Voucher lavoro: suggerimenti per i comuni che intendono attuare politiche del lavoro per i propri disoccupati
Se l’intento è certamente condivisibile e dimostra attenzione per i problemi economici, sociali e lavorativi, molte volte la strada seguita appare incongrua e problematica.
In via di premessa, molte volte ai comuni sfugge un dato: essi rientrano tra i soggetti autorizzati dalla legge a svolgere funzioni di intermediazione, ai sensi dell’articolo 6[1] del d.lgs 276/2003.
Ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera b), del d.lgs 276/2003, per “intermediazione” si intende “ l’attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro, anche in relazione all’inserimento lavorativo dei disabili e dei gruppi di lavoratori svantaggiati, comprensiva tra l’altro: della raccolta dei curricula dei potenziali lavoratori; della preselezione e costituzione di relativa banca dati; della promozione e gestione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro; della effettuazione, su richiesta del committente, di tutte le comunicazioni conseguenti alle assunzioni avvenute a seguito della attività di intermediazione; dell’orientamento professionale; della progettazione ed erogazione di attività formative finalizzate all’inserimento lavorativo ”.
In termini più semplici, i comuni sono, quindi, autorizzati a raccogliere anche direttamente, senza avvalersi di soggetti terzi (centri per l’impiego o agenzie private) i curriculum dei disoccupati residenti, per creare una banca dati in modo da selezionarli e proporli ad aziende.
Questa attività è una vera e propria funzione di incontro domanda/offerta, gestendo la quale i comuni possono proporsi come uno dei soggetti della rete degli intermediari appunto tra domanda di lavoro delle aziende ed offerta dei disoccupati. Potenzialmente, i comuni possono contare sull’importantissima ampia conoscenza non solo del lato dell’offerta, quella dei lavoratori, ma anche e soprattutto del lato della domanda: tramite lo sportello unico delle attività produttive e gli uffici tecnici urbanistica ed edilizia, infatti, i comuni dispongono della capacità di intercettare le imprese sostanzialmente nel momento in cui esse avviano la propria attività. Dunque, potrebbero proporsi in maniera rilevante per intermediare i lavoratori.
Si è detto che i comuni dispongono, sul tema, di una rilevante potenzialità. Nei fatti, tuttavia, la loro funzione di intermediazione è molto ridotta, per una serie di comprensibili circostanze:
a) assenza di uffici e di personale specializzato nella funzione di intermediazione del lavoro e, comunque, con esperienza nell’ambito delle politiche attive del lavoro;
b) assenza di un canale stabile di comunicazione tra gli uffici che intercettano la domanda (Suap e edilizia-urbanistica) ed uffici ai quali si rivolgono i disoccupati (servizi sociali o sportelli-lavoro se esistenti);
c) assenza della consapevolezza di poter gestire direttamente queste attività.
Sta di fatto, quindi, che la gran parte dei comuni non svolge nella maniera correttamente indicata dalla normativa la funzione di promozione di politiche del lavoro volte a creare opportunità occupazionali per i propri residenti e ripiega verso soluzioni più semplificate e meglio gestibili/comprensibili nell’ottica della loro peculiare esperienza.
La tentazione è quella di “forzare il mercato” e, dunque, di creare quasi in provetta occasioni lavorative di natura pubblicistica, utilizzando, quindi, risorse pubbliche per attività lavorative a committenza pubblica.
Un sistema da qualche tempo molto utilizzato è quello del ricorso al lavoro accessorio, regolato dagli articoli da 48 a 50 del d.lgs 81/2015, meglio noto come sistema dei voucher, la cui area di operatività, come è noto, si è di molto espansa successivamente alle riforme recenti per effetto delle quali sono stati rimossi quasi del tutto i vincoli operativi inizialmente previsti dal d.lgs 276/2003. I comuni, quindi, allo scopo di fornire occasioni di lavoro e reddito a disoccupati propri residenti, pensano di utilizzare i voucher per impiegare i disoccupati propri residenti in lavori accessori, quasi alla stregua di progetti di pubblica utilità. In effetti, nei bandi che i comuni pubblicano per invitare i disoccupati a manifestare l’interesse ad essere coinvolti nelle attività di lavoro accessorio, vengono evidenziate le finalità di utilità sociale sottese ai bandi stessi, configurati come strumenti attuativi di progetti di inserimento lavorativo.
