tratto da quotidianopa.leggiditalia.it
La sottile linea rossa tra consumo sul posto e somministrazione
di Marilisa Bombi – Giornalista. Consulente attività economiche
 
La questione connessa al consumo sul posto effettuata da artigiani e nei negozi è talmente complessa che è decisamente necessario sia risolta dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. Lo ha affermato il Tar Lazio, Sezione Seconda Ter, con la sentenza n. 2619 del 28 febbraio 2020 nel rilevare che ci sono profondi contrasti interpretativi, sia nella prassi (dove si sono opposte le posizioni del MISE espresse in diverse circolari e quelle dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, segnalazione S2605 del 27 ottobre 2016), sia nella giurisprudenza, tra l’indirizzo pacifico del giudice di primo grado e gli orientamenti, al loro interno contrastanti, del giudice di appello.
Il contrasto, nello specifico, concerne la definizione della nozione di “servizio assistito” che, nella fattispecie normativa, costituisce il perno della differenza di regime (e fattuale) tra le due nozioni, ovvero tra la ristorazione (che include il servizio assistito) e la vendita di prodotti alimentari con consumo sul posto (che esclude il servizio assistito). Secondo un primo ordine di pensiero il “servizio assistito” che non deve ricorrere nel “consumo sul posto” è costituito (soltanto) dal “servizio ai tavoli” inteso come presenza di personale dedicato a raccogliere le ordinazioni dei clienti e, successivamente, a servire le pietanze al tavolo. Tale impostazione, fatta propria dall’AGCOM si coglie anche nelle sentenze del Consiglio di Stato che, nel caso specifico, sono state richiamate dalla difesa della ricorrente.
Secondo un diverso orientamento (proprio della giurisprudenza univoca del giudice di primo grado e da ultimo accolto nella sentenza n. 8923/2019 del Consiglio di Stato), il “servizio assistito” è una nozione funzionale, che attiene alle modalità complessive dell’offerta da verificare caso per caso (con riferimento alla tipologia degli arredi, alla prevalenza economica del prodotto venduto, alla caratteristica dell’offerta del prodotto da vendersi a peso e non a porzione, all’assenza di mescita e così via). La distinzione tra le due figure (ristorazione e vendita con consumo sul posto) è chiara se ci si riferisce all’esperienza quotidiana, tenendo presente l’esempio di una panetteria o di un esercizio di alimentari nei quali, acquistati i prodotti, i clienti si soffermano, appoggiandosi ad un ripiano, per consumare immediatamente i prodotti acquistati.
Altrettanto esemplificativo, all’opposto, di una ristorazione è il caso dei cc.dd. “self service” (figura rilevante – a giudizio del Tar – ai fini dell’esatta ricostruzione della nozione di cui si discute) laddove si accede per consumare ordinariamente il pasto (e solo eventualmente lo si acquista per portarlo via) e nessuno dubita che tali esercizi siano vere e proprie somministrazioni (ristorazioni) pur in assenza di personale di servizio ai tavoli (che in tali casi è escluso proprio quale caratteristica tipica dell’esercizio). Tale chiarezza, ha osservato il Collegio,purtroppo, è venuta meno in una parte degli interpreti che appare favorevole ad una evoluzione del mercato verso forme di offerta che, prese le mosse dalla normale concezione dell’esercizio di vendita con consumo sul posto nei termini tradizionali sopra descritti, ne ha via via gradualmente ampliato i confini fino a pervenire a modalità di erogazione del “consumo sul posto” come vere e proprie figure succedanee della ristorazione (in termini di qualità e quantità di prodotti preparati erogati) che utilizzano le SCIA alimentari come schermo formale (per usufruire della più favorevole e meno penetrante disciplina, rispetto a quella che regola la ristorazione).
