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Legge di stabilità sempre con maxiemendamento e fiducia

Come era ampiamente previsto e prevedibile, a novembre è arrivato puntuale il maxiemendamento alla legge di stabilità, con tanto di voto di fiducia al Senato, in attesa di modifiche alla Camera, per il successivo voto finale, sempre con fiducia, di nuovo a Palazzo Madama.

I rituali di fine anno riguardanti la legge di finanza pubblica restano sempre identici a se stessi. In questo caso non c’è rottamazione che tenga. Come sempre uguali sono gli equilibri finanziari della manovra nel suo complesso: precari, molto precari, visto che oltre 2/3 sono coperti con crescita di deficit (e dunque di debito pubblico).

Le novità, quindi, del disegno di legge di stabilità, a parte qualche sanatoria alle illegittime gestioni dei bilanci delle regioni e della disciplina dei tributi locali e la solita complicazione alla tassazione sulla casa, sono ben poche, anche nel confronto col testo inizialmente approvato dal Consiglio dei ministri, in enorme ritardo rispetto al termine di presentazione al Parlamento.

Nella monotonia di modi e temi, va dato atto al Governo di aver almeno rispettato uno degli impegni: spingere il Parlamento a modificare il micidiale patto di stabilità che da anni attanaglia regioni ed enti locali. Il 2016 vedrà la fine, si spera definitiva, della paradossale competenza mista che ha bloccato per anni investimenti e pagamenti, per tornare ad una visione più equilibrata: un saldo di competenza di parte corrente, sia pure molto rigoroso.

Per il resto, riguardo a temi strettamente inerenti le amministrazioni, le ricette sono sempre identiche. Sugli appalti si continua ad inseguire vanamente la riduzione delle stazioni appaltanti, col risultato di aver reso la disciplina delle acquisizioni un labirinto di regole che si spera venga presto superato e razionalizzato, cogliendo l’occasione data dalla riforma del codice dei contratti.

E’ il lavoro pubblico a fornire il quadro maggiormente deludente, sebbene le disposizioni specificamente ad esso dedicate dal disegno di legge siano poche.

Nella realtà, di altro non si tratta se non di proseguire da un lato lungo la strada aperta dal Governo Monti, dall’altra di permettere in qualche modo di portare a termine il pastrocchio della ricollocazione dei dipendenti di province e città metropolitane.

Il tutto, con l’intento di raggirare attuare la sentenza della Corte costituzionale 178/2015, che ha riconosciuto l’incostituzionalità del blocco della contrattazione, stanziando pochissime risorse per i rinnovi, da un lato, e dall’altro ripristinando, sia pure sotto vesti parzialmente nuove, vincoli scaduti del d.l. 78/2010, norma proprio alla base della pronuncia di incostituzionalità della Consulta.

Il primo comma di interesse è il 118m, che cerca di recuperare dalla spesa del personale parte delle scarsissime risorse da finalizzare al rinnovo contrattuale. Sicchè si stabilisce che “nelle more dell’adozione dei decreti legislativi attuativi degli articoli 8, 11 e 17 della legge 7 agosto 2015, n. 124, e dell’attuazione dei commi 422, 423, 424 e 425 dell’articolo 1 della legge 23 dicembre 2014, n. 190, e successive modificazioni, sono resi indisponibili i posti dirigenziali di prima e seconda fascia delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, come rideterminati in applicazione dell’articolo 2 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, e successive modificazioni, vacanti alla data del 15 ottobre 2015, tenendo comunque conto del numero dei dirigenti in servizio senza incarico o con incarico di studio e del personale dirigenziale in posizione di comando, distacco, fuori ruolo o aspettativa”.

Tradotto in termini più semplici: non si potranno coprire i posti vacanti di qualifica dirigenziale delle dotazioni organiche delle amministrazioni statali, come già ridotto a seguito della spending review targata Monti, fino a quando non entreranno in vigore i decreti legislativi attuativi della riforma Madia della PA. Tuttavia, resteranno disponibili, a quanto pare di capire, i posti per assorbire i dirigenti privi di incarico o con incarichi di studio o in comando.

