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Boom di voucher e zero nuove assunzioni: il mercato del lavoro è un deserto

Numeri tragici: a luglio le nuove assunzioni a tempo indeterminato sono state 87. Un nulla. Per far ripartire il lavoro servono cambiamenti seri: e innanzitutto occorre dare più sicurezza a partite iva e freelance

di Francesco Cancellato – 20 Settembre 2016 – 10:59

 

Bastano tre dati per far capire come stanno il mercato del lavoro e l’economia italianaUno: dal 2008 al 2015 abbiamo perso 932mila posti di lavoro. Due, dal 2008 al 2015 i percettori di voucher, i buoni lavoro da 10 euro che dovrebbero pagare le sole prestazioni occasionali, sono passati da 24mila a 1,4 milioni. 500mila persone circa, in Italia, vivono di quello. Tre: nei primi cinque mesi del 2016 i contratti a tempo indeterminato – quello a tutele crescenti, su cui puntava il jobs act – sono calati di 280.000 unità, il -34% in meno sui primi cinque mesi del 2015.

Un calo – è l’Inps a dirlo – da ricondurre al forte incremento delle assunzioni a tempo indeterminato registrato nel 2015, anno in cui tali assunzioni potevano beneficiare dell’abbattimento integrale dei contributi previdenziali. Una droga che nel solo 2015 è costata circa 3,4 miliardi e di cui oggi – che lo sgravio si è ridotto al 40% – il mercato è in evidente crisi di astinenza Non a caso Francesco Seghezzi di Adapt ha calcolato che a luglio i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato – al netto delle trasformazioni – sono stati 87. Non 87mila. Ottantasette.

Gioco, partita, incontro, sembrerebbe, per chi dice che rendere flessibile (precario) il mercato del lavoro non sia servito a rendere più competitive le nostre imprese, né a salvaguardare i livelli occupazionali. Nè, tantomeno, a quanto pare, è riuscito il jobs act a invertire la rotta della sempre più crescente polarizzazione tra chi ha un posto di lavoro stabile e chi nel mercato ci entra, sempre meno tutelato, sempre più alla deriva.

Basta andare a bersi una birra con un under quaranta per rendersene conto: nessuno lo vuole più, il posto fisso. Né il ritorno a un mercato rigido come negli anni sessanta. Basterebbe che flessibile non sia più sinonimo di precario. Che l’insicurezza fosse adeguatamente retribuita

E forse è questa la salutare lezione di questo bagno di realtà. Smetterla di pensare – anzi, sperare – che una riforma del mercato del lavoro – qualunque riforma del lavoro – possa avere effetti taumaturgici su un comparto produttivo decotto è una strumentalizzazione bella e buona per la curva dei tifosi pro governo quando l’occupazione sale, per quelli contro se ad aumentare è la disoccupazione. Torturando i dati, in molti casi, per pretendere di avere ragione.

Per far ripartire l’occupazione, invece, serve che le imprese – italiane o estere – investano. E per far si che accada, una riforma del lavoro – buona o cattiva che sia – non basta: serve ridurre la pressione fiscale, serve maggiore efficienza delle amministrazioni pubbliche, incominciando dalla giustizia, serve allineare il costo dell’energia agli standard degli altri Paesi europei maggiori.

Soprattutto, serve spingere la domanda interna senza ideologismi, accompagnando i processi economici e sociali, non provando a orientarli, molto spesso forzandoli.

Ad esempio, provando a rendere davvero autonomo il lavoro dei freelance, rompendo quanto più possibile i legami di monocommittenza e dando alle partite Iva e ai loro fratelli un welfare e le opportunità – leggi: quella di chiedere un prestito in banca – equiparabile a quello di un lavoratore dipendente.

E infine, costruire politiche attive del lavoro – la grande incompiuta, a un anno dall’approvazione del jobs act – che leghino la ricerca di una nuova occupazione a quel sostegno al reddito universale che l’Europa ci chiede invano dal 1992.

Ché in fondo, basta andare a bersi una birra con un under quaranta per rendersene conto, nessuno lo vuole più, il posto fisso. Né il ritorno a un mercato rigido come negli anni sessanta. Basterebbe che flessibile non sia più sinonimo di precario. Che l’insicurezza fosse adeguatamente retribuita. Che chi perde un lavoro abbia qualcuno che gli da una mano a trovarne un altro. E che a fianco di ogni contratto a tutele crescenti non spunti un voucher a fare da contrappeso.

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