tratto da luigioliveri.blogspot.it/

Province, concorsi, contabilità: tutte le assurdità delle “riforme”

 
 
Il tema propagandato è che l’Italia si trova nella crisi attuale (che però al tempo stesso viene negata) “perché negli scorsi 30 anni non si sono approvate le riforme strutturali che si stanno varando ora”.
A parte la circostanza che 30 anni fa, ma anche 20 e 10, l’ordinamento comunitario era diverso, le regole economiche e bancarie altre, le geopolitica completamente un’altra, la tecnologia più arretrata e, dunque, pensare che 30 anni fa si potesse immaginare normative utili per l’oggi è ovviamente privo di fondamento, il problema che si coglie resta sempre lo stesso: non conta quante riforme fai e se le stai facendo “finalmente” dopo un certo lasso di tempo. Conta la qualità delle riforme in atto.
Focalizzando l’attenzione sull’elemento qualitativo, il bilancio appare oggettivamente non solo scadente, ma sconcertante.

Pensiamo alla riforma delle province. Tutti dovrebbero ricordarsi che secondo la celeberrima e mitica circolare 1/2015 di Funzione Pubblica e Ministero per le regioni (desaparecido come la sua allora titolare Carmela Lanzetta) aveva ipotizzato che il percorso di ricollocazione dei dipendenti soprannumerari delle province si sarebbe concluso (non avviato, concluso) a giugno 2015. Ancora a luglio 2016 le assunzioni sono in gran parte bloccate, perché “la più grande operazione di mobilità dei dipendenti della storia” è stata congegnata malissimo e gestita ancor peggio.
La dimostrazione? Nel testo recentemente approvato in via definitiva della riforma delle partecipate locali (che si preannuncia un altro fantasmagorico flop) si è deciso di abbandonare esattamente l’idea di ricollocare i dipendenti delle partecipate in esubero seguendo l’esempio delle province. Forti dell’esperienza totalmente negativa della riforma provinciale, le commissioni di Camera e Senato hanno fatto di tutto per convincere il Governo che era meglio cambiare strada e così si è deciso. Allora, questa parte della riforma delle province ha funzionato o no?
Oggettivamente, non pare i difetti dell’attacco alle province siano soltanto questi. Citiamo altri elementi di valutazione. La riforma doveva determinare un risparmio per le risorse pubbliche. Ma, come risulta da tutti gli indicatori, la spesa pubblica continua a crescere e con essa il debito pubblico. Questa parte della riforma ha funzionato?
Ancora, la riforma è stata propagandata come uno strumento per modificare e rendere più efficiente l’assetto organizzativo degli enti locali, favorendo, ad esempio, l’associazionismo comunale. Tuttavia, a parte la decisione del Friuli Venezia Giulia di costituire sostanzialmente 31 mini-province, da nessuna parte si è avuta notizia di un nuovo assetto istituzionale dei comuni a seguito della riforma delle province, allo scopo di organizzare meglio i servizi.
La cosa è facilmente spiegabile: le province per gestire le proprie funzioni spendevano circa 10 miliardi fino al 2014. La riforma ne ha sottratti 6,5, sicchè qualsiasi altro ente subentri alla gestione di dette funzioni dovrebbe trovarli per sostenere la spesa connessa, come ben sanno le regioni che ci hanno provato, chiamate ad una nuova spesa di circa2 miliardi. I comuni, vessati da tagli decennali, ovviamente, si sono guardati bene dal subentrare, sia pure in forma associata.
Il fatto è che alla fine le funzioni si sono dovute continuare a svolgere, ma senza più le risorse necessarie.
Il paradosso è che enti neonati, le città metropolitane, accolte dai fautori della riforma con molti “finalmente” e la ferrea fiducia che detti enti potessero essere strumento per il rilancio dell’economia (non si è mai capito perché) sono già virtualmente in dissesto ed in deficit per 350 milioni (e sono solo in 10).
Qualcuno, allora, si è accorto che le scuole superiori stanno rimanendo senza manutenzione e arredi, le strade provinciali franano e perdono asfalto (per paradosso, i presidenti delle province possono rispondere del reato di omicidio stradale cagionato dall’assenza di quella manutenzione che non possono assicurare per lo strangolamento operato dal legislatore), i disabili senza accompagnamento a scuola e insegnanti di supporto e così via. E si è anche accorto che tutte le province né possono approvare bilanci pluriennali, mentre sono destinate al dissesto.
