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Itinerari della Giustizia amministrativa e del suo giudice
(Relazione introduttiva al Convegno per i 130 anni della Quarta Sezione del Consiglio di Stato – Palazzo Spada, 20 novembre 2019)
di Filippo Patroni Griffi – Presidente del Consiglio di Stato – Pubblicato il 20 novembre 2019
 
1 – La prima (lunga) tappa dell’itinerario: una storia di tutele
“Io concepisco che alla maggioranza si lasci tutta la balìa che si voglia, ma dentro certi confini prescritti, non dall’uomo, ma dalla legge, in modo che le minoranze, quando si credono offese, cioè quando si vede che le maggioranze calpestano la legge contro i loro interessi, abbiano modo di ricorrere a un magistrato per averne ragione[1]”.
Queste parole pronunciate alla Camera nel 1876 da Silvio Spaventa suonano come il prologo al ben più noto discorso di Bergamo del maggio del 1880 che, unitamente al discorso pronunciato da Marco Minghetti a Napoli all’Associazione di diritto costituzionale l’8 gennaio 1880[2] sulla ingerenza della politica nell’amministrazione, sono alla base della legge Crispi del 31 marzo 1889, n. 5992.
Questa, come è noto, segna la nascita della giustizia amministrativa in Italia, attraverso l’istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato di cui quest’anno ricorre il 130° anniversario.
Il giudice amministrativo viene re-istituito per colmare una lacuna, quella lacuna nella tutela delle situazioni soggettive dei privati che non assumessero consistenza, nella dommatica e nella giurisprudenza tradizionali, di diritto soggettivo. Un prezzo che i sistemi fondati sulla struttura portante del diritto “comune” ai rapporti privatistici e pubblicistici sembra destinato a scontare se, non solo l’esperienza della giurisdizione unica in Italia durerà solo 34 anni, ma la stessa esperienza belga, che di quella costituì il modello, abbraccerà il sistema di doppia giurisdizione con l’istituzione del Consiglio nel 1946[3] e l’ordinamento “comune” per eccellenza, quello del Regno Unito, configurerà nel tempo -accanto all’emersione di una branca “speciale” del diritto come administrative law, che acquista una considerazione autonoma non solo dalla private law ma anche dalla constitutional law- una particolare forma di sindacato giurisdizionale, il Judicial Review, come tutela propria nei confronti dei poteri pubblici, con una corrispondente progressiva erosione dell’area dei Crown’s Privileges. Inoltre, lo stesso ordinamento tedesco, incentrato sulla figura centrale del diritto soggettivo pubblico simmetrico alla figura di analoga configurazione del diritto soggettivo tra privati, si troverà presto a dover affrontare il tema della discrezionalità amministrativa e della sua sindacabilità, con tecniche di tutela decisamente analoghe a quelle dei giudici dei sistemi a doppia giurisdizione, nell’ambito di un sistema, in effetti, che conosce una giurisdizione amministrativa autonoma e distinta dalle altre giurisdizioni.
La riflessione sulle origini della giustizia amministrativa, sulla coabitazione di funzioni consultive e giurisdizionale, sul contributo della Quarta sezione, insieme con la dottrina dell’epoca, alla formazione di un diritto amministrativo nazionale, che progressivamente abbandona il metodo esegetico francese e rielabora in chiave nazionale le figure soggettive importate dalla dommatica tedesca, infine, il dibattito alla Costituente e la lettura attuale del testo costituzionale, saranno oggetto delle relazioni della mattinata, che si concluderà con l’analisi di due aspetti centrali della tutela nei confronti del potere pubblico –il sindacato sulla discrezionalità in un sistema a modello normativo aperto e il principio di proporzionalità come tecnica di sindacato- ma affronterà anche il tema della convivenza tra due giurisdizioni in un’ottica che sola giustifica un sistema duale: non già la separatezza tra le tutele nella logica di una rivendicazione tra poteri, bensì una integrazione di tutele che renda piena e completa la garanzia dei diritti e degli interessi dei privati nei confronti di tutti gli attori dell’ordinamento. Una tutela i cui strumenti operativi, nelle svariate situazioni che si verificano nella complessità dell’ordinamento e delle stesse relazioni tra cittadino e potere, saranno esaminate nel corso della sessione pomeridiana.
