Una delle più controverse e, probabilmente, delle peggiori norme frutto dell’emergenza pandemica è il cosiddetto “decreto semplificazioni”, il d.l. 76/2020, convertito in legge 120/2020.
Di semplificazioni ne propone così poche, che per quanto concerne la gestione degli appalti si è scatenato il caos per capire se molte, troppe, deroghe ai sistemi ordinari di selezione del contraente siano obbligatori oppure no, se la deroga si prolunghi anche oltre il 31.12.2021 (in relazione alla data della determinazione a contrattare), oppure no, se la determinazione a contrattare sia il dies a quo per computare i termini strozzati di gestione delle fasi di gara.
Ecco: proprio la previsione di termini di gara molto ridotti (2 mesi per gli affidamenti diretti sotto soglia, 4 mesi per le procedure negoziate, sempre sotto soglia, 6 mesi per il sopra soglia) è stata considerata da molti la “semplificazione”, in compagnia dell’innalzamento delle soglie di valore entro le quali effettuare gli affidamenti diretti senza gara (con l’altra paradossale distinzione tra affidamento diretto “puro” e affidamento diretto che a questo punto sarebbe da considerare “spurio”).
Un errore di approccio clamoroso, tuttavia accolto con molto favore da larghe parti degli operatori, quelle convinte che l’azione amministrativa sia caratterizzata da aspetti “fiduciari”, sicchè le previsioni della Costituzione e delle direttive Ue su trasparenza, concorrenza, imparzialità siano solo un peso. L’affidamento diretto, senza motivazione, con la sola determinazione a contrattare postuma (successiva, cioè, alla scelta del contraente, assurdamente ammessa dalla normativa), va benissimo: si scrive meno, si fatica meno e si esercita l’alto potere di “scelta” del quale alcuni si sentono dotati, varcata la soglia d’ingresso nella sede della PA per la quale lavorano.
Un errore di approccio, perchè non si considera che i tempi oggettivamente lunghi degli affidamenti delle connesse pubbliche non sono dettati dalle gare (1). Derivano, invece, dagli obblighi di programmazione, dai tempi per gli affidamenti all’esterno della progettazione, di reperimento del finanziamento, dell’approvazione dei 3 diversi livelli di progetto (per i lavoro pubblici), della validazione dei progetti, delle autorizzazioni urbanistiche, edilizie, paesaggistiche, vincolistiche eventualmente necessarie; e, soprattutto, poi, dai tempi dell’esecuzione, fortemente conseguenti alla qualità della progettazione. Poichè, sempre a causa della fretta, della programmazione solo formale, del reperimento insufficiente dei fondi, la progettazione di solito è sommaria e lacunosa, se non del tutto pessima, un nanosecondo dopo la sottoscrizione del contratto, le imprese presentano riserve e richieste di varianti: da lì, i ritardi, i contenziosi, le complicazioni operative sono inevitabili.
Senza contare l’ulteriore tempo da impiegare per la sottoscrizione del contratto, attività ancora funestata dall’applicazione di modalità antidiluviane come la forma pubblica amministrativa, che obbedisce alla legge Notarile del 1913 e la connessa inconciliabilità con le tecniche di sottoscrizione da remoto oggi esistenti.
Per non parlare, poi, dei gravami sulle aziende: la fase dell’esecuzione è funestata dai vari Durc, Durf, verifiche fiscali, proprio, cioè, quegli elementi che possono in linea teorica bloccare i pagamenti.
Ora, il d.l. 76/2020 enuncia espressamente lo scopo delle deroghe previste per la fase di gara: “incentivare gli investimenti pubblici nel settore delle infrastrutture e dei servizi pubblici, nonché al fine di far fronte alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento e dell’emergenza sanitaria globale del COVID-19”.
Però, si fa fronte alle ricadute economiche negative a condizione di immettere presto liquidità nelle casse, non di correre a perdifiato per aggiudicare. Infatti, fino all’aggiudicazione, fino alla sottoscrizione del contratto, l’operatore economico affronta solo spese e non vede il becco di un quattrino.
