Condizioni e limiti di esercizio dell’accesso civico generalizzato come strumento di trasparenza e controllo anticorruzione
La legge 190/2012 è la fonte normativa da cui originano le disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione italiana. Il 1° comma del suo primo articolo precisa che essa è stata adottata per dare attuazione, anche nel nostro ordinamento interno, all’articolo 6 della Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, approvata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 e ratificata ai sensi della legge 3 agosto 2009, n. 116, nonché per attuare gli articoli 20 e 21 della Convenzione penale sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999, ratificata ai sensi della legge 28 giugno 2012, n. 110.
La legge 190/2012, per perseguire i suoi scopi, ha, in primo luogo, individuato in ambito interno l’Autorità nazionale anticorruzione e gli altri organi incaricati di svolgere, con modalità tali da assicurare azione coordinata, attività di controllo, di prevenzione e di contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione.
E’ interessante osservare come, al 2° comma del primo articolo, la legge precisi che la “Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche” (prevista dall’articolo 13 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150) assumerà le funzioni attuative del 1° comma acquisendo la denominazione e il ruolo di Autorità nazionale anticorruzione.
Ma la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, prevista dal suddetto articolo 13, e poi trasformata in Autorità nazionale anticorruzione, ha avuto a sua volta origine affinché venisse data attuazione all’art. 4, comma 2, lettera f), della legge 4 marzo 2009, n. 15 che prevede l’istituzione, in posizione autonoma e indipendente, di un organismo centrale destinato ad assumere molteplici compiti: 1) indirizzare, coordinare e sovrintendere all’esercizio indipendente delle funzioni di valutazione; 2) garantire la trasparenza dei sistemi di valutazione delle amministrazioni pubbliche diretti a rilevare, anche mediante ricognizione e utilizzo delle fonti informative anche interattive esistenti in materia, nonché con il coinvolgimento degli utenti, la corrispondenza dei servizi e dei prodotti resi ad oggettivi standard di qualità, rilevati anche a livello internazionale; 3) prevedere l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di predisporre, in via preventiva, gli obiettivi che l’amministrazione si pone per ciascun anno e di rilevare, in via consuntiva, quanta parte degli obiettivi dell’anno precedente è stata effettivamente conseguita, assicurandone la pubblicità per i cittadini, anche al fine di realizzare un sistema di indicatori di produttività e di misuratori della qualità del rendimento del personale, correlato al rendimento individuale ed al risultato conseguito dalla struttura. Sempre secondo l’articolo 13 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, e dunque a integrazione delle funzioni dall’articolo 4, comma 2 della legge 15/2009 testé ricordata, presso l’Autorità nazionale anticorruzione è istituita la Sezione per l’integrità nelle amministrazioni pubbliche con la funzione di favorire, all’interno delle amministrazioni pubbliche, la diffusione della legalità e della trasparenza e sviluppare interventi a favore della cultura dell’integrità. La Sezione è chiamata ad adottare le linee guida per la predisposizione dei Programma triennale per la trasparenza e l’integrità previsto nel testo originario dell’articolo 10, comma 8 lettera a) del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, promuovendo la trasparenza e l’integrità nelle amministrazioni pubbliche e verificando l’effettiva adozione del programma triennale nonché il rispetto degli obblighi in materia di trasparenza da parte di ciascuna amministrazione. Successivamente, per effetto del decreto legislativo 25 maggio 97/2016 (art. 34) il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità è divenuto parte integrante dal Piano triennale per la prevenzione della corruzione.
La filiera normativa evidenziata finora, se si dipana il groviglio di rimandi, interpolazioni e sovrapposizioni legislative, permette di cogliere un dato di fondo: nel nostro ordinamento, il profilo genetico della materia “anticorruzione” è interno ad una fonte, il decreto legislativo 150/2009, la cui finalità é disciplinare il rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e in particolare favorire il miglioramento della qualità delle prestazioni lavorative, valorizzare capacità e responsabilità, incrementare efficienza e produttività e favorire la trasparenza dell’operato delle amministrazioni pubbliche a garanzia della legalità. Come abbiamo visto, infatti, la Legge 190 del 2012, trasferendo e attuando nel nostro ordinamento, i principi della Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, elegge a principale strumento per il perseguimento dei suoi scopi la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche poi divenuta Autorità nazionale anticorruzione. Uno strumento dunque, originariamente previsto, finalizzato e incardinato entro la disciplina del rapporto di lavoro e soprattutto della valutazione della qualità e delle prestazioni del lavoro pubblico.
