumo sul posto”. Insomma, secondo il giudice di primo grado, perché si configuri la somministrazione è sufficiente che lo spazio adibito al consumo sul posto assomigli a quello abitualmente allestito in un comune ristorante.

L’appello al Consiglio di Stato: una nozione più ampia di somministrazione

Contro la sentenza di primo grado l’operatore ha interposto appello al Consiglio di Stato, che con la Sent. n. 2280 del 8 aprile 2019 lo ha accolto.

Il privato ha criticato innanzitutto il riferimento nella sentenza impugnata alle Circolari ministeriali sul tema, che com’è noto, sono da sempre contrarie all’uso di tavoli e sedie abbinabili, e cioè del tutto simili a quelle in uso in bar e ristoranti. In altre parole, per il MISE chi in un negozio utilizza tavoli non può abbinarli a sedie ma solo a sgabelli, e chi dispone di sedie tradizionali deve per forza associarle a piani d’appoggio. Tutto ciò – per quanto possa sembrare assurdo – al solo scopo di rendere più “scomoda”, e dunque più breve, la permanenza del pubblico negli spazi adibiti al consumo sul posto negli esercizi di vicinato, presupponendo invece che una forma di accoglienza più confortevole mediante attrezzature abbinabili, e quindi uno stazionamento più prolungato, sia un’esclusiva dei pubblici esercizi.

Tale impostazione, del tutto assente nel quadro normativo, si scontra con le opportunità di consumo sul posto negli esercizi di vicinato offerte dal citato art. 3D.L. n. 223 del 2006. Il Collegio ha dunque enucleato il principio, di carattere generale, secondo cui negli esercizi di vicinato, allorché legittimati alla vendita dei prodotti appartenenti al settore merceologico alimentare, è ammesso il consumo sul posto di prodotti di gastronomia, purché in assenza del servizio “assistito” di somministrazione. Da questa esplicita precisazione normativa sul tema del servizio assistito, il Giudice d’appello ha ricavato una lettura particolarmente ampia della fattispecie di somministrazione. Oltre alla nozione ricavabile dall’art. 1L. n. 287 del 1991, relativa alla vendita per il consumo sul posto, che comprende tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i prodotti nei locali dell’esercizio o in una superficie aperta al pubblico all’uopo attrezzati, il Collegio ha inserito il riferimento ad un elemento aggiuntivo, e cioè alla presenza di un vero e proprio servizio al tavolo, ulteriore e distinto rispetto alla vendita al banco dei prodotti alimentari. Insomma, l’espressione “somministrazione non assistita”, tanto in voga nella prassi per distinguere la fattispecie del consumo sul posto in un negozio anziché in pubblico esercizio, si è rivelata del tutto pertinente.

Cade il divieto di abbinare tavoli e sedie negli esercizi di vicinato

In conclusione, secondo la sentenza del Cons. di Stato n. 2280 del 8 aprile 2019, in assenza di un vero e proprio servizio al tavolo da parte di personale impiegato nel locale, il mero consumo in loco del prodotto acquistato, sia pure servendosi materialmente di suppellettili ed arredi -anche dedicati- presenti nell’esercizio commerciale, non comporta un superamento dei limiti di esercizio dell’attività di vicinato. Le attrezzature possono consistere in tavoli e sedie, ma a rigore anche tovaglioli o stoviglie, la cui generale messa a disposizione per un uso autonomo e diretto di per sé non integra un servizio di assistenza al tavolo, ben potendo essere utilizzati anche dagli acquirenti che decidano di non fermarsi nel locale.

Altro elemento a sostegno, il Collegio lo ha trovato nel riferimento alla possibilità di utilizzare i locali e gli arredi dell’azienda, con ovvio ed intuibile riguardo ai normali tavoli e sedie. Non trova quindi fondamento normativo né logico la pretesa, tra l’altro, di precludere l’abbinamento tra arredi, sedie e tavoli, posto da alcune circolari e risoluzioni del MISE.

Vendita e somministrazione: il discrimine

Il Consiglio di Stato ha criticato frontalmente le conclusioni a cui era giunto il Giudice del primo grado, che ha desunto l’esercizio dissimulato dell’attività di somministrazione in pubblico esercizio per la sola presenza di sedie e tavoli dotati di apparecchiatura e disposti ordinatamente per tutta la superficie della sala. Da tale configurazione, il T.A.R. ha ricavato che il consumo sul posto fosse un elemento prevalente rispetto alla mera vendita. In definitiva, la presenza di piani di appoggio precedentemente preparati con stoviglie e sottopiatti, rappresenterebbe il segnale inequivocabile di una componente organizzativa ed aziendale che è quella tipica della somministrazione.

Secondo il Giudice d’appello, premessa l’irrilevanza degli abbinamenti tra sedie e tavoli, la mera presenza di stoviglie, sottopiatti, tovaglie o altri accessori atti a preservare l’igiene e la pulizia degli arredi, non fornisce un univoco indice dell’attualità di un servizio al tavolo ad opera del gestore del locale, presupposto ineludibile perché possa esorbitarsi dal contesto dell’esercizio di vicinato. Inoltre, la semplice disposizione degli arredi non può definirsi in quanto tale e di per sé sola una “componente organizzativa ed aziendale tipicamente destinata alla somministrazione”.

