tratto da luigioliveri.blogspot.com

A cosa serve un direttore generale?

All’inizio degli anni ’90 del secolo scorso la PA venne investita da una prima ondata di riforme, mai più fermatasi.

In quell’epoca si considerò necessario attuare le disposizioni degli articoli 97 e 98 della Costituzione sancendo la separazione delle competenze della politica, rispetto a quelle della gestione. Gli organi politici di governo non avrebbero più dovuto adottare puntuali e concreti atti amministrativi e gestionali, ma limitarsi alla programmazione politica ed amministrativa, controllando successivamente i risultati della gestione. Quest’ultima, nel rispetto degli indirizzi politico-amministrativi, sarebbe stata di esclusiva competenza dell’apparato gestionale.

Questo schema abbastanza lineare è stato, tuttavia, opacizzato e complicato dall’introduzione dello spoil system, nel tentativo di verticalizzare il più possibile la dirigenza, così che l’apparato politico potesse disporre di una dirigenza “di fiducia”, atta ad innescare un meccanismo perverso di violazione, talvolta sotterranea, talaltra plateale, del principio di separazione.

Il dirigente “di fiducia”, come spiega la Consulta (probabilmente poco coraggiosa nel non accorgersi che la dirigenza fiduciaria è il tassello che lede l’autonomia dell’intero apparato), viene scelto in ragione della “personale adesione” al programma politico della maggioranza. Più prosaicamente, le cronache spessissimo dimostrano che i vertici amministrativi fiduciari soni veri e propri incarichi politici (spesso riservati a politici non riusciti a superare l’agone elettorale), utilizzati allo scopo di superare appunto il vincolo di separazione. Il vertice è di fatto una longa manus della politica, che lungi dal coordinare e dirigere l’apparato con strumenti di efficienza amministrativa, adotta direttamente, ma più spesso tenta di imporre di adottare, decisioni gestionali direttamente assunte dalla politica, quale sua longa manus.

E’ chiaro che in questo modo tutto l’impianto salta per aria. Ed è esattamente questo tarlo nel sistema che consente vicende come quelle dell’azienda sanitaria di Perugia, ove il direttore generale, a quanto sembra dall’inchiesta, svolgeva solo la funzione di cinghia di trasmissione di decisioni politiche del tutto prive di contenuti programmatori, ma talmente concreti da individuare quale dirigente dovesse ricevere valutazioni positive e, soprattutto, quali persone dovessero vincere concorsi ridotti a mera sceneggiata.

Il direttore generale altro non è, in circostanze simili, se non il garante del travaso della gestione dall’apparato, che dovrebbe agire nel solo interesse della Nazione, verso la politica; esercitando anche funzioni di Cerbero della politica, come appare dall’inchiesta, da cui risulterebbe che il direttore generale ha inteso colpire la direttrice del reparto pedagogia, non proprio d’accordo con l’idea di dare valutazioni positive ad un medico genetista, da essa ritenuto non utile all’attività del reparto.

La vicenda, molto complicata in verità, dei bilanci dell’Ama a Roma, sembra impostata esattamente sulla stessa lunghezza d’onda.

Il sindaco della Capitale non ha ritenuto approvabile il bilancio presentato dalla propria partecipata. In un sistema normale, sarebbe sufficiente per il socio non approvare in assemblea il bilancio, spiegando perchè.

Il “governo degli uomini”, come male inteso da troppe amministrazioni, invece porta gli organi di governo a pretendere dalla dirigenza, compresi anche i vertici delle partecipate, l’adozione di decisioni imposte, anche se diametralmente inconciliabili con le valutazioni squisitamente tecniche. Dunque, la pretesa è che se un sindaco afferma che la Luna sia piatta, il dirigente debba adottare un provvedimento attestante che effettivamente la Luna è piatta. Pena la rimozione.

Ma, oltre a “ringhiare” il sindaco, ha mostrato i denti anche il direttore generale del comune di Roma, compreso – se gli elementi emersi dalla stampa fossero dimostrati – a sua volta nel ruolo di longa manus della politica, non proprio attento alla gestione tecnica efficiente ed efficace, come pretenderebbe l’articolo 108 del d.lgs 267/2000, ma ad agire quale incarnazione gestionale della politica.

E’ bene ribadirlo con forza: vicende come quelle emerse nelle cronache di questi giorni a Perugia e Roma non sono affatto un’eccezione. Il difficilissimo rapporto politica-gestione è la regola. Le “pressioni” sono all’ordine del giorno; quel che varia è la loro intensità, insistenza, possibile lesione dell’interesse pubblico e pericolo di giungere fino all’illecito penale.

Poichè si tratta di un “sistema”, la prima cosa che andrebbe fatta con urgenza è una cesura definitiva e inderogabile tra politica e gestione. Niente “governo degli uomini”.

I direttori generali, specie degli enti locali, se debbono svolgere il ruolo di Cerbero, non servono assolutamente a nulla.

Sono già stati opportunamente eliminati negli enti fino a 100.000 abitanti. Andrebbero del tutto aboliti, oggi.

Purtroppo, invece, la direzione di certe riforme e direttive contrattuali è un’altra, a conferma della invincibile coazione a ripetere errori di impostazione ormai trentennali.

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