A partire però dal 2012 e per passaggi successivi, la matrice originaria che colloca (per lo meno in diritto) la materia dell’anticorruzione e della trasparenza (e integrità) dentro il perimetro delle “politiche” sul lavoro pubblico, tende a stemperarsi, generando una nuova sfera disciplinare al centro della quale assume sempre più forte identità, anche ampliando le sue competenze, l’Autorità nazionale anticorruzione. Fino ad assistere ad una sostanziale inversione: l’anticorruzione, dall’essere materia ancillare dell’integrità e della trasparenza, diventa disciplina autonoma (della quale la trasparenza costituisce una delle declinazioni) che dall’ “esterno”, attraverso l’Autorità nazionale anticorruzione, detta regole e definisce in autonomia paradigmi per la valutazione della qualità del lavoro e dei lavoratori pubblici. A tal proposito, sotto l’egida di quanto già previsto dall’art. 1 comma 8 della L. 190/2012, si pensi a quanto ancora precisato nel documento in consultazione, Piano Nazionale Anticorruzione 2019, proposto da ANAC e prodromico alla successiva approvazione avvenuta con Delibera 1064 del 13 novembre 20019. In esso si afferma che «La rilevanza strategica dell’attività di prevenzione e contrasto della corruzione comporta che le amministrazioni inseriscano le attività che pongono in essere per l’attuazione della l. 190/2012 e dei decreti attuativi nella programmazione strategica e operativa, definita in via generale nel Piano della performance… Quindi, le amministrazioni includono negli strumenti del ciclo della performance, in qualità di obiettivi e di indicatori per la prevenzione del fenomeno della corruzione, i processi e le attività di programmazione posti in essere per l’attuazione del PTPCT. In tal modo, le attività svolte dall’amministrazione per la predisposizione, l’implementazione e l’attuazione del PTPCT vengono introdotte in forma di obiettivi nel Piano della performance nel duplice versante della: a) performance organizzativa (art. 8 del d.lgs. 150/2009)….b) performance individuale (art. 9 del d.lgs. 150/2009)»
Dentro questo scenario, notevole rilievo è stato assunto dalla incerta collocabilità della trasparenza, e del diritto di accesso civico generalizzato. Infatti, secondo certa dottrina (1) essi potrebbero, per un verso integrare un “nuovo diritto dell’individuo” all’informazione amministrativa, sul modello del paradigma FOIA nordamericano, per altro verso, invece, potrebbero configurarsi come istituti funzionali e specificamente strumentali alla lotta alla corruzione, attraverso l’azione privata che in tal modo esercita un controllo diffuso sull’amministrazione. Non sarebbe dunque chiaro se la trasparenza sia un mezzo per assicurare la realizzazione di un diritto dell’individuo, oppure sia un fine in sé, riconosciuto come tale dall’ordinamento italiano (2)
Se però è valido il percorso esegetico seguito finora, restano pochi dubbi che, quantomeno sul piano oggettivo, la trasparenza si connoti come strumento di controllo pubblico “esterno” alla pubblica amministrazione con particolare riguardo al contrasto della corruzione, poiché il cardine su cui, in origine, ruota la materia dell’anticorruzione, è rappresentato dalla disciplina, dal controllo e dalla valutazione del “lavoro pubblico” e poiché la trasparenza rappresenta un elemento costitutivo dei programmi e delle attività previsti dai Piani anticorruzione sia in origine che per effetto della integrazione fra le due sfere esplicitata dall’art. 34 del decreto legislativo 25 maggio 97/2016.
A conforto di questo approdo l’orientamento giurisprudenziale è univoco, seppur con qualche diversa sfumatura.
Il Consiglio di Stato definisce «il diritto di accesso ispirato… ai principi di democrazia partecipativa, della pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa … che s’inserisce a livello comunitario nel più generale diritto all’informazione dei cittadini rispetto all’organizzazione e alla attività… amministrativa quale strumento di prevenzione e contrasto sociale ad abusi e illegalità …» (3). E soprattutto precisa che «nel caso dell’accesso civico l’ordinamento giuridico conferisce ai cittadini una posizione strumentale ad uno status, onde consentire agli stessi una partecipazione attiva alla vita delle istituzioni, anche in funzione di lata vigilanza sul corretto funzionamento delle stesse» (4). Arrivando alla conclusione secondo cui: «non solo non si può legittimamente predicare l’esistenza d’un diritto soggettivo in capo ai destinatari tale addirittura da condizionare la posizione di chi informa pure nei contenuti e nel risultato, ma non si ravvisa, nel corpo dello stesso art. 21 Cost., il fondamento di un generale diritto di accesso alle fonti notiziali, al di là del concreto regime normativo che, di volta in volta e nell’equilibrio dei molteplici e talvolta non conciliabili interessi in gioco, regolano tale accesso» (5).
