Decreto mobilità: il disastro definitivo della riforma delle province
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Il decreto per la mobilità del personale provinciale in sovrannumero non risolve il caos determinato dalla riforma Delrio e dalla legge 190/2014 e anzi, lo accentua ulteriormente.
I problemi che pone la bozza di decreto elaborata dalla Funzione Pubblica sono davvero tantissimi e destano la sensazione di un sistema di ricollocazione per molti versi lasciato al caso e alla buona volontà degli enti che intendano davvero darvi corso.
Assenza del riordino.
Il problema principale, che rimane irrisolto, è l’assenza dell’elemento fondamentale della riforma: il riordino delle funzioni.
Sono pochissime le regioni che hanno legiferato per riordinare le funzioni provinciali non fondamentali, stabilendo quali prendere direttamente per sé e quali assegnare ai comuni.
In assenza del riordino, la ricollocazione dei dipendenti provinciali in sovrannumero non può che essere legata al caso: i dipendenti provinciali invece di essere ricollocati in relazione ad un coerente sistema di ridistribuzione delle funzioni, andranno in mobilità nel primo ente che si mostrerà disponibile ad accoglierli. Col rischio che, nelle regioni prive di leggi sul riordino, le funzioni provinciali non fondamentali, a partire da turismo, formazione, servizi sociali, restino non presidiate.
La bozza di decreto non a caso distingue due adempimenti diversi per le regioni. Quelle che abbiano già riordinato le funzioni e ricollocato i dipendenti, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, dovranno solo comunicare quanto realizzato, utilizzando il portale mobilita.gov.it., entro 40 giorni dalla pubblicazione del decreto sulla GU. Le altre regioni, invece, entro il medesimo termine, dovranno pubblicare sul portale i posti disponibili, al pari di tutte le altre amministrazioni.
Disallineamento con leggi regionali.
La bozza di decreto non tiene nel dovuto conto che le poche leggi regionali approvate sono per altro disallineate con le logiche ivi contenute.
Infatti, Palazzo Vidoni parte dal presupposto che le regioni, regolato il riordino delle funzioni, abbiano deciso di acquisire il personale provinciale ad esse adibito, oppure abbiano stabilito di trasferirlo presso gli enti locali. Ma, le cose non stanno così dappertutto.
Si prenda l’esempio della Lombardia: con la legge regionale 18/2015, la regione ha acquisito solo le funzioni connesse ad agricoltura, foreste, caccia e pesca, ambiente ed energia, limitatamente agli ambiti delle concessioni idriche, delle dighe, della destinazione transfrontaliera di rifiuti e delle risorse geotermiche, nonché vigilanza e controllo dell’esercizio dell’attività venatoria e piscatoria. Tutte le altre funzioni restano assegnate alle province e saranno appositamente finanziate.
Pertanto, il personale soprannumerario delle province lombarde che non transiterà presso la regione, resterà tuttavia a lavorare presso le province e, dunque, non dovrebbe nemmeno più considerarsi soprannumerario.
La regione Toscana, con legge regionale 22/2015 ha previsto espressamente di attribuire ai comuni le funzioni del turismo, dello sport, della tenuta degli albi regionali del terzo settore e della forestazione, ma soprattutto ha già fissato criteri per la mobilità propri e completamente incompatibili con la bozza di decreto.
Dunque, si porranno problemi rilevantissimi di conflitti di competenza tra Stato e regioni che hanno già legiferato sul riordino, seguendo a tal fine criteri autonomi e diversi da quelli segnati dalla legge 56/2014.
Regioni “enclave”.
La caotica situazione delle regioni creerà effetti paradossali. Il Veneto, ad esempio, privo di una legge di riordino si trova circondato da regioni come Friuli Venezia Giulia o le province autonome di Trento e Bolzano, fuori dal sistema nazionale di ricollocazione, nonché Lombardia ed Emilia Romagna, che hanno già una legge regionale o stanno per approvarla, le quali di fatto creano sistemi di ricollocazione interamente chiusi al loro interno.