Tuttavia, i problemi e gli svantaggi di questo modo di procedere si presentano di gran lunga superiori ai vantaggi. Le ragioni sono di natura duplice: attengono sia alla disciplina pubblicistica della spesa degli enti locali, sia alla generali regole di ingresso nel mercato del lavoro.
In quanto alla spesa, i comuni incorrono nell’errore di considerarla come estranea ai tetti imposti dalle varie norme poste a limitare appunto l’ammontare dei costi legati all’acquisizione di personale da parte delle amministrazioni. Gli enti locali, infatti, tendono a dare rilievo esclusivamente al fine occupazionale enunciato dai progetti e dai bandi, senza tenere conto, però, di un dato dirimente: se ad acquisire le prestazioni di lavoro accessorio sono direttamente essi comuni, non possono che essere configurati come committenti delle prestazioni lavorative stesse. Sicchè, i comuni, in qualità di committenti, finiscono per essere i beneficiari diretti delle attività, per quanto, poi, i progetti le finalizzino all’utilità collettiva.
Irrimediabilmente, allora, la spesa per voucher finisce per ricadere nel limite di spesa per lavoro “flessibile” imposto alle pubbliche amministrazioni dall’articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010, come confermato, del resto, dalla Corte dei conti. La Sezione regionale di controllo per la Liguria, ad esempio, con deliberazione 13 maggio 2016, n. 53 esclude “ che l’ente possa avvalersi di personale assunto con forme di lavoro accessorio, tanto più se destinato ad attività non immediatamente riconducibili alle funzioni fondamentali del comune ” oltre i limiti previsti dalla normativa.
Come si nota, la pronuncia della Sezione Liguria non nasconde una certa contrarietà alla circostanza che i progetti di inserimento lavorativo tramite lavoro accessorio attivati dai comuni “creino” opportunità lavorative al di là di effettivi fabbisogni dei comuni stessi, persino, quindi, per attività non rientranti nelle funzioni fondamentali. Oltre, quindi, al limite di spesa, voucher utilizzati per scopi occupazionali ma che impieghino i lavoratori in attività non attinenti alle funzioni fondamentali del committente, rischiano persino di essere considerati fonte di danno all’erario.
In ogni caso, che il lavoro accessorio non possa sfuggire ai vincoli di spesa imposti dal d.l. 78/2010 e da qualsiasi altra norma che regoli il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni lo sancisce l’articolo 48, comma 4, del d.lgs 81/2015, ai sensi del quale “ il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio da parte di un committente pubblico è consentito nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale e, ove previsto, dal patto di stabilità interno ”.
Detta norma in maniera molto esplicita dispone che:
a) le amministrazioni che si avvalgono dei voucher sono “committenti”;
b) pertanto, i voucher sono attività lavorative che vanno a vantaggio dei committenti;
c) dunque, non può non essere una spesa connessa al lavoro flessibile;
d) di conseguenza tale spesa incontra tutti i limiti del lavoro flessibile;
e) in particolare, oltre ai limiti finanziari, anche quelli funzionali: scatta l’applicazione dell’articolo 36, comma 2, del d.lgs 165/2001, che permette alle amministrazioni pubbliche di avvalersi di lavori flessibili per rispondere a fabbisogni temporanei o eccezionali, ma ovviamente connessi alle proprie competenze e non a funzioni di politica attiva del lavoro.
Per quanto riguarda, appunto, la funzionalità dei progetti di avviamento al lavoro di disoccupati che i comuni spesso avviano mediante voucher, occorre sottolineare che essa è da considerare di per sé molto dubbia e, soprattutto, poco efficace.