Questa conclusione però, stante il non lineare percorso storico della normazione, e stante anche la cortina fumogena alimentata da interpretazioni non sempre adeguatamente approfondite, non consente di scongiurare applicazioni errate delle regole di trasparenza e accesso civico generalizzato.
Infatti collocare la trasparenza, declinata in particolare nell’accesso civico generalizzato, fra i diritti “politici” preordinati all’esercizio di una funzione pubblica di controllo (anticorruzione) sulla Pubblica amministrazione, cosa che come abbiamo visto appare decisamente più convincente, oppure collocarla entro l’esercizio di diritti “privati” dell’individuo, quindi sulla matrice del FOIA americano, non è questione tassonomica astratta relegabile alla disputa accademica, ma ha riflessi rilevanti sulla applicazione e sulla gestione di questo istituto. E ciò perché, in ragione dei diversi fini perseguiti dalle due fattispecie, i contenuti e l’accessibilità dei documenti oggetto di ostensione possono essere, almeno parzialmente, differenti.
Pur essendo chiara, nell’accesso civico generalizzato, l’irrilevanza di una legittimazione soggettiva dell’accedente, così come l’assenza di qualsiasi necessità di motivazione dell’istanza, e pur apparendo tali condizioni più consone a rappresentare il diritto di accesso generalizzato come fine in sé, non si può prescindere dalla loro connessione al contenuto dal comma 2° art. 5 del D.lgs. n.33/2013, mutuando l’espressione dalla dottrina amministrativa, possiamo dire alla sua “causa tipica” o, in altri termini, alla corretta interpretazione della norma rispetto ai fini che essa persegue (ratio), dichiarati appunto dal comma 2° che chiarisce come le informazioni rese accessibili, nel nostro ordinamento abbiano una destinazione strumentale specificamente funzionale all’esercizio di diritti politici.
Potrebbero dunque essere perseguite facili quanto erronee scorciatoie applicative magari propiziate da una lettura decontestualizzata di qualche approdo giurisprudenziale. In particolare si può, ad esempio, far riferimento ad una nota sentenza del TAR Lazio ove, a proposito del diritto di accesso civico generalizzato, si afferma che «Affinché il diritto sia esercitabile, in ogni caso è necessario che sia funzionale allo scopo stabilito dalla legge, ravvisabile nel controllo generalizzato sul buon andamento della pubblica amministrazione e sul corretto utilizzo delle risorse pubbliche» (6).
Qualcuno potrebbe leggervi la surrettizia introduzione di una pretesa di sindacato, esercitato dalla pubblica amministrazione, attraverso l’esplorazione e l’accertamento della relazione fra le ragioni presumibili dell’esigenza conoscitiva emergente dalla richiesta di accesso e il fine dichiarato dalla norma: di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico. Se così fosse potrebbe verificarsi una collisione sia con il dettato del 3° comma dell’art.5 del D.Lgs. 33/2013, secondo cui l’istanza di accesso non richiede né motivazione né legittimazione soggettiva del richiedente, sia con il comma 2° ove si prevede che i limiti opponibili all’accesso sono relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti e sono (solo) quelli individuati dall’articolo 5-bis del D.lgs. n.33/2013.
Precisato ciò non bisogna però confondere una pretesa di vaglio sulla posizione soggettiva del richiedente, quindi sulle sue “reali” motivazioni, con invece la legittima valutazione da parte della pubblica amministrazione circa la proporzionalità, non eccedenza e pertinenza dei dati, documenti e informazioni da fornire rispetto al fine pubblicistico perseguito dalla norma.
L’accesso civico generalizzato incorpora le sue motivazioni fissate dalla legge, e perciò non richiede esplicitazione nell’istanza, ma non per questo tali motivazioni sono “tutte le motivazioni possibili” (condizione oggettiva invece tipica del FOIA nordamericano) infatti, seppur di ampio spettro, sono solo quelle, più volte ricordate, previste dalla norma e dalla sua ratio, Esse costituiscono il veicolo dell’accesso definendone al contempo i limiti e il perimetro operativo.