Questo significa che la ricollocazione dei circa 2500 dipendenti provinciali del Veneto potrà avvenire esclusivamente all’interno della regione stessa, risultando praticamente impossibile che dipendenti appartenenti a province di confine (Verona, Rovigo, Treviso, Belluno, Venezia) possano tentare di spostarsi in amministrazioni regionali e locali ad esse vicine, come ad esempio Brescia, Mantova, Modena, Ferrara.
Risulta, dunque, più facile che in Veneto ed altre regioni in situazioni logistiche similari il personale provinciale non troverà ricollocazione, rischiano la messa in disponibilità ed il licenziamento.
Mercato del lavoro.
L’articolo 1, comma 3, esclude l’applicazione del decreto al personale soprannumerario addetto alle funzioni connesse al mercato del lavoro.
Si tratta di circa 7500 persone, poco meno della metà del complesso del personale soprannumerario, per il quale, dunque, manca una prospettiva di ricollocazione.
Il decreto specifica che le province saranno comunque obbligate ad inserire i nominativi di detto personale nel portale on line per l’incontro domanda offerta, ma si evince che tale personale non potrà concorrere alla mobilità presso altri enti.
Il decreto specifica che al personale del mercato del lavoro si applicano le previsioni dell’articolo 15 del d.l. 78/2015. Ma, tale articolo non regola affatto la posizione del personale provinciale soprannumerario addetto al mercato del lavoro, limitandosi invece a prevedere un finanziamento bassissimo, 140 euro in due anni, dello Stato come concorso alla spesa del personale che è di circa 250 milioni annui, senza considerare gli altri 450 milioni che le province spendono per il funzionamento dei servizi. Tra l’altro, il concorso statale alla spesa è di più che dubbia legittimità e fattibilità, in quanto finanziato con risorse del Fondo sociale europeo che andrebbero riservate alla formazione dei disoccupati e, dunque, estremamente difficili da rendicontare alle istituzioni della Ue.
Il d.l. 78/2015, come lo schema di decreto attuativo del Jobs Act, finisce, dunque, per addossare ancora alle province i 700 milioni complessivi di spesa per i servizi per il lavoro, finchè non intervenga il fatto nuovo del riordino che potrebbe consistere nell’acquisizione dei servizi per il lavoro da parte delle regioni, o nell’assorbimento del personale provinciale nell’Agenzia nazionale del lavoro, anche se attualmente lo schema di decreto attuativo del Jobs Acto lo esclude.
Le regioni, sul tema, stanno andando in ordine sparso. A fronte di tantissime regioni che sul punto non hanno ancora legiferato, ad esempio la Toscana e l’Emilia Romagna hanno stabilito di costituire una propria agenzia regionale per il lavoro, impostando regole per i trasferimenti del personale provinciale ancora una volta in conflitto con le indicazioni del decreto.
Sta di fatto che nelle regioni le quali non abbiano comunque legiferato sulla materia del lavoro, il personale addetto ai servizi per il lavoro si vedrà da un lato inserito nelle liste dei soprannumerari (il decreto in questo senso contrasta diametralmente con la circolare interministeriale 1/2015), ma dall’altro sarà privo della possibilità di ricollocarsi. Col rischio che senza una radicale modifica delle disposizioni della legge 190/2014 circa 7500 lavoratori potranno trovarsi in disponibilità e alle soglie del licenziamento.
Mobilità a domanda.
Altro difetto evidente della bozza di decreto è aver disciplinato il processo sulla base di “domande” di mobilità. Il che lascia presumere che in capo alle amministrazioni destinatarie sussista una discrezionalità non tanto nel selezionare le domande stesse (tale discrezionalità ovviamente esiste ed i criteri selettivi servono a questo), quanto piuttosto nell’accettare la domanda. In altre parole, le amministrazioni sembrano obbligate ad inserire nel portale i posti disponibili, ma non ad assumere, se non intendano farlo.
