Borghi in lotta per la loro esistenza
Sono sempre di più i piccoli centri che si battono per dire no alla proposta di legge sulla fusione dei Comuni al di sotto dei 5mila abitanti. I firmatari del provvedimento: “Insieme si hanno più risorse e si riducono anche le tasse locali”. Molti primi cittadini credono che la proposta non tenga conto delle differenze del territorio
di LAURA MONTANARI
Il sindaco di Montieri, paese di montagna nel grossetano, per frenare il fenomeno che vede popolarsi il borgo di case decadenti ha provato a inventarsi un progetto: Una casa al prezzo di un caffé: “Sto convincendo chi ha lasciato il paese a vendere gli stabili a un prezzo più basso rispetto al mercato – spiega Nicola Verruzzi, sindaco Pd – abbiamo appena concluso una trattativa per un appartamento di 70 metri quadri in centro venduto a 13mila euro. Il nuovo proprietario si impegna a ristrutturarlo entro tre anni”. Verruzzi non si illude di risolvere con questa operazione la fuga dal paese, ma almeno di richiamare nuovi villeggianti: “L’idea di decidere per legge la fusione dei Comuni al di sotto dei 5.000 abitanti è sbagliata – riprende – noi facciamo già rete con le amministrazioni vicine, per esempio abbiamo la polizia municipale, una sola stazione per gli appalti e altri servizi associati. Su cosa possiamo ancora razionalizzare?”.
In Italia sono circa 200 i Comuni che sono andati volontariamente in quella direzione. “Nella mia zona tre Comuni si sono fusi, Trecastelli, in provincia di Ancona – riprende Lodolini – e insieme hanno più risorse e sono riusciti persino a ridurre le tasse”. Il fatto è che diversi sindaci di piccoli borghi vivono l’obbligo delle fusioni come un’imposizione dall’alto che non tiene conto delle differenze che ci sono sul territorio e in cui anche la geografia fa sempre la sua parte: “Guardi che se invece della fusione si decidesse per l’unione a me va bene lo stesso”, concilia Lodolini. Proprio in quella direzione sembra muoversi l’Anci, l’Associazione nazionale dei Comuni: “Abbiamo presentato una proposta al governo – spiega il vicepresidente Matteo Ricci – per riorganizzare gli 8mila comuni italiani in 1.500-1.700 Unioni dei Comuni, saranno i sindaci a individuare i bacini omogenei e a mettere insieme almeno tre funzioni. Su quali siano queste funzioni stiamo ancora riflettendo… “.
La differenza è che con l’unione restano al loro posto i vari consigli comunali e i sindaci, con la fusione no. “Non è un problema di poltrone, ma di poter governare meglio le città – è il pensiero del sindaco Pirozzi – non posso chiedere a chi abita in un piccolo paese come il mio, Amatrice, che già ha una serie di svantaggi per la scuola dei figli, la sanità, la banda larga, di fare chilometri per andare a fare un certificato. Bisogna piuttosto detassare le imprese che investono nei piccoli borghi, mantenere i servizi e soprattutto i presidi ospedalieri”.
Essere piccoli a volte significa faticare a far sentire la propria voce: “Io ho aderito alla rete dei Comuni dimenticati proprio per questo, per poterci far ascoltare – interviene ancora Flavia Loche, il sindaco di Tonara a capo di una lista civica che è un misto di schieramenti, indipendentisti
compresi – Io propongo, come ho spiegato a Volterra, di andare verso una fiscalità di diritto, la gente che abita nei piccoli centri deve pagare per i servizi che riceve e che, dalla sanità ai trasporti sono inferiori a quelle dei centri più importanti “.
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