Il giudice amministrativo è un giudice un po’ particolare, non solo in Italia. Nasce come un giudice dell’amministrazione, in senso soggettivo, cioè come un giudice speciale perché l’amministrazione non può essere giudicata che da sé stessa, o comunque da un organo che “deriva” da essa; si trasforma gradualmente, ma abbastanza repentinamente, in un giudice dell’amministrazione in senso oggettivo, cioè di un giudice che giudica l’amministrazione. La chiave di volta del passaggio dal contenzioso amministrativo preunitario al sistema di doppia giurisdizione del 1889 della legge Crispi è non tanto la reintroduzione in sé del giudice amministrativo, quanto piuttosto la trasformazione del giudice del contenzioso, pensato nella logica interna all’apparato amministrativo, in un giudice indipendente a garanzia dei diritti e degli interessi dei privati nei casi di esercizio illegittimo del potere pubblico. La storia vera della giustizia amministrativa comincia da qui, si sviluppa grazie all’autorevolezza del Consiglio di Stato e con il favore della Corte di cassazione, ma anche grazie al rispetto del ceto politico, e dei governi, che riconoscono l’autorità del giudice amministrativo nel sindacare l’esercizio del potere. Ed è una storia di tutele. Una storia –come è stato detto- di lotta contro il potere arbitrario.
 
Il comune denominatore che caratterizzerà, in maniera progressivamente più marcata, il nostro sistema di giustizia amministrativa è la collocazione del suo giudice: il giudice amministrativo è un giudice che essenzialmente tutela diritti, non il guardiano della legalità amministrativa. Se quest’ultimo fu il fine dichiarato nel dibattito parlamentare che accompagnò la legge Crispi, la centralità della tutela dei diritti (all’epoca dei cd. diritti minori) è presente fin nei richiamati discorsi di Minghetti a Napoli e di Spaventa a Bergamo. Ed è sintomatico che un autorevole studioso, il Guicciardi, avrà a lamentarsi di “una deformazione del concetto di giurisdizione del Consiglio di Stato, nella quale si fu indotti a vedere piuttosto un mezzo per la tutela degli interessi dei cittadini che un mezzo per la repressione dell’invalidità degli atti amministrativi a garanzia dell’interesse pubblico”[4].
Questa concezione della giurisdizione –che verrà definita “subiettiva”- si consolida progressivamente nella giurisprudenza della Quarta Sezione (e, prima della sua istituzione, in quella consultiva sui ricorsi straordinari al re) fino all’attuale formulazione del testo costituzionale, ancor più nella lettura che ne darà la sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale[5]. Sicché appropriatamente si è parlato di recente di “tecniche di attuazione dei diritti nel processo amministrativo”[6]; e si è delineato un quadro costituzionale di riferimento che configura il giudice amministrativo come il giudice dei poteri pubblici, o meglio, come il giudice dell’amministrazione che agisca in veste di autorità: una versione riveduta e aggiornata del giudice ordinario degli interessi legittimi di cui parlava negli anni 70 Mario Nigro, nel suo indimenticabile volume sulla Giustizia amministrativa.
Nell’ordinamento italiano, che si fonda sulla dialettica (termine che reca in sé l’idea del dinamismo della relazione) tra libertà e autorità (Giannini), la dilatazione, diretta o indiretta, dei poteri pubblici -connessa allo Stato sociale di diritto, all’intervento pubblico nell’economia e allo Stato promotore di benessere- nonché la trasformazione dello stesso diritto soggettivo, non più diritto assoluto di stampo quiritario ma diritto conformato dai suoi aspetti relazionali e dal valore “solidaristico” di cui è permeata la Costituzione, impongono, da un lato, una posizione preminente spesso assegnata al potere pubblico come espressione degli interessi della collettività, ma, dall’altra, la configurazione di un penetrante strumento di controllo del legittimo esercizio di questo potere, destinato a prevalere per legge sull’interesse del singolo solo se esercitato secondo i parametri, più o meno puntuali, di legittimità. Un controllo sul legittimo esercizio del potere, però, non fine a sé stesso ma svolto in funzione sia di garanzia “difensiva” dei diritti e degli interessi dell’individuo, sia di garanzia “pretensiva” dei diritti a prestazioni amministrative, su cui si fondano i diritti sociali; duplice garanzia che, unitariamente considerata, denota la qualità della democrazia amministrativa. Le costituzioni democratiche nate nel dopoguerra puntano senz’altro a garantire i diritti inviolabili della persona. Ma accanto a questi, e spesso intrinsecamente legati a questi, ci sono i diritti delle persone in quanto appartenenti a una comunità solidale, i diritti sociali, i diritti alle prestazioni amministrative, che costituiscono la misura concreta dei diritti riconosciuti dalle Costituzioni alle persone.
Il giudice amministrativo, riassuntivamente, si colloca nello snodo dei rapporti tra persona e potere e ripete la propria ragion d’essere da una funzione lato sensu di “garanzia”, fondante la giurisdizione, che si ammanta di una “specialità” propria che le deriva dalla “specialità” delle vicende del potere e delle sue trasformazioni nel rapporto con gli individui e nella regolazione della comunità.