La bozza di decreto sorprendentemente non fa riferimento ad una disposizione avente gli stessi fini, per altro ancora vigente, cioè l’articolo 2, comma 13, del d.l. 95/2012, convertito in legge 135/2012, ove è specificato in modo molto chiaro che le amministrazioni destinatarie dei processi di mobilità di personale dovuto alla spending review sono “tenute” ad assumerlo, fermi restando criteri di selezione.
Vigilanza.
Il decreto per la prima volta si pone il problema della necessità di assicurare che le varie amministrazioni adempiano in modo fedele e corretto ai vari obblighi posti dalle norme sulla ricollocazione, cosa che fin qui non era stata fatta.
L’articolo 11, dunque, affida ai prefetti il potere di vigilare sullo “svolgimento degli adempimenti di cui al presente decreto da parte degli enti locali, adottando, ove necessario, gli atti di competenza finalizzati a definire la domanda e l’offerta di mobilità in stretta collaborazione con il Dipartimento”.
Non è dato sapere, tuttavia, quali possano essere gli “atti di competenza” e come materialmente la vigilanza possa essere svolta. Essa presuppone, per essere efficace, un rilevante e penetrante potere di ingerenza soprattutto sull’inserimento di tutti i dati relativi ai posti disponibili. Il che significa che i prefetti dovrebbero essere in grado di conoscere quali siano le dotazioni organiche di tutti gli enti, quali i posti vacanti delle dotazioni, quali i vincoli finanziari e quali, dunque, le assunzioni materialmente effettuabili.
Si tratta esattamente della ricognizione che il Governo avrebbe dovuto effettuare assolutamente prima di disporre il taglio lineare ex lege delle risorse di personale alle province che ha comportato la messa in sovrannumero forzata di circa 20.000 dipendenti, senza sapere come e dove ricollocarli, cioè esattamente la causa primaria, insieme con l’inerzia delle regioni, dell’impasse che ha subito fin qui l’intero processo di ricollocazione e riordino.
C’è, dunque, da dubitare molto seriamente che i prefetti possano realizzare un controllo così profondo come quello che sarebbe necessario per scongiurare il pericolo che soprattutto i comuni inseriscano dati incompleti, tali da impedire il completamento della ricollocazione.
Di fatto, la vigilanza dei prefetti rischierà di limitarsi a pochi controlli a campione da parte dei più volenterosi e, probabilmente, soprattutto alla verifica del rispetto dei tempi previsti dallo scadenzario.
Sempre l’articolo 11 del decreto assegna ai prefetti anche il compito di vigilare sul rispetto del divieto di effettuare assunzioni a tempo indeterminato previsto, a pena di nullità, dal comma 424 e dal comma 425. Anche in questo caso, l’attività di controllo viene prevista con larghissimo ritardo e sempre senza effettivi poteri di incidenza. Allo scopo, i prefetti sarebbe bene che accedessero alle comunicazioni obbligatorie di assunzione, banca dati dalla quale è possibile evincere se le amministrazioni pubbliche abbiano violato le disposizioni della legge 190/2014, sempre che, comunque, abbiano realmente adempiuto agli obblighi di comunicazione dei reclutamenti effettuati.
Posti disponibili ed inadempimenti.
In effetti, tutta l’operazione rischia di essere inefficace ed inficiata proprio dal rischio elevatissimo di inadempimenti incontrollabili da parte delle amministrazioni.
Nessuno può garantire che effettivamente esse inseriscano nel portale telematico mobilita.gov.it tutti i posti disponibili. Un esempio vale per tutti: molte amministrazioni comunali di grandi dimensioni insistono nell’effettuare ancora assunzioni di dirigenti a contratto ai sensi dell’articolo 110 del d.lgs 267/2000, trincerandosi dietro alla considerazione che si tratta di assunzioni a tempo determinato e, come tali, non espressamente vietate dall’articolo 1, commi 424 e 425, della legge 190/2014, ma non considerando che in tal modo sottraggono posti certamente disponibili delle dotazioni organiche alla ricollocazione dei dirigenti provinciali, che risulta essere tra tutte quella maggiormente a rischio, per la mancanza di posti in generale, aggravata da simili atteggiamenti, considerati a più riprese non ammessi dalla Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il Piemonte (pareri 26 e 113 del 2015).