Proprio per fare fronte a tale incertezza, Roma Capitale aveva coniato una specifica norma regolamentare che, recependo le indicazioni cui era pervenuta la giurisprudenza del TAR ed approfondendone con accuratezza i contenuti, aveva dettagliato in maniera puntuale i connotati e le caratteristiche tipiche da osservarsi per attivare (o “consentire”) un consumo immediato sul posto di prodotti alimentari da parte dei rispettivi rivenditori, così da scongiurare la confusione con le forme della somministrazione, orientare gli esercenti, favorire gli interpreti (specie gli accertatori nella fase di riscontro) ed i controlli, ridurre o eliminare del tutto gli aspetti oggetto di incertezza o eccessiva discrezionalità nella disciplina, a tutto vantaggio della prevedibilità ed applicabilità della normativa di settore. Ma tale disposizione, sulla scorta della interpretazione cogente dell’art. 3, comma 1, lett. f-bis)D.L. n. 223 del 2006 è stata annullata dal Consiglio di Stato (sentenze n. 139 e n. 141 dell’8 gennaio 2020).
Attesi i requisiti rigorosi previsti per gli esercizi di somministrazione (requisiti morali, sorvegliabilità, servizi igienici per disabili e limiti numerici nelle zone sature), l’esigenza di una attenta perimetrazione della diversa fattispecie del consumo sul posto di prodotti alimentari presso rivendite di generi alimentari e laboratori artigianali di produzione di generi alimentari è chiaramente ed intuitivamente rivolta a prevenire fenomeni elusivi che utilizzino l’esercizio di vendita come un vero e proprio ristorante o esercizio di somministrazione, sottraendosi sia ai requisiti soggettivi e strutturali cui quest’ultimo è soggetto, sia e soprattutto alle limitazioni quantitative ed alle restrizioni di apertura e trasferimento di attività di somministrazione laddove posti.
In sostanza, la posizione del Tar Lazio è tranchant: laddove dovesse trovare conferma l’impostazione ermeneutica di cui alla sentenza del Consiglio di Stato n. 2280/2019 si prospetterebbero solo due alternative. La prima, costituita dalla proposizione di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lett. f-bis)D.L. n. 223 del 2006 convertito in L. n. 248 del 2006, per violazione dell’artt. 3 e 41 della Costituzione, dal momento che due fattispecie economicamente e commercialmente divenute sostanzialmente similari e sovrapponibili risulterebbero disciplinate in maniera l’una estremamente rigorosa e l’altra in maniera sostanzialmente liberalizzata, non risultando sufficiente a giustificare tale diversità di disciplina così penalizzante per la prima la sola sussistenza o insussistenza di personale servente ai tavoli. La seconda alternativa, facilmente pronosticabile, è che – sempre ove trovasse conferma l’opzione esegetica riduttiva – anche le attività di vicinato alimentare, una volta attivato il consumo sul posto, non potranno che essere assoggettate ai medesimi limiti e restrizioni che la normativa regolamentare di Roma Capitale ha legittimamente previsto per la ristorazione, dal momento che l’ampliamento della fattispecie implica una intuitiva incidenza nei medesimi profili di interesse generale di governo del territorio e di protezione dell’ambiente cittadino che hanno giustificato le restrizioni a queste ultime; con la differenza, però, che essendo il consumo sul posto una mera modalità eventuale della vendita di prodotti alimentari, si rischierà di assoggettare a restrizione anche esercizi che offrano una modalità solo contenuta di “consumo sul posto” e che, dunque, non sarebbe giusto limitare. In pratica, sottolinea il Collegio, a voler tenere ferma l’opzione ermeneutica che il Consiglio di Stato ha fatto propria nella Consiglio di Stato n. 2280/2019, si rischia di provocare una tanto evidente quanto ingiustificata compressione del mercato nei termini di una confusione di disciplina che sarà prevedibilmente generativa di ulteriore contenzioso.
Insomma, mai come in questo caso non resta che appellarsi al detto “ai posteri l’ardua sentenza”, nel senso che risulta dato per scontato l’appello al Consiglio di Stato il quale, a sua volta, non potrà ignorare le argomentazioni ampiamente sviluppate dal Giudice di primo grado e che si riducono in sostanza a due questioni: il significato da attribuire precisamente alle locuzioni “consumo sul posto” e “servizio assistito”.

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