21/04/2017 -Codice dei contratti pubblici, una riscrittura che non convince

Egregio Titolare,

il tanto celebrato nuovo codice dei contratti pubblici, che avrebbe dovuto rilanciare l’edilizia e l’economia, giunge ad un anno esatto dal suo iniziale varo ad un correttivo di ben 131 articoli su 220. Si ha quasi la sensazione che se a 365 giorni di distanza dall’entrata in vigore di una norma se ne corregga il 59,54% delle disposizioni in cui essa è articolata, probabilmente il testo iniziale non fosse di eccellente qualità. Sensazione confermata dalle lagnanze presentate praticamente subito dopo la sua entrata in vigore degli addetti ai lavori sulla solo presunta, ma per nulla verificata, capacità di rilanciare gli investimenti nell’edilizia.

 

 

D’altra parte, come noto, il codice fu oggetto nell’estate del 2016 di un primo intervento contenente ben 181 correzioni di natura generalmente formale, ma comunque piuttosto incidente sull’operatività.

Egregio Titolare, se sta pensando che il codice è stato scritto un po’ in fretta e furia, non sbaglia. Lo dichiarò chiaro e tondo, fin dal titolo, il consigliere dell’Anac Michele Corradino, nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera del 23 luglio 2016: “I 181 errori nel codice appalti «Una pessima figura ma avevamo molta fretta»”. Una fretta che in realtà ha determinato l’attesa di un anno per apportare al codice una quantità tale di correzioni da determinarne una vera e propria nuova riedizione, con molte rilevantissime novità e ripensamenti.

Tra tutte, la riapertura delle porte al tanto denigrato appalto integrato, col quale ai affida all’appaltatore non solo l’esecuzione delle opere, ma anche della progettazione, creando ovvi problemi di conflitto di interesse evidentemente non considerati rilevanti, nonostante le avanzatissime e torrenziali norme anticorruzione vigenti segnalino esattamente il contrario.

Sempre in tema di coerenza tra lotta alla corruzione e normativa concreta, il correttivo codice, accogliendo urla e pianti di dolore delle amministrazioni appaltanti, consentirà di affidare i contratti di importo inferiore ai 40.000 in via diretta, senza nemmeno doversi sperticare in particolari motivazioni e, soprattutto, senza prendersi il disturbo di consultare due o più operatori economici, per confrontare i preventivi.

Degno di nota è anche l’incremento del sostegno pubblico agli investimenti dei concessionari, che sale da un massimo del 30% al 49% dell’investimento complessivo: insomma, una compartecipazione sostanzialmente paritaria al rischio operativo che dovrebbe accollarsi il concessionario, tale praticamente da annullare quanto più sia possibile proprio il rischio di perdite private dovute alla domanda di mercato, in buona parte surrogata dalla copertura pubblica.

Al di là delle molte altre modifiche e dei ritorni al passato (ad esempio, si torna a specificare che i certificati di pagamento debbono essere emessi entro 45 giorni dalla conclusione degli stati di avanzamento lavori, o che i pagamenti dei progettisti esterni alla PA non possono essere condizionati dall’acquisizione di finanziamenti, norme inspiegabilmente cancellate nel 2016), caro Titolare, resta comunque il dubbio che anche questo correttivo non sia rimasto esente dai vizi della frettolosità con la quale è stato redatto il codice inizialmente. Basti un solo esempio: nel riscrivere le regole sulle concessioni e proprio a proposito del rischio operativo, nelle definizioni generali la norma pare formulata nel senso che il concessionario debba addossarsi il rischio di impresa solo nel caso in cui la concessione sia da considerare come partenariato pubblico privato; ma poi, nel corpo del codice, il rischio operativo sembra dover comunque gravare anche sulle concessioni pure e semplici.

Insomma, non pare mancheranno sbandamenti, problemi interpretativi e soprattutto applicativi anche successivamente al correttivo, che non può non trascinarsi dietro i problemi di impostazione propri del codice e, in particolare, la scelta di non essersi limitati a recepire le direttive europee che ne sono alla base, inserendo miriadi di regole specifiche, per altro a rischio di violazione delle regole del Trattato (come le limitazioni al subappalto). Talmente tanta è stata la furia di inserire regole speciali, che anche il correttivo non sfugge alla tentazione del Legislatore di dettare norme-bando, cioè disposizioni di dettaglio che trasformano una previsione generale ed astratta, quale dovrebbe essere una legge, in una previsione puntuale, come appunto un bando di gara: lo si riscontra nella norma che regola la cosiddetta offerta economicamente più vantaggiosa, cioè la gara basata sulla valutazione della qualità oltre che del prezzo, ove si stabilisce che il prezzo non possa valere mai oltre il 30% del totale. Una previsione troppo drastica, che limita la necessaria discrezionalità operativa delle stazioni appaltanti.

Fermo restando che nessuna legge, come prodotto umano, può essere perfetta, sarebbe auspicabile comunque che disposizioni normative dell’importanza di un codice degli appalti siano elaborate col minor numero possibile di incidenti tecnici, così da scongiurare pesantissime riscritture, che sicuramente non aiuteranno a superare l’inerzia dell’innovazione, causa tra le principali del rallentamento complessivo degli appalti.

In ogni caso, egregio Titolare, sarebbe ulteriormente opportuno estirpare radicalmente la convinzione che un codice, per quanto perfetto o perfettibile che sia, possa di per sé rilanciare l’economia o l’edilizia o questo o quel settore. Lo si è visto anche col Jobs Act: le sole regole giuridiche non possono incidere sull’economia. Per chi non fosse ancora convinto che un codice dei contratti, anche “corretto” e revisionato da solo non possa rilanciare alcun investimento, basta che dia una lettura anche solo distratta al Def 2017 per rendersi conto che la spesa in conto capitale è destinata ad avere una curva praticamente piatta di qui al 2020.

http://phastidio.net/2017/04/20/codice-dei-contratti-pubblici-riscrittura-non-convince/

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