19/07/2019 – Riforma province, zero risparmi – Dalla Delrio 26 centesimi di minori costi a cittadino

I dati dell’Upi certificano un saldo positivo di soli 16 mln. De Pascale: ridiscutere la legge 

Riforma province, zero risparmi – Dalla Delrio 26 centesimi di minori costi a cittadino

Pagina a cura di Matteo Barbero
Solo 26 centesimi di risparmio per ogni cittadino, pari allo 0,001% della spesa pubblica complessiva. È questo il magro dividendo della riforma Delrio certificato dall’Unione province italiane, che sull’altro piatto della bilancia pone il carico, assai più pesante, dei drammatici tagli a scuole strade e del caos istituzionale innescato dal fallimentare tentativo di revisione dell’architettura istituzionale operato dalla legge n. 56/2014.
Stando ai dati dell’Upi (presentati ieri durante l’incontro «Le province oggi e domani: semplificare il paese, migliorare i servizi, presidiare il territorio») la legge Delrio ha ridotto la spesa pubblica di circa 52 milioni, grazie alla cancellazione dell’indennità degli organi politici. A fronte di ciò, però, si è registrato un aumento secco di circa 36 milioni dei costi per gli oltre 12.000 dipendenti ex provinciali transitati nelle regioni e nei ministeri (dove gli stipendi sono mediamente più elevati). Il saldo positivo, quindi, si riduce a circa 16 milioni, che spalmati in termini pro capite non sono sufficienti nemmeno per pagare un caffè.
Incalcolabili, sempre secondo Upi, sono invece i costi che la collettività ha dovuto sostenere a causa del quasi dimezzamento delle spese di manutenzione ordinaria (-43% dal 2013 al 2018) e del quasi azzeramento della capacità di investimento delle province (-71% nello stesso periodo) sugli oltre 130 mila chilometri di strade e sulle quasi 7.000 scuole secondarie superiori in gestite dagli enti di area vasta.
Sulla coscienza di chi ha voluto la riforma pesa anche il caos istituzionale che essa ha innescato, determinato un’instabilità istituzionale senza precedenti dovuta al sistema elettorale, che dal 2014 a oggi ha reso necessarie ben 11 tornate elettorali.
Ancora più nero il quadro nelle regioni a Statuto speciale: in Friuli Venezia Giulia le 4 province hanno ceduto il posto a 18 unioni territoriali intercomunali, le province della Sardegna e della Sicilia sono commissariate dal 2013 e i servizi sono al collasso.
«Chiediamo che si torni subito a discutere di come ridisegnare il ruolo delle province, puntando su queste istituzioni per semplificare l’amministrazione locale, promuovere gli investimenti e assicurare servizi essenziali efficienti in tutto il paese», ha dichiarato il presidente dell’Upi, Michele De Pascale. Dall’analisi dell’Upi, in effetti, emerge come il legislatore, seguendo la pancia di un’opinione pubblica spesso disinformata, abbia scelto il bersaglio sbagliato: come emerge da un report curato da PwC dal titolo «L’assetto territoriale delle province nei servizi a rete di rilevanza economica», quello provinciale è lo snodo naturale della dimensione sovracomunale delle utilities. Il 78% delle province italiane presentano almeno 2 servizi a rete organizzati al proprio interno in ambiti provinciali assimilabili, mentre nel 42% dei casi i servizi diventano ben 3.
Conseguenza dell’elevato grado di rispondenza tra perimetro territoriale delle province e bacini di servizio (ambiti) è l’area di operatività e di svolgimento delle funzioni di gestione (pianificazione, programmazione, affidamento e monitoraggio del servizio a rete) degli enti di governo dove 297 su un totale di 312 (ossia il 95%) agiscono su scala provinciale o assimilabile.
Meglio sarebbe stato, dunque, puntare su altri target, a partire dalla giungla di partecipate, dove (malgrado i numerosi tentativi di disboscamento) continuano a sopravvivere indisturbati quasi 8.000 soggetti. Questo settore, fra l’altro, sarebbe assai promettente anche in termini di potenzialità di risparmio, se si considera che un ad di una società pubblica con patrimonio pari alla provincia di Brescia riceve fino a 240 mila euro lordi l’anno per il suo incarico.

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