Non può perciò essere inibito, alla pubblica amministrazione, lo scrutinio sulla natura dei documenti, dati e informazioni oggetto dell’istanza in relazione alla loro attitudine al raggiungimento dei fini che la norma persegue. Ciò non concretizza sindacato alcuno sulla posizione soggettiva o psicologica dell’accedente perché avviene per circoscrivere l’accesso entro l’ambito definito dalla relazione fra i contenuti dei dati, documenti o informazioni da rendere accessibili e la loro funzionalità alla destinazione pubblicistica che peraltro, è bene ricordarlo, costituisce una divulgazione in tutto e per tutto equivalente alla pubblicazione secondo le norme sulla trasparenza preesistenti facendo sì che tutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di accesso civico siano pubblici e chiunque abbia diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente, e di utilizzarli e riutilizzarli ai sensi dell´articolo 7 del D.lgs. n.33/2013. Tutto sempre per consentire il controllo pubblico sul perseguimento delle funzioni istituzionali, sull’utilizzo delle risorse pubbliche e per promuovere la partecipazione al dibattito pubblico anche con obiettivi di prevenzione della corruzione.
A sottolineare la validità di un principio generale che riconosce il diritto e dovere per la pubblica amministrazione a condurre un esame funzionale alla ratio dell’accesso sul merito di dati, documenti e informazioni da essa detenuti, è il tema dei dati personali divulgabili. In tal senso si esprime ad esempio Garante per la Protezione dei Dati Personali laddove afferma che: «…quando l’oggetto della richiesta di accesso riguarda documenti contenenti informazioni relative a persone fisiche non necessarie al raggiungimento del predetto scopo, oppure informazioni personali di dettaglio che risultino comunque sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l’Ente destinatario della richiesta, nel dare riscontro alla richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe in linea generale scegliere le modalità meno pregiudizievoli per l’interessato» (7). Nello stesso senso sempre il TAR Lazio che, censurando una ipotesi di pretesa ostensione di documenti detenuti da una pubblica amministrazione in quanto coinvolta in un contenzioso con terzi privati, afferma che «Il diritto di accesso civico generalizzato non è riconosciuto dall’ordinamento per controllare l’attività dei privati o i rapporti fra essi intercorrenti» (8). E in modo ancor più netto e decisivo, sempre il TAR Lazio afferma che «… prima ancora degli interessi declinati nell’art. 5 bis del d. lgs. n. 33 del 2013, devono essere valorizzate in chiave selettiva e delimitativa dell’accesso civico generalizzato le finalità per le quali tale strumento è stato previsto dal legislatore esplicitate … nell’art. 5 comma 2 del medesimo testo normativo attraverso il riferimento all’obiettivo di favorire forme diffuse di controllo sul “perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”. Per quanto, infatti, la legge non richieda l’esplicitazione della motivazione della richiesta di accesso, deve intendersi implicita la rispondenza della stessa al soddisfacimento di un interesse che presenti una valenza pubblica e non resti confinato ad un bisogno conoscitivo esclusivamente privato, individuale, egoistico o peggio emulativo che, lungi dal favorire la consapevole partecipazione del cittadino al dibattito pubblico, rischierebbe di compromettere le stesse istanze alla base dell’introduzione dell’istituto. Emerge con immediatezza dalla lettura delle previsioni normative sopra indicate, che: a) l’accesso ai “ dati e documenti” può riguardare esclusivamente dati e documenti “detenuti” dall’amministrazione; b) l’accesso ha la finalità di “favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico” sicché sono oggetti di accesso generalizzato esclusivamente documenti attinenti a tali finalità; c) l’accesso non può prescindere dal rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall’articolo 5-bis. » (9). La più autorevole conferma di quanto emerge dagli arresti giurisprudenziali è infine rintracciabile nella posizione assunta dalla Corte Costituzionale (10) rispetto agli obblighi di pubblicazione indicati nella lettera f) comma 1 dell’art. 14 del d.lgs. n. 33/2013 concernenti la pubblicazione integrale della situazione economica e patrimoniale dei dirigenti pubblici. La Corte ricorda che il regime di piena conoscibilità dei dati retributivi e dei compensi, comunque denominati, relativi alla prestazione di lavoro del dirigente pubblico, risulta proporzionato rispetto alle finalità perseguite dalla normativa sulla trasparenza amministrativa perché consente, in forma diffusa, il controllo sull’impiego delle risorse pubbliche e permettere la valutazione circa la congruità – rispetto ai risultati raggiunti e ai servizi offerti – delle risorse utilizzate per la remunerazione dei soggetti responsabili, a ogni livello, del buon andamento della pubblica amministrazione. Il giudice delle leggi giunge invece a diversa conclusione rispetto agli obblighi di pubblicazione della situazione economica e patrimoniale dei dirigenti pubblici, osservando prima di tutto che si tratta di dati carenti di una diretta connessione con
l’espletamento dell’incarico loro affidato ed affermando che la conoscenza indiscriminata di informazioni e dati personali di natura reddituale e patrimoniale contenuti nella documentazione oggetto di pubblicazione appaia sproporzionata rispetto alle finalità perseguite dalla legislazione sulla trasparenza. Infatti tale tipo di pubblicazione non risponde alle due condizioni richieste dal test di proporzionalità: l’imposizione di oneri non sproporzionati rispetto ai fini perseguiti, e la scelta della misura meno restrittiva dei diritti che si fronteggiano. Infine l’onere di pubblicazione in questione risulta anche sproporzionato rispetto alla finalità principale perseguita, quella di contrasto alla corruzione nell’ambito della pubblica amministrazione.