 
2 – La seconda tappa: i punti salienti delle trasformazioni della giustizia amministrativa
La giustizia amministrativa, al pari e anche più di altre branche del diritto, risente dei mutamenti di contesto: a livello politico (nelle scelte sulle priorità di ordine sociale che si traducono nelle scelte legislative e nella loro conseguente attuazione a livello amministrativo), a livello economico (perché le decisioni del giudice amministrativo impattano su settori di rilevanza economica, quali la regolazione e il governo del territorio), a livello sociale (si pensi alle connessioni, di cui si è fatto cenno, con i servizi pubblici e le prestazioni sociali). Risente inoltre di un contesto internazionale e soprattutto sovranazionale in continua evoluzione; perché quel contesto vede accrescersi l’intermediazione dei poteri pubblici anche in un mercato che si vuole affidato al principio di concorrenza e in una situazione che vede affiancare considerazione di ordine sociale alle logiche puramente economiche.
Vediamo allora schematicamente, e con l’arbitrarietà di siffatte scelte, quali aspetti dell’evoluzione del contesto di riferimento inducono a caratterizzare le trasformazioni della giustizia amministrativa nel corso di questi 130 anni e in prospettiva futura.
2.1 Dal sindacato “estrinseco” sulla legittimità del provvedimento alla cognizione “piena” del rapporto e della discrezionalità tecnica. Nello schema originario e tradizionale della giurisdizione amministrativa, per la verità più a parole che nei fatti, il giudice amministrativo conosce del rapporto tra amministrazione e cittadino attraverso lo “schermo” di validità dell’atto e non approdava in modo positivo e sostanziale alla risoluzione del conflitto bensì si arrestava al profilo “estrinseco” del provvedimento. Il giudizio in qualche modo “proseguiva” dal procedimento di cui il giudice verificava la correttezza sia nell’andamento sia nella conformità a legge del risultato. Questo schema, in verità sin dalle origini eroso dall’applicazione pratica del vizio di eccesso di potere, verrà progressivamente “destrutturato” dal carattere composito della pronuncia del giudice, pur con tutti i limiti derivanti da un contesto caratterizzato da una larva di indagine istruttoria, dalla non operatività del principio del dedotto e del deducibile e dalla ritenuta “inesauribilità” del potere. Così nella sentenza al tipico effetto impugnatorio, corrispondente all’azione tipica di annullamento, si accompagneranno gli effetti ordinatorio e soprattutto conformativo rispetto all’ulteriore attività dell’amministrazione, il cui spazio di operatività e di libertà verrà depotenziato dapprima nel giudizio di ottemperanza e poi, con l’avvento del codice del processo, nello stesso giudizio di cognizione. Il codice infatti disegna un confine mobile tra cognizione e ottemperanza, riconducendo alla fase della cognizione valutazioni del giudice e strumenti di tutela prima ritenuti esclusivi dell’ottemperanza.
La cognizione, infatti, assume una fisionomia ben diversa: non solo si estende alla piena conoscenza del fatto (con l’ausilio degli strumenti probatori occorrenti), ma riconduce sempre più nell’alveo della legittimità della scelta l’ambito della discrezionalità tecnica. In virtù di ciò, in settori tradizionali (per esempio, quello dei beni culturali o dei concorsi universitari, mentre resiste quello degli esami di abilitazione) o di più recente rilevanza (soprattutto quello delle sanzioni e della regolazione economica, sia pure con accenti che devono restare differenti), l’area del “merito” amministrativo resta confinata alla scelta vera e propria, a parità di contesto, mentre il giudice valuta se la scelta effettuata in concreto sia quella “giusta”, cioè quella dotata di “maggiore attendibilità” e non semplicemente quella comunque riconducibile al novero delle opzioni possibili. E la stessa inesauribilità del potere viene ridefinito nei termini di una sorta di potere a “inesauribilità limitata” a fronte dell’esercizio ripetutamente illegittimo del potere in concreto.
In questo quadro avrà ancora senso distinguere tra giurisdizione di legittimità e di merito? Delle ipotesi tassative di giurisdizione nel merito si può tranquillamente fare a meno, mentre il rischio di riproporre tale distinzione è quello di depotenziare pienezza ed effettività della giurisdizione di legittimità, anche attraverso l’improprio ricorso alla figura dell’eccesso di potere giurisdizionale. Mentre lo stesso giudizio di ottemperanza (e quello cautelare), che costituisce esercizio di giurisdizione di merito per i caratteri propri delle valutazioni e dei poteri esercitati dal giudice, vede la propria area –come si diceva- estendersi o restringersi rispetto al giudizio di cognizione in quel confine “mobile” che pone in crisi la distinzione operata dalla Corte regolatrice ai fini del richiamato sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione.