Non solo: esistono anche comuni che hanno già in precedenza assegnato incarichi dirigenziali a contratto e che dispongono di posti di dirigenti liberi nella dotazione organica, ma non hanno l’intenzione di metterli a disposizione della ricollocazione, per tenerli liberi in vista di futuri concorsi pubblici, mirati alla “stabilizzazione” dei dirigenti a contratto già in servizio. Un cortocircuito inestricabile, che inficia profondamente l’intero processo di ricollocazione e che, evidentemente, a Palazzo Vidoni non conoscono, dal momento che non esiste alcuna disposizione tesa ad obbligare, con sanzioni precise, ad inserire nel portale tutti i posti disponibili della dotazione organica, compresi quelli dirigenziali e dei funzionari più elevati, cioè le categorie meno facili da ricollocare.
D’altra parte che possano esservi diffusi inadempimenti agli obblighi normativi lo dà per scontato lo stesso decreto, quando ammette che le regioni possano non aver dato corso al riordino delle funzioni, o quando all’articolo 4, comma 4, consideri esplicitamente l’ipotesi che le province non inseriscano nel portale l’elenco nominativo del personale provinciale in sovrannumero. In questo caso, il rimedio è permettere ai dipendenti provinciali di presentare istanza di mobilità e, pare di capire, prescindendo dalla circostanza di essere dichiarati in sovrannumero: il decreto, dunque, si porrebbe in aperto contrasto con le disposizioni dell’articolo 1, commi 421, 422, 423, 424 e 425, della legge 190/2014.
Perdita del salario accessorio.
L’articolo 10 del decreto è quello che meno è piaciuto alle organizzazioni sindacali, perché postula la perdita secca di voci rilevanti del salario accessorio dei dipendenti delle province in sovrannumero.
La norma dispone che “i dipendenti in soprannumero, trasferiti alle regioni e agli enti locali, inclusi gli enti pubblici non economici da essi dipendenti e gli enti del Servizio sanitario nazionale, in esito alle procedure di mobilità disciplinate dal presente decreto, mantengono la posizione giuridica ed economica, con riferimento alle voci del trattamento economico fondamentale e accessorio, limitatamente alle voci con carattere di generalità e natura fissa e continuativa, non correlate allo specifico profilo d’impiego nell’ente di provenienza, previste dai vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro, in godimento all’atto del trasferimento, nonché l’anzianità di servizio maturata”.
La disposizione, pertanto, non consente ai dipendenti di conservare integralmente il salario accessorio. Per capirsi occorre un esempio: un dipendente provinciale di categoria D lavorando presso la provincia poteva essere stato destinatario di incarico nell’area delle posizioni organizzative e così godere di un particolare salario accessorio, formato dalla retribuzione di posizione e risultato fissata dalla contrattazione collettiva. Tale salario accessorio non ha natura fissa e continuativa e, dunque, transitato in una regione o in un comune, quel dipendente provinciale perderebbe certamente la retribuzione di posizione e risultato di cui godeva in provincia.
D’altra parte, non esiste sostanzialmente alcuna voce di salario accessorio che abbia natura fissa e continuativa. Quelle che lo sono, come ad esempio le indennità di turno, rischio, disagio, particolari responsabilità, sono strettamente connesse all’organizzazione e all’attività svolta presso l’ente che le ha disposte. Ma se un dipendente provinciale che prestava servizio a turni passa in un comune che non preveda organizzazione su turni, ovviamente perde la relativa indennità.