Questo comma va letto in combinazione col successivo 123: “Resta escluso dalle disposizioni di cui al comma 118 il personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, delle città metropolitane e delle province adibito all’esercizio di funzioni fondamentali, degli uffici giudiziari e dell’amministrazione della giustizia, dell’area medica e veterinaria e del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale. É escluso altresì il personale delle Agenzie di cui al decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 157”.

Quindi, non c’è il congelamento delle assunzioni delle qualifiche dirigenziali:

  1. per il personale non contrattualizzato;
  2. per il personale di province e città metropolitane appartenente alle funzioni fondamentali;
  3. per il personale
    1. degli uffici giudiziari e dell’amministrazione giudiziaria
    2. dell’area medica e veterinaria e dei ruoli del Ssn;
  4. per il personale delle Agenzie fiscali.

Sarebbe, però, interessante sapere dal Legislatore a cosa serva la precisazione riferita a province e città metropolitane, visto che a tali enti rimane totalmente ed inviolabilmente vietato di effettuare assunzioni a tempo indeterminato, di dirigenti come di personale di qualsiasi altra qualifica.

Sempre restando sulla questione della dirigenza e della razionalizzazione della spesa, con connessa riduzione dei ruoli, il comma 119 rinvia ad un “decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare entro il 31 gennaio 2016, su proposta del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze” il compito di effettuare “la ricognizione delle dotazioni organiche dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, delle agenzie, degli enti pubblici non economici, degli enti di ricerca, nonché degli enti pubblici di cui all’articolo 70, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni”.

Si tratta, in effetti, di un adempimento estremamente importante soprattutto in vista della riforma della dirigenza disegnata dall’articolo 11 della legge 124/2015, allo scopo di comprendere quali posti risultino disponibili, visto che è necessario capire che margini di flessibilità vi saranno ai fini della revisione degli incarichi e della copertura dei posti vacanti. Specie perché tale copertura avverrà in tempi estremamente lunghi: infatti il sistema del corso concorso e dei concorsi previsto dalla legge 124/2015 richiede un periodo di tre anni prima di consolidare nei ruoli i nuovi dirigenti.

Anche regioni ed enti locali sono chiamati, dal comma 120, ad effettuare la “ricognizione delle proprie dotazioni organiche dirigenziali secondo i rispettivi ordinamenti, nonché il “riordino delle competenze degli uffici dirigenziali, eliminando eventuali duplicazioni. Ovviamente, si tratta di adempimenti di particolare rilievo per le grandi città e le regioni, enti nei quali è più facile riscontrare casi eventuali di duplicazioni, rispetto a comuni di dimensioni maggiormente contenute ove le dotazioni organiche dirigenziali risultano molto più ristrette.

Il comma 120, tuttavia, si segnala per la soluzione che pone al problema sollevato da un indirizzo della giurisprudenza amministrativa eccessivamente formalista, secondo il quale l’avvocatura dei comuni ed i comandanti della polizia locale non solo non possano essere inserite in strutture dirigenziali più ampie, ma, soprattutto, possano svolgere esclusivamente detti incarichi, senza commistioni. Il che crea comprensibili problemi organizzativi esattamente ai comuni di dimensioni medio piccole.

Il comma risolve il problema, stabilendo che “Allo scopo di garantire la maggior flessibilità della figura dirigenziale nonché il corretto funzionamento degli uffici, il conferimento degli incarichi dirigenziali può essere attribuito senza alcun vincolo di esclusività anche al dirigente dell’avvocatura civica e della polizia municipale.

Ma, l’esiguità della dotazione organica dirigenziale degli enti di minori dimensioni pone anche il problema, in verità irrisolvibile, della loro rotazione. Anche in questo caso, il comma 120 del ddl di stabilità sacrifica la forma e le velleità della normativa anticorruzione alla sostanza: “Per la medesima finalità, non trovano applicazione le disposizioni adottate ai sensi dell’articolo 1, comma 5, della legge 6 novembre 2012, n. 190, ove la dimensione dell’ente risulti incompatibile con la rotazione dell’incarico dirigenziale”.

Il comma 124 introduce un’intersecazione di difficile comprensione (e probabilmente scarsa utilità), con le disposizioni del “salva Roma” a proposito dei rimedi apprestati alla costituzione e/o distribuzione del salario accessorio affetta da vizi di legittimità.