2.2 Il giudice amministrativo e la prevalenza degli “strumenti” di tutela (i “rimedi”) sulle situazioni soggettive. L’integrazione delle tutele nel sistema duale
In realtà vi è un dato di fondo nel segno della continuità nella “vicenda di tutela” di cui è stato protagonista il Consiglio di Stato. Lo schema dogmatico del diritto pre-dato cui consegue l’azione, nel senso che non può esservi azione senza diritto è uno schema che, nei decenni, si è adattato con difficoltà al giudizio amministrativo e al suo giudice. Può sembrare che sia una violazione della rule of law e della divisione dei poteri, per giunta ad opera di un non-giudice nato proprio per sottrarre il potere al sindacato “ordinario” del giudice ordinario. Ma in realtà questa inversione logica dello schema “diritto-azione” nasce proprio per garantire il principio di legalità e l’effettività della tutela. Se nello schema “ordinario” civilistico il modello normativo utilizzato è quello “completo” della fattispecie astratta cui ricondurre il caso, la giurisdizione amministrativa, per essere effettiva, è costretta a “seguire” o meglio inseguire il potere nel suo farsi e nella sua dinamicità. E tale situazione si accentua nella crisi del tradizionale modello di legalità sostanziale, una crisi in cui il potere si fa in concreto, nella cornice di un modello normativo “aperto”, nel confronto “procedimentale” e nel bilanciamento con altri interessi pubblici e privati. E il giudice o fa il giudice dell’assetto degli interessi, con cautela e responsabilità ma con determinazione, oppure serve a poco, perché il suo sindacato non sarà capace di penetrare la sostanza del potere e dare tutela alla sostanza della situazione soggettiva dell’interessato. Il giudice amministrativo è più attento ai rimedi delle lesioni subite per l’esercizio illegittimo del potere che alle situazioni soggettive preesistenti da tutelare. Anche perché molte di queste situazioni non “preesistono” come nei codici civili, ma sono esse stesse di origine giurisprudenziale, fatte valere e “riconosciute” come posizioni sostanziali in quanto legittimanti, secondo una vicenda storica descritta da Mario Nigro come di emersione di interessi giuridici dall’indistinto mondo degli interessi di fatto.
L’interesse legittimo, il vecchio non-diritto, diventa uno strumento giuridico di straordinaria efficacia contro l’arbitrio del potere. Questa è la ragione per cui, anche nella Costituzione ma soprattutto nella successiva giurisprudenza della Corte, non solo l’interesse legittimo “sta lì” ma se ne dà oramai, in dottrina come nella giurisprudenza della Corte, una lettura attenta alla sostanza del fenomeno: l’interesse legittimo è la situazione soggettiva (attiva) a fronte di un potere pubblico mal esercitato o malamente non esercitato, in quest’ultimo caso in un’ottica “pretensiva” che presuppone la doverosità della funzione pubblica a certe condizioni.
Diritti e interessi –questa “nuova” accezione di interesse legittimo- compongono la sfera giuridica del soggetto dell’ordinamento che entri in contatto con il potere pubblico o avanzi pretese che, per essere soddisfatte, abbisognino dell’intermediazione dell’azione amministrativa. Ogni comportamento illegittimo dell’amministrazione si traduce in una lesione, in positivo o in negativo, di questa sfera giuridica. E, a fronte di questa lesione, il giudice, liberato dagli schemi della tipicità dell’azione, adotta i rimedi occorrenti per ripristinare l’integrità della sfera giuridica, fatta di interessi giuridicamente tutelati (per usare la nota definizione di Jehring).
Un’ottica siffatta richiede una riflessione sul riparto di giurisdizione. Questo dovrebbe essere orientato alla integrazione delle tutele che i due giudici sono in grado di offrire, In altri termini, il sistema duale di giurisdizione, assai più diffuso di quanto non si dica talvolta, ha la sua ragion d’essere, in linea generale, nella sua capacità di offrire la miglior tutela in concreto alle situazioni soggettive. Queste, c’è poco da fare, sono diverse a seconda che l’interlocutore sia un altro privato cittadino o “un’amministrazione che agisce in veste d’autorità” –e non anche che agisca evidentemente anch’essa come un comune cittadino. E quindi dalla parità delle situazioni tutelate discende l’esigenza di avere un giudice dotato di strumenti effettivi che possano essere “ordinariamente” utilizzati nei confronti del potere. E’ questo, in definitiva, il senso del giudice ordinario degli interessi legittimi, di cui parlava Nigro negli anni Settanta.