Ciò che in particolare interessa ai nostri fini è il percorso argomentativo seguito. Al di là della specifica vicenda, trova riscontro, nelle parole della Corte, l’esigenza di ancorare la materia della trasparenza (e della sua estensione attraverso l’accesso civico generalizzato) alla finalità civica e politica del controllo esterno sulle attività della pubblica amministrazione anche a fini di contrasto alla corruzione nella più ampia accezione di questo concetto. Ne consegue la conferma che l’accessibilità, nel nostro ordinamento e al netto dei limiti già stabiliti dalla legge, non può essere considerata né assoluta né incondizionata ma, in quanto strumentale ad un fine pubblicistico, soggiace ai vincoli di pertinenza e proporzionalità fra qualità dell’oggetto di accesso/conoscenza, e finalità prevista dall’ordinamento. E questo comporta la conseguente legittimazione della pubblica amministrazione a giudicare misura e adeguatezza di tale relazione sulla base dei canoni normativi.
Considerazioni conclusive.
La trasparenza declinata nella pubblicazione di dati, documenti e informazioni generati dalla pubblica amministrazione oppure nell’accesso civico generalizzato ad essi, costituisce il veicolo per l’esercizio del diritto politico di controllo individuale del cittadino sull’operato delle pubbliche amministrazioni sia rispetto al perseguimento dei loro fini istituzionali che al connesso uso delle relative risorse, anche per promuovere il dibattito pubblico e la partecipazione civica. In tal modo il cittadino è chiamato ad esercitare un controllo esterno che coadiuva le azioni di prevenzione delle devianze e della corruzione nella pubblica amministrazione. L’ampiezza del fine non può tuttavia indurre a disconoscerne i limiti che infatti condizionano l’accessibilità incidendo sulla “qualità” dei documenti, dei dati e delle informazioni. In altri termini: la loro “qualità”, misurabile sulla base della funzionalità, pertinenza e proporzionalità rispetto agli scopi determinati dalla norma, è definita ex lege per quanto sia già oggetto di pubblicazione, non è invece precisamente determinata per tutto ciò che è ulteriore rispetto al pubblicato e può quindi essere oggetto di accesso civico generalizzato. In questo caso, quanto eventualmente richiesto, non necessariamente può o deve essere trasferito al richiedente “tal quale” ma, di esso, la pubblica amministrazione interpellata, che ha generato il dato, informazione o il documento non divulgato ma divulgabile, non può non considerarne la qualità in termini pertinenza, proporzionalità, non eccedenza rispetto al fine previsto dalla legge. Va da sé che la materia maggiormente ricorrente nell’esercizio di questa valutazione, sia quella dei dati personali diretti o deducibili tant’è che il problema è presente anche in ciò che è già oggetto di pubblicazione. Ma in ragione di quanto fin qui argomentato, sarebbe riduttiva e perciò scorretta la sola perimetrazione all’ambito dei dati personali, dell’intervento di merito da parte della pubblica amministrazione su quanto oggetto di accesso generalizzato, che invece può prevedere anche un più generale scrutinio sulla rispondenza e funzionalità dei contenuti dei dati, documenti o informazioni in quanto proiettati verso il soddisfacimento di un interesse che deve avere valenza pubblica.
Daniele Perotti
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Gianluca Gardini “La nuova trasparenza amministrativa. Un bilancio a due anni dal FOIA” in Federalismi.it del 10 ottobre 2018
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Ibidem
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Cons. Stato, Sez. V, 17 marzo 2015 n. 1370.
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Cons. Stato, Sez. IV, 13 luglio 2017, n. 3461.
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Cons. Stato, Sez. IV, 12 agosto 2016, n. 3631.
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TAR Lazio, sent. 28 marzo 2019 n. 4122
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Garante per la protezione dei dati personali. Parere su una istanza di accesso civico del 31 maggio 2017 [6495493]
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TAR Lazio, Sez. I quater, sent. 28 marzo 2019 n. 4122
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TAR Lazio, Sez. II bis, sent. 5 giugno 2018 n. 7326
(10) Corte Costituzionale, giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, sent. 20 del 2019