E che succede sul versante dei pagamenti? Il quotidiano Il Giornale del 15.11.2020 nell’articolo “Lo Stato non paga le imprese e mette a rischio le tredicesime” informa che dei 12 miliardi messi in questi mesi a disposizione della PA per pagare il saldo delle fatture scadute a dicembre 2019, sono stati richiesti appena 2 miliardi e che i debiti commerciali sono passati dai 44 miliardi del 2016 ai 47,4 miliardi del 2019.
I tempi medi di pagamento restano sempre ben al di sopra dei 30 giorni, attestandosi nel 2018. In ogni caso, per il pagamento occorre aver effettuato la prestazione, con la consegna nel caso delle forniture o con gli stati d’avanzamento dei lavori.
Ora, a proposito del pagamento delle forniture, la celeberrima gara per i banchi è stata definitivamente attiva il 28 luglio 2020, con l’ultima rettifica al bando. L’aggiudicazione è avvenuta il 12 agosto 2020: 14 giorni.
Ma, le consegne dei banchi, presupposto necessario per i pagamenti, si sviluppano fino al mese di novembre. Il che significa che le aziende chiamate alla consegna appunto a novembre potranno ottenere il pagamento non prima di oltre 3 mesi dalla conclusione della corsa disperata per gestire l’appalto (che, per altro, com’era ovvio, non ha potuto consentire la consegna di tutti i banchi prima dell’inizio della scuola, per la semplice ragione fisica che i prodotti, per essere consegnati nelle quantità immaginate, debbono essere prima realizzati e, quindi esistere).
Il decreto “semplificazioni” è proprio figlio di quel modo sommario ed erroneo di considerare i processi operativi delle PA, che spesso porta gli organi di governo a produrre tonitruanti comunicati o conferenze stampa, nelle quali informare con compiacimento l’aggiudicazione dell’appalto, come se l’opera, la fornitura o il servizio fossero già realizzati e finiti.
Un modo di concepire che, appunto, fa concentrare l’attenzione sulla sola fase di gara, senza considerare che i suoi impantanamenti sono spesso figli della fretta (errori di coerenza nei documenti di gara) e nell’eccesso di regole minute procedurali, che fa scatenare un contenzioso sul cavillo, causa esterna principale degli stop alle gare. Un contenzioso che, ricordiamolo, spesso è figlio di altre regole senza senso, sulle quali il decreto non è minimamente intervenuto: come individuare il presidente della commissione, il problema se il Rup ne possa fare parte o meno, le modalità complicatissime di comunicazione ai concorrenti, gli obblighi enormi, pervasivi, oppressivi di comunicazione di dati simili, ma mai uguali, in plurime banche dati, simili ma mai uguali.
Anche correndo, quindi, nella fase di gara, poi occorrono i mesi, lunghi mesi, per l’esecuzione: perchè le leggi fisiche del tempo e della produzione non possono essere compresse dalle leggi velleitarie che confondono la sommarietà con la semplificazione.
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(1) Si veda in particolare il passaggio dell’occasional paper della Banca d’Italia “Capitale e investimenti pubblici in Italia: effetti macroeconomici, misurazione e debolezze regolamentari” n. 520 a pag. 17: “Secondo i dati dell’Agenzia per la coesione territoriale (ACT), in media, nel nostro Paese la realizzazione di un’opera pubblica dura 4,4 anni (Fig. 7). La fase di progettazione dell’opera è quella in media più lunga. Da sola rappresenta più della metà della durata complessiva media (2,5 anni), mentre si impiegano 0,6 anni per l’affidamento dei lavori e 1,3 per la loro esecuzione. Per le opere di grandi dimensioni, come prevedibile, la progettazione conta relativamente di meno (intorno al 40 per cento della durata complessiva), mentre incide di più la fase esecutiva”.
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