2.3 Il contesto internazionale e sovranazionale. Il dialogo orizzontale tra le Corti
Ma una integrazione delle tutele a livello nazionale è oramai palesemente inadeguata, perché i fenomeni sociali regolati e da regolare non sono più nazionali, ma trascendono la sfera nazionale per svolgersi a livello sovranazionale o internazionale. Pur volendo prescindere dal trattare il contesto “globale”, in quanto il relativo assetto giuridico non appare allo stato sufficientemente stabilizzato, e forse difficilmente potrà mai esserlo, non possiamo sottacere l’influsso che il diritto internazionale “classico” e soprattutto il diritto sopranazionale svolge nelle relazioni tra individui e poteri. I poteri pubblici si muovono oramai in uno scenario di riferimento che noi limitiamo allo spazio europeo; individui e imprese hanno a che fare con poteri che appartengono alle medesime istituzioni europee o ad altre nazioni europee in cui essi si recano, così come soggetti di altri Paesi europei si recano nel nostro.
E’ difficile se non impossibile che la creazione di uno spazio comune a più Paesi e a più popolazioni non si traduca in uno spazio regolato dal diritto. E dove c’è il diritto c’è la garanzia giudiziaria, almeno nella tradizione comune ai Paesi che si rifanno allo Stato di diritto. Le Corti nascono in ordinamenti nazionali e a quel diritto si rifanno come espressione di sovranità nell’accezione schmittiana del termine. Ma se la sovranità si fa diffusa e condivisa o, il che è lo stesso, se alla sovranità nazionale si affianca una sovranità europea è giocoforza che la cittadinanza amministrativa di un individuo, cioè l’insieme delle situazioni soggettive a questo riconosciuto nei confronti dei pubblici poteri, deborda i confini nazionali e a essa si affianca una cittadinanza europea fatta di diritti e interessi nei confronti delle istituzioni europee ma anche delle istituzioni degli altri Paesi membri; diritti e interessi che è compito delle Corti assicurare.
In altri termini, alle Corti nazionali si possono rivolgere cittadini di altri Stati membri. Ma si rivolgono anche cittadini dello Stato di appartenenza che reclamino, nel proprio territorio e dinanzi alle proprie Corti, quei diritti e l’applicazione di quei princìpi che sono progressivamente diventati patrimonio comune degli ordinamenti degli Stati membri in un processo di cooperazione verticale e orizzontale tra Corti.
E’ questa la logica del “dialogo orizzontale” tra Corti, cui dedicherà le proprie energie il Consiglio di Stato nel prossimo biennio di presidenza dell’ACA Europe, nella convinzione che questa forma di dialogo, a livello sia bilaterale sia multilaterale, serva alla creazione di una comune cultura giudiziaria (cioè di una cultura condivisa della giurisdizione e quindi delle tutele), non solo a livello europeo, ma, per esempio, nell’area, o meglio, nell’“arena” mediterranea; alla individuazione di uno standard comune europeo nella tutela di individui e imprese, cioè delle “persone”, nei confronti dei poteri pubblici e quindi alla creazione di una cittadinanza “europea” espressione di una comune concezione di democrazia amministrativa; serva, infine, per aprire la nostra esperienza giurisdizionale al confronto con altre Corti, pur tenendo conto della diversità delle coordinate istituzionali. Perché il confronto ci migliora, mentre le chiusure, siano corporative o siano nazionali, ci impoveriscono e ci distaccano progressivamente dalla realtà sociale.  
2.4 Le trasformazioni della giurisdizione e la loro influenza sulla funzione consultiva
Le trasformazioni nell’esercizio di giurisdizione si riflettono sulla funzione consultiva, modificandone non solo la logica originaria, ma anche l’assetto delineato dal Costituente, che alla funzione consultiva pensava nell’ottica originaria del modello francese e dello stesso Consiglio di Stato preunitario. Se, infatti, nella Costituzione repubblicana il Consiglio di Stato è espressamente definito, quanto alla funzione consultiva, come “organo di consulenza giuridico-amministrativa” (art. 100) e, per tale funzione, è inserita nella sezione III degli “organi ausiliari”, già con la legge istitutiva della Sezione per gli affari normativi (legge 15 maggio 1997, n. 127) la funzione consultiva riduce la sua caratteristica, per così dire, di “parere legale in funzione di preventiva verifica di legittimità” per delinearsi sempre più come funzione di “garanzia” con due caratteristiche nuove:
a) sul piano oggettivo, le competenze consultive (obbligatorie) su singoli atti sostanzialmente amministrativi e di gestione scompaiono (es. contratti, ma anche riconoscimento di enti) e la consulenza si concentra sugli atti normativi (spesso, per disposto di singole leggi di delega, anche sugli schemi di decreto legislativi) o su questioni giuridiche di massima a carattere generale. Gli stessi pareri sui ricorsi straordinari si trasformano sempre più in “decisioni”, per il carattere vincolante degli stessi, che si accompagna a una accentuata giurisdizionalizzazione del ricorso medesimo (possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale, esperibilità del giudizio di ottemperanza per assicurare l’esecuzione delle decisioni), che purtuttavia conserva, anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale, natura “amministrativa”, ossia carattere “giustiziale”[7];
b) sul piano soggettivo, si amplia, essenzialmente in via giurisprudenziale, la platea dei legittimati a richiedere il parere: Regioni, Autorità indipendenti, perfino Camere, hanno utilizzato la richiesta di parere per dirimere questioni giuridiche di massima o addirittura potenziali conflitti tra poteri (come per l’obbligo vaccinale, con la richiesta congiunta di parere dal ministero e da una regione).