Questo cortocircuito dipende, ancora una volta, dalla legge 190/2014, che nel tentativo – fallito – di accelerare i tempi della riforma Delrio l’ha resa sostanzialmente inattuabile.
Perché? E’ semplice: l’articolo 1, comma 96, lettera a), della legge 56/2014 prevede una disciplina molto simile a quella dell’articolo 10, comma 2, della bozza di decreto, ma con una importantissima differenza: la norma della legge Delrio stabilisce che ai fini del mantenimento in capo ai dipendenti provinciali in sovrannumero del salario accessorio “le corrispondenti risorse sono trasferite all’ente destinatario”. Questo perché la legge 56/2014 disciplina la mobilità dei dipendenti come un tutt’uno con il trasferimento delle funzioni, alla stregua di una cessione di ramo d’azienda. In sostanza:
a) con la legge 56/2014 il personale dovrebbe essere trasferito per mobilità insieme con le funzioni provinciale verso gli enti di destinazione, per continuare a svolgere presso quegli enti le stesse funzioni che svolgeva presso le province, prevedendo che le province assegnassero agli enti destinatari tutte le risorse umane, strumentali, finanziarie e patrimoniali;
b) con la legge 190/2014 ed il decreto sulla mobilità, invece, sostanzialmente si slega il trasferimento del personale da quello delle funzioni e sottrae, come noto, alle province a regime circa 5 miliardi, il che rende impossibile assegnare agli enti destinatari del personale le risorse necessarie per garantire ai dipendenti la conservazione del salario accessorio.
Per questa ragione, rimane priva di senso l’ultima parte dell’articolo 10, comma 2, del decreto che, imitando quanto già previsto dall’articolo 1, comma 96, lettera a), della legge 56/2014, dispone che le risorse del salario accessorio necessarie per i dipendenti provinciali trasferiti in mobilità “vanno a costituire specifici fondi, destinati esclusivamente al personale trasferito, nell’ambito dei più generali fondi delle risorse decentrate del personale delle categorie e dirigenziale, a valere sulle risorse relative alle assunzioni”. Simile disposizione era utile dell’impostazione della legge 56/2014, per gestire in maniera differenziata i fondi trasferiti dalle province agli enti di destinazione. L’assenza del trasferimento di fondi rende, invece, totalmente superflua la previsione del decreto che, per altro, laddove afferma che i fondi “speciali” riservati ai dipendenti provinciali trasferiti siano costituiti “a valere sulle risorse relative alle assunzioni” si pone in contrasto con la legge e la contrattazione collettiva e le connesse regole di costituzione dei fondi per la contrattazione decentrata.
Senza considerare, poi, l’estrema disparità di trattamento tra dipendenti provinciali, a seconda della regione in cui operano. Infatti, in regioni come la Lombardia, dove sostanzialmente i dipendenti provinciali resteranno al loro posto, essi conserveranno integralmente il salario accessorio; da altre parti e solo per il fattore del tutto casuale che le regioni non abbiano disciplinato il riordino o non lo abbiano regolato come in Lombardia, invece, perderebbero il salario accessorio. Un caos inestricabile, del tutto poco giustificabile.
Per le ragioni esposte in questo paragrafo, risulta praticamente ingestibile il criterio regolatore della mobilità previsto dall’articolo 1, comma 7, lettera d), del decreto, ai sensi del quale si prevede l’assegnazione “assegnazione dei dipendenti in soprannumero, ai sensi del comma 423, alle regioni e agli enti locali, inclusi gli enti pubblici non economici da essi dipendenti e gli enti del Servizio sanitario nazionale, rispettando l’area funzionale, la categoria di inquadramento e la corrispondenza del personale alle funzioni svolte, in relazione al riordino delle funzioni medesime, ai sensi della legge 7 aprile 2014, n. 56 e della normativa vigente, con conseguente prioritaria assegnazione del personale, che alla data di entrata in vigore della legge n. 56 del 2014 era addetto alle funzioni non fondamentali degli enti di area vasta,alle regioni ed agli enti locali titolari delle stesse funzioni”. Infatti, questa norma richiama i criteri di riordino della legge 56/2014, resi impossibili da attuare dalla legge 19072014.