Sgabelli, sedie, tavoli e piani di appoggio: la fine del “tormentone” degli arredi

Grazie alla sentenza del Cons.di Stato n. 2280 del 2019, è stata finalmente scritta la parola fine sul “tormentone” degli arredi, che da sempre vede in polemica il Ministero dello Sviluppo economico, da un lato, e l’Autorità Antitrust, dall’altro. Oggi, anche il MISE, da sempre arroccato su posizioni restrittive, al punto da affossare le tante opportunità offerte dal testo seppur laconico della legge Bersani, ha finalmente sdoganato le stoviglie durevoli e i calici di vetro, a patto che nel ciclo d’igiene sia previsto l’uso della lavastoviglie (Ris. 28 novembre 2016, n. 372321). L’unico baluardo che fino ad oggi ancora resisteva, era la funambolica impuntatura sugli arredi, per cui, come detto, chi utilizza tavoli non può abbinarli a sedie ma solo a sgabelli, e chi dispone di sedie tradizionali deve per forza associarle a piani d’appoggio. A parte le difficoltà di doversi districare nei meandri della tassonomia dell’arredo, la Giurisprudenza ha ormai preso atto dell’oggettiva impossibilità applicativa di queste speciose distinzioni e le ha archiviate.

A sancire la vittoria dell’Autorità nel lungo braccio di ferro contro l’ostinazione del MISE è stata la Sent. n. 2280 del 2019, che ha richiamato espressamente la Segnalazione S2605 del 27 ottobre 2016, avente ad oggetto “Distorsioni concorrenziali nel settore della vendita di alimenti e bevande con consumo sul posto”. In definitiva, l’unico elemento discriminatorio tra vendita negli esercizi di vicinato e somministrazione nei pubblici esercizi, è stato correttamente individuato nella presenza o meno del servizio al tavolo.

Lo stato dell’arte della Giurisprudenza prima della Sentenza n. 2280/2019

Il tema del consumo sul posto negli esercizi di vicinato ha visto atteggiamenti altalenanti da parte della giurisprudenza di primo grado. Ricordiamo infatti T.A.R. Sardegna, sentenza n. 20 del 14 gennaio 2015, con la quale è stato ritenuto illegittimo un regolamento comunale che vietava agli esercizi di vendita l’uso di strutture precarie, quali ad esempio gazebo e dehors, per lo stazionamento dei clienti che scelgono di consumare sul posto, magari di fronte al negozio, i prodotti alimentari acquistati un attimo prima. “Non si spiega -a detta del T.A.R.- la limitazione posta dall’impugnato regolamento in relazione all’attività di mera vendita, che può essere esercitata anche in locali privi di quei particolari requisiti richiesti per la somministrazione”. Il T.A.R. del Lazio, interessato da molteplici ricorsi da parte di operatori della Capitale sanzionati dall’amministrazione, ha assunto una posizione alquanto garantista, ben deciso a rimarcare in modo netto i confini tra consumo sul posto nei locali commerciali e somministrazione in pubblici esercizi (Sent. n. 100 del 2016).

L’ordinanza cautelare del Cons. di Stato n. 2572 del 2018 riguarda proprio un caso fotocopia rispetto a quello in esame. Un operatore ha subito un provvedimento inibitorio da parte del Comune, che ha contestato l’esercizio della somministrazione abusiva in quanto il locale presentava una certa dotazione di tavoli e sedie per il consumo sul posto dei prodotti alimentari cucinati all’interno di un laboratorio, in modo del tutto simile a quanto sarebbe accaduto in un ristorante. A fronte di un tale quadro dei fatti, il giudice di primo grado ha respinto l’istanza di sospensiva cautelare, mentre in sede d’appello, il Consiglio di Stato ha invece pensato di accogliere il gravame, ritenendo sussistente il pericolo di un grave pregiudizio discendente dall’atto impugnato, anche in base alla non univocità degli elementi accertati rispetto all’ipotizzata attività di somministrazione abusiva. E questo nonostante l’attività sia esercitata con l’utilizzo di tavoli, sedute, calici per le bevande, servizio assistito con mescita del vino, menù e consumo cibi in loco anche in rapporto alla superficie del locale destinata allo scopo. Insomma, il concorso di tutti questi elementi, del tutto approssimabili all’attività di somministrazione di tipo tradizionale, non è di per sé sufficiente ad identificarne l’esercizio in modo certo.

Prospettive di riforma: una soluzione

Archiviato una volta per tutte il tormentone degli arredi, vale la pena di riflettere sulle possibili evoluzioni della disciplina. Bisogna infatti prendere atto che da quando è possibile il consumo sul posto negli esercizi di vicinato, il confine tra commercio alimentare e somministrazione di alimenti e bevande in pubblico esercizio è diventato sempre più labile, al punto tale che non ha più molto senso continuare a mantenere barriere d’ingresso al mercato che costringono a scegliere l’una piuttosto che l’altra tipologia di attività, quando nel vissuto quotidiano le differenze vanno sempre più assottigliandosi. Meglio prevedere, in luogo della Scia per l’esercizio della vendita alimentare in esercizio di vicinato, distinta dalla Scia per la somministrazione di alimenti e bevande in pubblico esercizio, una generica Scia per l’avvio di un’attività alimentare. Che poi si venda, si somministri o si facciano entrambe le cose, dipenderà dai requisiti igenico-sanitari e strutturali del locale, dalle dotazioni e dal flusso di lavoro evidenziato nel manuale di autocontrollo.

In questo senso, la razionalizzazione dei regimi amministrativi contenuta nel decreto Scia2 (D.Lgs. n. 222 del 2016), in cui il Legislatore si è limitato a riproporre l’impianto normativo preesistente basato su ripartizioni rigide tra commercio e somministrazione, si è rivelata un’occasione perduta.

Cons. Stato Sez. V, Sent., (ud. 21 marzo 2019) 8 aprile 2019, n. 2280

Nessun tag inserito.

Torna in alto