Le delineate trasformazioni caratterizzano oramai la funzione consultiva –originariamente prevalente ma progressivamente “perdente posizione” rispetto alla funzione giurisdizionale già nel periodo tra le due guerre- come funzione che dalla giurisdizione, e dall’organo che la esercita, ripete la sua necessaria neutralità in funzione di garanzia o “terzietà” e viene prestata non più solo in favore dell’amministrazione, intesa come apparato esecutivo, bensì dello Stato-comunità, cioè delle istituzioni della Repubblica nel suo complesso.
In forza di tale trasformazione, il Consiglio di Stato, anzi che come organo ascritto, nella tradizionale tripartizione dei poteri, ora all’Esecutivo (sia pure come organo “ausiliario”), ora al Giudiziario (perché collocato anche nel titolo IV tra gli organi che esercitano giurisdizione) –e spesso oggetto di critiche per questa ibridazione di funzioni in capo allo stesso organo- acquista il carattere di istituzione di garanzia a tutto tondo, in una moderna rilettura della tripartizione montesquieuana nel senso di una bipartizione tra “istituzioni di governo” e “istituzioni di garanzia[8], alle quali pertiene, ovviamente, anche la funzione giurisdizionale.
2.5 Il giudice amministrativo negli incarichi extraistituzionali.
Un cenno finale merita la questione dei cosiddetti incarichi extraistituzionali dei magistrati, che non è esclusiva dei magistrati amministrativi ma che, per questi ultimi, acquista peculiarità conseguenti dl ruolo del giudice amministrativo nel contesto istituzionale. Anche questa cd. funzione di consulenza del magistrato credo debba risentire dei mutamenti che abbiamo esaminato nel contesto istituzionale e delle stesse trasformazioni descritte a proposito della funzione consultiva dell’Istituto. Quando non si tratti dell’esplicazione della sfera di libertà individuali del magistrato come di qualsiasi altro cittadino, questi incarichi hanno oggi una loro ragion d’essere in quanto strettamente collegati alla posizione istituzionale del giudice amministrativo; per cui preferisco la definizione di incarichi extragiudiziari a quella di extraistituzionali, pur nella indefettibile centralità, nella carriera di magistrato, dell’attività di servizio interno.
Al di là dei termini, quando a questi incarichi siano chiamati i magistrati, essi devono apportare certamente la propria competenza, ma anche la terzietà e il distacco dall’esercizio del potere che fa parte della cultura della giurisdizione, pur quando “prestata” in altre funzioni pubbliche. Alla competenza, in altre parole, deve necessariamente associarsi l’etica pubblica del magistrato, ossia l’idea che egli debba essere percepito dalla collettività, come retto e indipendente, oltre che esserlo nel suo foro interno, poiché l’etica pubblica, nei rappresentanti delle istituzioni, si intreccia sempre con quella individuale (come ammonisce B. Russell). Come ricorda Satta “Quando il linguaggio comune, nella sua profonda filosofia, dice che il giudice deve essere imparziale, cioè non deve essere parte, è a questo ampio concetto, e non certo a quello tecnico-formale, che si riferisce[9]”. E il giudice amministrativo è chiamato “a non esser parte” in questo senso ampio, nello svolgimento sia della funzione giurisdizionale sia di quella consultiva o di diretta collaborazione.
 
3 – Conclusioni
Ragionare sulle prospettive ben consapevoli del passato, ma anche del presente, serve a essere concreti senza perdere in visione strategica.
Io non so se ci siano concrete prospettive di un ridisegno dell’assetto ordinamentale della giurisdizione amministrativa che in qualche modo “redistribuisca” all’interno del nostro sistema le competenze tra il Consiglio di stato e i Tribunali amministrativi. In particolare, non so, in primo luogo, se una riforma sul modello francese (legge 31 dicembre 1987, n. 87-1127) con la istituzione delle Corti amministrative di appello sia un modello, in primo luogo, auspicabile e, poi, percorribile, anche sotto il profilo di un interesse una consapevolezza della Politica verso un disegno di tipo strategico. So che non possiamo perdere i vantaggi, in punto di tempi dei giudizi, che ci derivano da due sole istanze, specie in un sistema come quello italiano che non sembra capace di sperimentare un serio sistema di filtri; ma è anche vero che non possono negarsi i vantaggi per i cittadini e per il sistema istituzionale di una redistribuzione delle competenze interne che sappia differenziare i livelli di tutela limitandoli comunque, in linea prevalente, a due gradi di giudizio (come le esperienze tedesca e francese insegnano).
