21 OTT 2016 11:13

La classe dirigente di Renzi – Con la riforma Madia, incostituzionale e costosa secondo il Consiglio di Stato, la politica può promuovere dirigenti amici e rimuovere quelli scomodi, in barba ai concorsi, carriere e diritti acquisiti. La pubbica amministrazione sarà in balia dei capricci del governo di turno.

Sarina Biraghi per “La Verità”

Incostituzionalità dichiarata e nessun risparmio accertato. È il risultato finale del decreto sulla dirigenza pubblica compreso nella tanto decantata riforma della Pubblica Amministrazione firmata dal ministro Marianna Madia. Tutto in nome dell’abbattimento della burocrazia e del conseguente risparmio.

Eppure «la burocrazia evita molti danni», dice Bernadette Veca, direttore generale del ministero delle Infrastrutture, nel Comitato dei manager di Stato che si oppongono al decreto difendendo gli articoli 97 e 98 della Costituzione. Atteso dal Comitato era il parere del Consiglio di Stato arrivato una settimana fa: su 114 pagine di spiegazione ne dedica una trentina proprio all’ incostituzionalità del decreto che vìola i due articoli.

La tanto contestata burocrazia è l’impianto generale delle regole che reggono l’apparato burocratico dello Stato e i dirigenti della Pa sono quelli che approfondiscono i procedimenti amministrativi per verificarne la legittimità e la formale correttezza così da non ledere interessi contabili, amministrativi ed erariali, evitando conseguenze dannose al privato e agli enti pubblici.

Così come è spesso percepita dalla gente, però, burocrazia significa tempi lunghi e farraginosità e la riforma dice che abbatterà proprio le lungaggini con un ricambio dei dirigenti.

Il Consiglio di Stato, sottolineando quanto scritto nella Costituzione sui rapporti tra politica e amministrazione, e cioè «la necessità di assicurare ai funzionari alcune garanzie per sottrarli all’ influenza dei partiti politici per avere un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei partiti», si rifà agli articoli 97 e 98 della Carta che prevedono la regola della piena autonomia gestionale dell’attività dirigenziale.

L’ articolo 97 prevede il principio di imparzialità dell’azione amministrativa che si ottiene anche attraverso la selezione obiettiva del dirigente attraverso il concorso pubblico.

L’ art. 98 invece dispone che i «pubblici impiegati siano al servizio esclusivo della Nazione». Inoltre i giudici amministrativi citano anche l’articolo 95 sulla responsabilità dei ministri sugli atti del loro dicastero. Insomma l’amministrazione è separata dalla politica ma infine la politica si sovrappone all’ amministrazione in funzione di controllo.

A questo punto, il Consiglio di Stato, ribadendo che gli articoli 97 e 98 sono corollari all’ imparzialità ed esprimono la distinzione «tra azione di governo e l’azione amministrativa», ritiene costituzionalmente illegittima l’applicazione dello spoil system e quindi non consentita la «sostituzione dei dirigenti che stanno esercitando le loro funzioni con altri dirigenti “graditi” ai nuovi organi politici».

Inoltre viene analizzata la criticità degli spostamenti dei dirigenti in altri enti e la necessità che siano riconosciute professionalità e competenze.

Qui subentra infatti l’altro nodo: in sostanza la riforma renziana prevede l’azzeramento di qualsiasi tipo di carriera e del diritto soggettivo del concorso superato, visto che lo spoil system allargato comprenderebbe non solo figure qualificate apicali, come capi dipartimento e segretari generali, ma anche i dirigenti di seconda fascia dello Stato e pure di Regioni, Comuni…

Infatti se un dirigente viene sollevato dal proprio incarico ha diritto a un altro equivalente e la tutela di un diritto soggettivo viene affidata a un albo simile a quello delle professioni.

Ora il Comitato dei manager spera si facciano le correzioni dovute visto che l’impianto è stato censurato dal Consiglio di Stato perché, come sottolinea la Veca «questa riforma ha due effetti non palesi ma destabilizzanti: l’azzeramento del diritto soggettivo di chi ottiene un incarico dopo aver vinto un concorso pubblico e la creazione di un esercito di dirigenti privi di incarichi e di funzioni».

In sostanza per chi lavora nei gangli dei ministeri la burocrazia è una scusa per applicare lo spoil system con la conseguenza che il governo di turno potrà individuare soggetti “amici”, renderli responsabili esclusivi strapagandoli, quindi con costi superiori all’ attuale dirigenza, mettendo così a repentaglio la tenuta del sistema.

Il risparmio di spesa ipotizzato dalla Madia, secondo la manager delle Infrastrutture, non ci sarà perché sarà annullato dal contenzioso promosso da chi perderà ingiustamente posizione e retribuzione. Basti pensare che chi sarà sollevato dall’ incarico perderà il 50% della retribuzione subito, e se entro due anni non si ricollocherà verrà cancellato dall’ albo e quindi dai ruoli della Pa con un demansionamento «per legge».

Non una riforma a costo zero quindi, «ma con costi anche umani visto il trattamento riservato a professionisti che hanno giurato sulla Costituzione la loro dedizione allo Stato» sottolinea la Veca.

Se da una parte sembra che la riforma scardini la funzione di garanzia della dirigenza pubblica dall’ altra le lascia in capo tutte le responsabilità liberando il ministro di turno di ogni «colpa» malgrado il Consiglio di Stato ribadisca che è del responsabile del dicastero l’esclusiva responsabilità degli atti. Insomma una immunità amministrativa, estesa a sindaci e governatori, che andrebbe ad aggiungersi a quella parlamentare.

Sembra impossibile stare dalla parte dei dirigenti di Stato quando i cittadini si scontrano ogni giorno con l’inefficienza della Pa ma come ribadisce Bernadette Veca «i cittadini pagheranno ancora di più perché al nostro posto arriveranno persone non competenti che non salvaguarderanno l’ interesse della gente ma del loro referente politico e la conseguenza sarà lo sfascio.

La conclusione della Veca è tranchant: «C’ è un sillogismo tra il principio della riforma della dirigenza e il referendum costituzionale del 4 dicembre: accentrare tutte le funzioni in capo al Governo e così chi va a Palazzo Chigi decide su tutto».

 

 

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