tratto da entilocali-online.it
Cedere la propria firma digitale quali reati comporta ?
20 Nov, 2019
Testo del quesito:
“È possibile avere qualche riferimento normativo e giurisprudenziale nel quale si dispone la sanzione, sia al soggetto che cede la propria firma digitale, sia al soggetto che impropriamente la usa al posto del legittimo titolare ?”.
La risposta dei ns. esperti:
Punto di partenza della riflessione è la norma prevista nel “Codice dell’Amministrazione digitale” (“Cad”). L’art. 32, comma 1, del “Cad”, dispone che “il titolare del certificato di firma è tenuto ad assicurare la custodia del dispositivo di firma o degli strumenti di autenticazione informatica per l’utilizzo del dispositivo di firma da remoto, e ad adottare tutte le misure organizzative e tecniche idonee ad evitare danno ad altri; è altresì tenuto ad utilizzare personalmente il dispositivo di firma”.
Inoltre, l’art. 21 sempre del “Cad” prevede che “l’utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale si presume riconducibile al titolare, salvo che questi dia prova contraria”.
Dalla lettura di queste disposizioni emerge chiaramente la volontà del Legislatore di assicurare un uso affidabile del dispositivo di firma digitale che, a differenza della firma autografa, ha delle debolezze nella certa riconducibilità al suo titolare. Del resto, l’associazione “titolare/dispositivo di firma” è “asettica”, basandosi unicamente su un processo di identificazione significativa a 2 fattori (qualcosa che hai + qualcosa che conosci), che nella pratica si concretizza in una smart card/dispositivo usb/password accesso al server di firma remoto più il Pin.
In altre parole, la modalità di identificazione prevista per attivare la procedura di firma non prevede un riconoscimento biometrico che obblighi la presenza del titolare.
La mancanza, poi, di qualsiasi elemento grafometrico/biometrico rende impossibile l’attività del grafologo utile a determinare l’autenticità della firma in caso di disconoscimento.
L’utilizzo “improprio” della firma digitale, oltre ad essere vietato dal Legislatore, genera delle conseguenze anche sul piano giuridico probatorio del documento amministrativo informatico prodotto. In questo senso la giurisprudenza si è già espressa con alcune Sentenze, di cui si menzionano degli esempi:
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Cassazione penale, Sezione V, Sentenze 27 agosto 2013, n. 35543 e 10 marzo 2009, n. 16328: “sul piano oggettivo, ai fini della sussistenza del reato di falso in scrittura privata (art. 485 Cp.), il consenso o l’acquiescenza della persona di cui sia falsificata la firma, non svolge alcun rilievo, in quanto la tutela penale ha per oggetto non solo l’interesse della persona offesa, apparente firmataria del documento, ma anche la fede pubblica, la quale è compromessa nel momento in cui l’agente faccia uso della scrittura contraffatta per procurare a sé un vantaggio o per arrecare ad altri un danno; pertanto anche l’erroneo convincimento sull’effetto scriminante del consenso costituisce una inescusabile ignoranza della legge penale. Sul piano soggettivo, nel delitto in questione, per l’integrazione del dolo specifico non occorre il perseguimento di finalità illecite, poiché l’oggetto di esso è costituito dal fine di trarre un vantaggio di qualsiasi natura, legittimo od illegittimo”;
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Cassazione penale, Sezione V, Sentenza 5 luglio 1990: “posto che il verbale di ricezione di dichiarazione di appello da parte del Cancelliere costituisce un atto pubblico facente fede fino a querela di falso, sussiste il reato di falso in atto pubblico anche qualora tale verbale sia stato redatto e sottoscritto da un coadiutore giudiziario col consenso del cancelliere, […]”;
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Cassazione penale, Sezione V, Sentenze 12 luglio 2011, n. 32856 e 12 maggio 2011, n. 24917: “in tema di falsità ideologica in atto pubblico (art. 483 Cp.), ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo è sufficiente il dolo generico, e cioè la volontarietà e la consapevolezza della falsa attestazione, mentre non è richiesto l’animus nocendi né l’animus decipiendi, con la conseguenza che il delitto sussiste non solo quando la falsità sia compiuta senza l’intenzione di nuocere ma anche quando la sua commissione sia accompagnata dalla convinzione di non produrre alcun danno”.
Inoltre, occorre richiamare anche alcune disposizioni del Codice penale in merito alla falsità degli atti:
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art. 476 Cp. “Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici”: “il ‘Pubblico Ufficiale’, che, nell’esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero, è punito con la reclusione da uno a 6 anni. Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da 3 a 10 anni”;
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art. 491-bis Cp. “Documenti informatici”: “se alcuna delle falsità previste dal presente Capo riguarda un documento informatico pubblico avente efficacia probatoria, si applicano le disposizioni del Capo stesso concernenti gli atti pubblici”;
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art. 493 Cp. “Falsità commesse da pubblici impiegati incaricati di un servizio pubblico”: “le disposizioni degli articoli precedenti sulle falsità commesse da Pubblici Ufficiali si applicano altresì agli impiegati dello Stato, o di un altro Ente pubblico, incaricati di un pubblico servizio, relativamente agli atti che essi redigono nell’esercizio delle loro attribuzioni”.
di Cesare Ciabatti
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