Un secondo aspetto che segnalo è l’esigenza che si delinei un “ripensato” riparto di giurisdizione che muova dalla considerazione del giudice amministrativo come giudice dei rapporti “di forza”, dotato di strumenti essenzialmente “rimediali”, tra loro complementari, cioè di mera riparazione della lesione a prescindere dal rilievo della consistenza della situazione soggettiva lesa. Il che, sul piano dogmatico, richiede una rimeditazione della figura dell’interesse legittimo, pur nell’attuale assetto costituzionale, secondo coordinate già autorevolmente impostate da recenti studi[10].
Si è detto che, sin dalle origini e non solo in Italia, nella giustizia amministrativa è sempre stata latente l’idea che le azioni più che come diritti delle parti (o come astratto “diritto di azione”, avente esso stesso natura di diritto soggettivo, tesi prevalente nella dottrina processualcivilistica), possano essere riguardate come strumenti di tutela pratica volti a reintegrare al meglio la sfera giuridica che sia stata lesa, sfera, essa sì, che si compone di situazioni soggettive. In altri termini, il collegamento, più che tra diritto e azione, andrebbe fatto tra azione e sfera giuridica lesa: l’azione ha finalità reintegratoria di un “patrimonio” attaccato contra ius dal potere pubblico.
Questa impostazione si pone in linea di continuità col nostro sistema, perpetuandosi quella “inversione logica” tra azione e posizioni soggettive, tra individuazione di un rimedio con finalità di tutela e situazione soggettiva allo stesso correlata. Parafrasando Adolfo di Majo- l’interesse legittimo non è un interesse materiale ontologicamente diverso, ma solo una diversa forma di rilevanza e quindi di tutela attribuita a un interesse materiale ove questo si trovi a coesistere con l’interesse pubblico: “dietro il rimedio di tutela vi è sempre una posizione di diritto sostanziale che fa capolino”.
Si delinea, finalmente, un assetto, avviato dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale, in cui la giurisdizione amministrativa, configurata come giurisdizione ordinaria sugli interessi legittimi, si qualifica come giurisdizione sui pubblici poteri, o giurisdizione dell’illegittimo esercizio del potere pubblico, che consente di pervenire all’idea di una giurisdizione “piena”, senza passare (necessariamente) per una giurisdizione esclusiva. Questa impostazione impone di abbandonare criteri di riparto della giurisdizione che, già privi di fondamento teorico sebbene non di utilità pratica, in passato, possono assumere addirittura carattere fuorviante rispetto a un nuovo assetto di riparto incentrato sulla centralità della complessiva sfera giuridica del soggetto incisa dal potere e in un’ottica rimediale della giurisdizione, intesa questa come “la maggiore adeguatezza del giudice e del giudizio”[11] a riparare la lesione della sfera giuridica subìta in conseguenza dell’agire pubblico. Ci si riferisce alla teoria dell’affievolimento, ancora da molti interpretata alla stregua di un “soffietto”, in cui il diritto soggettivo, “re dei re”, si degradi o si riespanda, salvo che non sia un super-diritto “indegradabile”; e ai corollari della teoria, in cui il riparto sembra dipendere da pratici quanto discutibili criteri quali la contrapposizione tra attività vincolata e discrezionale, tra carenza e cattivo uso, tra atti di impero e di gestione. Quest’ultima il più antico dei criteri, ma forse quello che oggi meglio si avvicina all’impostazione della Corte costituzionale dell’amministrazione che agisca in veste di autorità e alla conseguente idea del giudice amministrativo come giudice del potere pubblico. Le richiamate teorie, lette oggi, appaiono troppo collegate a una visione episodica dell’esercizio del potere e statica del procedimento, che forse andrebbe riletta da tutti alla luce almeno del carattere dinamico e aperto della vicenda amministrativa, delle trasformazioni nell’amministrazione e della coesistenza di diritto e interesse, di cui i Maestri del diritto amministrativo italiano parlano dalla fine degli anni Sessanta.