Addio al criterio dei 50 chilometri.
La totale assenza di qualsiasi coordinamento tra il diluvio di norme che si inseguono per attuare una riforma sgangherata come quella delle province ha fatto perdere per strada il criterio, più volte sbandierato, secondo il quale la mobilità forzosa dei dipendenti dovrebbe avere il limite territoriale di 50 chilometri dalla originaria sede di lavoro.
Il decreto sulla mobilità come tale avrebbe dovuto tenerne evidentemente conto, ma non ce n’è alcuna traccia.
I criteri come dire “logistici” sono contenuti nell’articolo 8, comma 1, lettera a) ove si prevede:
– una precedenza speciale ai dipendenti della città metropolitana di Roma, i quali in sostanza hanno un privilegio o prelazione per tutti i posti nelle sedi di lavoro collocate nell’ambito territoriale della città metropolitana di Roma capitale; in sostanza, nell’area metropolitana di Roma sarà impossibile accedere da parte di dipendenti di altre province;
– una precedenza “ordinaria” per i posti nelle sedi di lavoro collocate nei comuni capoluoghi di regione, ai dipendenti delle relative province o città metropolitane.
Ma del raggio chilometrico di trasferimento proprio non si parla. Sicchè in quei territori nei quali i posti disponibili siano effettivamente pochi rispetto al numero dei dipendenti provinciali in sovrannumero o, comunque, gli enti non abbiano inserito tutte le disponibilità nel portale, i dipendenti provinciali saranno costretti a “migrazioni” anche ben al di là dei 50 chilometri, in barba alle disposizioni normative vigenti, se vorranno evitare di trovarsi in disponibilità e poi licenziati.
Questo è confermato dall’ultimo periodo dell’articolo 9, comma 1, del decreto: “per i dipendenti che rimangono non collocati, il Dipartimento procede unilateralmente all’assegnazione, tenendo conto della vacanza di organico delle amministrazioni di destinazione, fermo restando l’ambito provinciale/metropolitano o, in subordine, l’ambito regionale”. Dunque, laddove qualche dipendente provinciale non riesca a ricollocarsi secondo le procedure descritte dal decreto, sarà Palazzo Vidoni ad imporre il suo trasferimento, anche in ambito regionale, vale a dire con trasferimenti eventualmente di centinaia di chilometri.
Circolare 1/2015.
Una breve nota sulla circolare interministeriale 1/2015. Essa è stata smentita su una serie di fronti:
– polizia provinciale: aveva indicato che sarebbe stata oggetto di riordino nell’ambito della riforma delle forze di polizia; non è andata affatto così, come dimostra il d.l. 78/2015;
– mercato del lavoro: aveva rilevato che il personale addetto sarebbe transitato nell’agenzia nazionale; non avverrà;
– incontro domanda/offerta telematico: aveva paventato un sistema automatico di incontro domanda offerta; invece si procederà a domanda del personale interessato;
– enti del servizio sanitario: aveva escluso detti enti dalla mobilità dei dipendenti delle province; il decreto, invece, li include espressamente;
– mobilità neutrale: non si era pronunciata, lasciando spazio per mesi alle tesi secondo le quali gli enti potevano assumere per mobilità volontaria, al di fuori delle previsioni della legge 190/2014; c’è voluto il parere 19/2015 della Corte dei conti Sezione Autonomie per chiarire che la mobilità “neutra” non è ammissibile.
Insomma, nel volgere di 5 mesi la circolare 1/2015 è poco più che carta straccia. Un dubbio: ma perché i ministri della Funzione Pubblica e degli Affari Regionali a suo tempo hanno firmato una disposizione talmente lontana dalla realtà e priva della capacità di disciplinare con un minimo di utilità la riforma?
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