Il comma prevede che “Le regioni e gli enti locali che hanno conseguito gli obiettivi di finanza, pubblica possono compensare le somme da recuperare di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4 del decreto-legge 6 marzo 2014, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 maggio 2014, n. 68, anche attraverso l’utilizzo dei risparmi effettivamente derivanti dalle misure di razionalizzazione organizzativa adottate ai sensi del comma 120, certificati dall’organo di revisione, comprensivi di quelli derivanti dall’applicazione del comma 126”.

La disposizione di futura introduzione nell’ordinamento è molto simile a quanto già previsto appunto dall’articolo 4 del “decreto salva Roma”. Esso, infatti, già consente di utilizzare i risparmi derivanti dalla razionalizzazione delle dotazioni organiche dirigenziali (estendendo agli enti locali misure che il d.l. 95/2012 indica alle amministrazioni statali). Dunque, il riordino della dirigenza come derivante dall’attuazione del comma 120 del ddl di stabilità appare palpabilmente di scarsissima utilità.

Non appare, poi, chiaro quali sarebbero i risparmi utilizzabili per attutire gli effetti del taglio alle risorse decentrate allo scopo di sanarne i vizi, scaturenti dall’applicazione del comma 126.

E’ opportuno riportare, allora, il testo di tale comma 126: “Le amministrazioni di cui all’articolo 3, comma 5, del decreto-legge 24 giugno 2014 n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, e successive modificazioni, possono procedere, per gli anni 2016, 2017 e 2018, ad assunzioni di personale a tempo indeterminato di qualifica non dirigenziale nel limite di un contingente di personale corrispondente, per ciascuno dei predetti anni, ad una spesa pari al 25 per cento di quella relativa al medesimo personale cessato nell’anno precedente. In relazione a quanto previsto dal primo periodo del presente comma, al solo fine di definire il processo di mobilità del personale degli enti di area vasta destinato a funzioni non fondamentali, come individuato dall’articolo 1, comma 421, della legge n. 190 del 2014, restano ferme le percentuali stabilite dall’articolo 3, comma 5, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114. Il comma 5-quater dell’articolo 3 del decreto-legge 24 giugno 2014, n, 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, è disapplicato con riferimento agli anni 2017 e 2018”.

Esaminiamo, intanto, in modo da razionalizzarlo, il contenuto sostanziale. Il comma contiene una serie di precetti:

  1. un giro di vite al tetto al turn-over, che viene drasticamente abbassato per tutti gli anni 2016, 2017 e 2018 al solo 25% della spesa del personale non avente qualifica dirigenziale (le assunzioni dei dirigenti sono sostanzialmente bloccate, come visto sopra) cessato l’anno precedente. Il tutto, in barba alla flessibilizzazione delle assunzioni e della “staffetta generazionale” di cui si era tanto sproloquiato nel 2014, a seguito dell’approvazione del d.l. 90/2014;
  2. la conferma del regime di congelamento delle assunzioni disposto dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, per agevolare la ricollocazione del personale provinciale in sovrannumero con:
    1. la precisazione che nel 2016, ultimo anno di applicazione del regime straordinario di cui al citato articolo 1, comma 424, resta ferma la percentuale dell’80% della spesa del personale cessato l’anno precedente;
  3. la disapplicazione, per i soli anni 2017 e 2018, del “bonus” concesso agli enti virtuosi dall’articolo 3, comma 5-quater, del d.l. 90/2014, a mente del quale agli enti locali la cui incidenza delle spese di personale sulla spesa corrente è pari o inferiore al 25 per cento, possono procedere ad assunzioni a tempo indeterminato entro il 100% del turn over.

Il comma 126, come si nota, non brilla assolutamente per chiarezza e sistematicità e sarà fonte certa di intoppi operativi ed interpretativi.

Si può, però, affermare che, fino a quando non si sarà concluso il processo di ricollocazione dei poco meno di 2.000 dipendenti provinciali ancora in sovrannumero, nel 2016 gli enti locali avranno ancora in sostanza la possibilità di destinare a tali ricollocazioni il 100 della spesa delle cessazioni avvenute nel 2016, detratte (se vi sono) le spese per assunzioni di vincitori di concorsi appartenenti a graduatorie vigenti o approvate alla data dell’1.1.2015.