 
Difficile dire fino a che punto vi sia continuità storica e concettuale negli itinerari della giustizia amministrativa che si sono delineati. E’ questa la ragione per cui mi è sembrato di poter dire che quella della giustizia amministrativa sembra essere una storia di continuità in perenne trasformazione. In realtà il giudice dell’amministrazione è sopravvissuto a mutamenti storici radicali, non solo in Italia, proprio per questa sua capacità di adattarsi alle esigenze di tutela, mutevoli sul piano ideologico e sul versante storico. Se proprio si vuole cogliere un elemento di continuità nella storia nostra e in quella degli altri ordinamenti dell’Europa, pur diversificati tra loro, è proprio questo: la costante attenzione a coniugare la tutela dei diritti e la garanzia del bene collettivo nell’esercizio del potere pubblico, quest’ultima contro l’arroganza del potere ma anche contro l’invasività degli interessi di parte.
Nei compleanni si invecchia e quell’itinerario di vita, per quanto ricco e appassionante, è inesorabilmente tracciato. Questo non vale per le istituzioni. Soprattutto se queste sanno trasformarsi al passo con l’evoluzione dei tempi e delle esigenze delle comunità di riferimento. E’ necessario che gli uomini delle “istituzioni di garanzia” sappiano essere all’altezza del prestigio acquisito, nel suo lungo itinerario, dal Consiglio di Stato e oramai dalla giustizia amministrativa tutta; prestigio che sarebbe stolto trattare alla stregua di una rendita di posizione. Ma è anche necessario che l’istituzione per eccellenza, cioè la Politica, sappia prendere consapevolezza, quanto meno con lo stesso impegno e con la stessa competenza dei Padri della giustizia amministrativa nell’Italia unificata e poi nella Costituzione, della centralità del “buon andamento” dei pubblici poteri e di un efficace ed efficiente sistema delle tutele, per il progresso economico, cioè il benessere, della comunità e per una moderna democrazia amministrativa.  
 
Filippo Patroni Griffi
Presidente del Consiglio di Stato
 
Pubblicato il 20 novembre 2019
 

[1] S. Spaventa, Lo Stato  e le ferrovie, scritti e discorsi sulle ferrovie come servizio pubblico (marzo-giugno 1876), a cura di S. Marotta, Napoli, 1997, p. 310: Discorso alla Camera del 23 e 24 giugno 1876.
[2] Gli argomenti furono da lui ripresi nel noto saggio su I partiti politici e la ingerenza loro nella Giustizia e nell’Amministrazione (1881). Se Spaventa individuerà il rimedio alla cattiva amministrazione nella istituzione di una giurisdizione amministrativa, con tutte le garanzie di indipendenza proprie dell’autorità giudiziaria, questa soluzione viene già anticipata, su indicazione dello stesso Spaventa, nel richiamato discorso a Napoli, da Minghetti, il quale ebbe a scrivere al riguardo a Spaventa queste parole: «toccherò il tuo argomento, sebbene non sia preparato a svolgerlo; ma credo sia il vero argomento della situazione».
 
[3] Ad opera della legge 23 dicembre 1946. Cfr BOUVIER, Ph, La naissance du Conseil d’État de Belgique. Une histoire française?, Bruxelles, Bruylant, 2012, 171-174.
 
[4] E.Guicciardi, La giustizia amministrativa, Padova 1943, 49
[5] Per lo svolgimento analitico di tali considerazioni riassuntive si rinvia, anche per i richiami alla letteratura pertinente, a F. Patroni Griffi, Una giustizia amministrativa in (perenne) trasformazione: profili storico-evolutivi e prospettive, in Riv.trim.dir.proc.civ, 2016, 115. Più di recente, F.Merusi, Incontri pericolosi…Crispi e la nascita della IV Sezione del Consiglio di Stato, in Dir.processuale amm. 2019, 13 ss.
[6] M. Mazzamuto, Le tecniche di attuazione dei diritti nel processo amministrativo, in Giustamm 2017 e ora in Processo e tecniche di attuazione dei diritti, a cura di G.Grisi, Napoli 2019, 283 ss. L’Autore osserva (p.284) come “l’ordito giuspubblicistico…abbia realizzato uno straordinario sistema di tutela di gran lunga più garantista di quanto il cittadino potrebbe mai ottenere con il regime civilistico” e richiama Gaston Jèze che, già nel 1929, vedeva nella giustizia amministrativa “l’arma più efficace, più economica e più pratica per difendere le libertà individuali” (Les libertés individuelles, in Annuaire de l’Institut international de droit public, 1929, 180)
[7] Corte Costituzionale, sentenza n. 73 del 2014.
[8] L.Ferrajoli, Sul futuro dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, in Jura gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, 2005
[9] S. Satta, il mistero del processo, 1949 ora in Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, Cedam, 1968,15 s. come richiamato da B.G.Mattarella, Le regole dell’onestà, Bologna, Il Mulino, 2007, p.181
[10] F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e Teoria, Torino, 2017.
[11] B. Sordi, ult.cit., 75.
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