Così, è saltato fuori il “decreto enti locali” con l’idea che il pareggio di bilancio le province lo possano conseguire a consuntivo e l’abbuono delle sanzioni per lo sforamento del patto di stabilità, oltre alla previsione per il secondo anno consecutivo dell’assurda possibilità di approvare un bilancio solo annuale. Il tutto, per cercare di compensare almeno in parte il prelievo forzoso di due miliardi dai loro bilanci, sciaguratamente imposto da chi pensava che nel 2015 in sei mesi avrebbe davvero ricollocato 20.000 dipendenti. Allora, questa parte della riforma ha funzionato o no?
E i comuni? Pur avendo aumentato le tasse locali all’inverosimile (tanto da subire il divieto di incrementare le aliquote da ben due leggi di stabilità di seguito) sono anch’essi allo stremo. Dunque, avendo visto che per le province e le città metropolitane le sanzioni per il patto si possono ammorbidire, hanno legittimamente chiesto ed ottenuto che anche per loro vi fosse una mano più morbida nel sanzionare lo sforamento del patto di stabilità. Bene. Ma, allora, queste regole del patto funzionano o no? Se continuamente se ne correggono le conseguenze, verrebbe quasi il sospetto che non funzionino.
E che dire delle tante altre riforme già avviate o ai blocchi di partenza? Quella della scuola è partita; la riforma della pubblica amministrazione è in avvio. Come è noto, questa seconda intende modificare, tra i molti altri temi, i sistemi di accesso agli impieghi pubblici e, quindi, il reclutamento, cosa che nella scuola si è già deciso col “concorsone”.
Ora, nelle settimane scorse il sottosegretario alle riforme Rughetti ha, come si ricorderà, irriso i concorsi, riducendoli ad “uno scritto e un orale”, come strumento desueto e poco utile, in particolare per l’assunzione dei dirigenti.
Il concorso, dunque, non serve a nulla? Meglio i rigorosi sistemi di valutazione dei curriculum utilizzati dai “tagliatori di teste” nelle aziende?
A tutti pareva di sì, anche perché da anni ormai media e giornali tempestano con questo concetto. Tra essi, ovviamente, anche il Corriere della sera.
Sorprendentemente, però, proprio il Corriere ha pubblicato venerdì 15 luglio l’articolo a firma di Dario Di Vico “La via del merito per i nostri professori”, ove in estrema sintesi si esprime un giudizio negativo sulla circostanza che il concorsone stia risultando molto selettivo, consentendo ad una minoranza di docenti “precari” l’ingresso in ruolo. In un passaggio, l’autore scrive: “È chiaro che se dovessimo alla fine constatare che le commissioni hanno portato a termine una vera selezione non potremmo che esserne soddisfatti. Avrebbero fatto bene il loro lavoro e avrebbero aperto le porte dell’impiego stabile solo a quei docenti m grado di dimostrare la loro preparazione. Assumere insegnanti non idonei significa condizionare negativamente il rilancio della scuola non per un anno ma per cinque o sei lustri. Ma le cose stanno veramente così? Onestamente non lo sappiamo. La gestione del concorsone è stata infatti piuttosto pasticciata. Si è giustamente cambiato il focus della selezione passato dall’accertamento della conoscenza della disciplina — metodo adottato in passato — alla valutazione della capacità didattica del docente”.
Ma, come? La “valutazione della capacità didattica”, cioè una sorta di esame del “saper fare”, non va più bene? Dopo anni ad insistere che “uno scritto e un orale” sono roba vecchia e superata?
Parrebbe di capire che perfino la riforma del modo di selezionare i dipendenti pubblici, abbandonando il concorso basato (anche) sulla valutazione delle competenze e delle materie, sia riconosciuta come un buco nell’acqua dagli stessi fautori di “sistemi nuovi di reclutamento nella PA”. E con la riforma Madia, allora, come andrà?
La traiettoria presa sembra quella di un ulteriore fallimento, cui seguiranno tentativi di correzione peggiori del buco, mai accompagnati, comunque, dalle scuse per l’errore commesso e la modifica reale della rotta.

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