Invece, le assunzioni non riferite al personale delle province in sovrannumero potranno essere finanziate:

  1. con le risorse del triennio 2012-2014 non spese (ma, in realtà le risorse del 2014 dovrebbero essere state erose dalle esigenze di ricollocazione del personale provinciale del 2015…);
  2. con il 25% della spesa del personale cessato, che finanzia nella sostanza le assunzioni ammesse dal combinato disposto della deliberazione della Sezione Autonomie della Corte dei conti 19/2015 e dell’articolo 4 del d.l. 78/2015: di fatto, le figure da adibire ai servizi sociali e dell’istruzione, caratterizzati da profili infungibili o titoli di studio del tutto peculiari (educatori asili nido e assistenti sociali).

Se nel 2016 si chiuderà la vicenda della ricollocazione, allora si ripristineranno le vecchie regole: niente più congelamento delle assunzioni, ma il limite sarà quello del 25% della spesa del personale cessato nel 2015; probabilmente sarà utilizzabile, però, l’incentivo per gli enti virtuosi, previsto dall’articolo 3, comma 5-quater, del d.l. 90/2014, ma per l’ultima volta, visto che non sarà applicabile negli anni 2017 e 2018.

Chiusa con un senso di vertigini la descrizione del comma 126, non resta che tornare a chiedersi, ma senza risposta, quali possano essere i risparmi ricavabili dalla disciplina ivi dettata, ai fini della riduzione degli oneri sulla contrattazione decentrata, per sanarne i vizi.

Il gran finale è da riservare al comma 128, norma che sarebbe assai piaciuta a Giambattista Vico e Giuseppe Tomasi di Lampedusa, visto che rappresenta l’eterno perpetuarsi di un divenire destinato a trasformarsi nell’eguale a se stesso. Il comma, di fatto, ripristina sia pure in forme leggermente diverse, le famigerate disposizioni dell’articolo 9, commi 1 e 2-bis, del d.l. 78/2010, reintroducendo il blocco della contrattazione decentrata: “Nelle more dell’adozione dei decreti legislativi attuativi degli articoli 11 e 17 della legge 7 agosto 2015, n. 124, con particolare riferimento all’omogeneizzazione del trattamento economico fondamentale e accessorio della dirigenza, tenuto conto delle esigenze di finanza pubblica, a decorrere dal 1° gennaio 2016 l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, Gomma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, non può superare il corrispondente importo determinato per l’anno 2015 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi della normativa vigente”.

Per quanto la norma non sia destinata a durare a lungo, in quanto l’attuazione della riforma Madia della PA dovrebbe farne cessare l’efficacia, per un tempo difficilmente inferiore all’anno 2016 sortirà effetti già noti e visti:

  1. fissare un tetto all’ammontare complessivo delle risorse decentrate, che non sarà più quello del 2010, bensì quello del 2015, oltre il quale non sarà possibile spingersi;
  2. ridurre detto ammontare in proporzione alla cessazione del personale in servizio.

C’è, però, una new entry (perché il passato si ripete, ma mai, in effetti, esattamente uguale, bensì sempre entropizzato da vizi deformanti): la necessità di tenere conto “del personale assumbile ai sensi della normativa vigente”. Si tratta di una fantastica espressione che nemmeno la Sibilla cumana sarebbe riuscita a rendere più criptica. Così, nel 2016 ci sarà occasione non solo di rispolverare i conteggi più assurdi e ovviamente mai dettati dal legislatore su come computare i tagli da apportare ai fondi decentrati per effetto delle cessazioni, ma anche di scervellarsi per capire cosa mai significhi effettuare quei tagli, ma tenendo conto del personale assumibile: cioè, tagliarli solo se non sia assunto il personale assumibile? O solo fino per il periodo nel quale detto personale non sia assunto?

Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, Aran, Funzione Pubblica e Ragioneria generale dello stato possono essere contenti: scaldino i motori: il 2016 sarà occasione per rendere ancora più caotico l’ordinamento con pareri che, come sempre, diranno tutto ed il suo esatto contrario.

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