La funzione di intermediazione o, comunque, di politica attiva del lavoro, da gestire secondo le regole per la verità complesse e delicate, deve necessariamente essere indirizzata ad attivare i disoccupati, incrementando le loro opportunità di reperimento di un lavoro effettivo, in modo che si possano spendere in modo efficace e stabile nel mercato.
Detto in parole più semplici: al netto delle attività preliminari (orientamento, creazione del curriculum, analisi delle competenze) necessari all’attivazione di una politica attiva del lavoro, essa quando giunge alla fase dell’intermediazione deve puntare all’obiettivo di creare opportunità di lavoro concrete ed effettive che, per quanto possano nascere con forme flessibili anche di sola esperienza e non, dunque, di lavoro subordinato effettivo (come nel caso dei tirocini di inserimento lavorativo), possa sboccare, poi, in un lavoro subordinato potenzialmente anche a tempo indeterminato.
Ora, è evidente che se un comune acquisisca attività di lavoro accessorio da alcuni suoi residenti, di certo ottiene il risultato di offrire loro occasioni di ottenere un minimo di reddito, ma non realizza una vera e propria politica attiva del lavoro. La ragione è semplice: il committente pubblico non può in alcun modo trasformare rapporti di lavoro flessibili in stabili, perché, come noto, l’ingresso nei ruoli delle amministrazioni pubbliche avviene solo per concorso.
Dunque, un’esperienza lavorativa promossa dall’ente pubblico che veda come committente dei voucher il medesimo ente pubblico si presenta come asfittica: non può mai generare un virtuoso strumento di avvicinamento e conoscenza reciproca tra datore pubblico e lavoratore ai fini di una successiva costituzione di rapporto di lavoro. Al contrario, rischia di ingenerare nei soggetti coinvolti il falso convincimento di poter contare prima o poi su una stabilizzazione “pubblica”, spingendoli nella trappola del precariato pubblico, molte volte causa della mancanza di concreta volontà di cercare opportunità di lavoro nel mercato più ampio privato.
E’ per queste stesse ragioni che si presentano come poco opportuni anche i tirocini di inserimento lavorativo che abbiano come soggetti ospitanti i comuni o altre pubbliche amministrazioni: infatti, sempre perché le PA non possono assumere se non per concorso, è evidente che nessun inserimento lavorativo potrà mai conseguire ad un tirocinio condotto con una PA.
Vi sono, poi, anche casi nei quali alcuni enti locali si spingono oltre e, sempre nell’intento di creare opportunità di lavoro ai confini tra l’intermediazione e gli interventi di sostegno al reddito “sociale”, giungono a creare ex novo istituti ibridi anche molto eccentrici sul piano del rispetto delle regole.
Non mancano, infatti, bandi finalizzati ad attivare i disoccupati (con target precisi: giovani che studiano, anziani vicini alla pensione, famiglie monogenitoriali o altro ancora) a realizzare attività sempre qualificate come di utilità sociale, compensate, però, né come lavoro subordinato, né come collaborazioni coordinate e continuative, né col voucher del lavoro accessorio, bensì mediante “borse lavoro” o similari definizioni, tratte verosimilmente dalle modalità con le quali spesso vengono in gergo denominate le indennità di partecipazione ai tirocini.
Tali “borse lavoro” vengono così definite all’evidente scopo di aggirare i vincoli posti dalla legge alla spesa di personale flessibile. Ma, si presentano con ancora maggiori sospetti di legittimità, sotto una molteplicità di profili:
1) pur non utilizzandosi il nomen iurisi di lavoro accessorio o voucher, una borsa lavoro che compensa con un gettone orario attività lavorativa, resta comunque acquisizione di lavoro flessibile;
2) s’è visto che, per la magistratura contabile, ma anche per la disciplina riguardante il lavoro pubblico, il lavoro flessibile deve:
a. rispettare comunque i tetti di spesa previsti dalla legge;
b. essere finalizzato alla realizzazione delle funzioni fondamentali delle PA;
3) la finalizzazione a scopi sociali od occupazionali non è sufficiente per modificare l’assetto normativo;
4) l’utilizzo di disoccupati in attività lavorativa non configurata né come lavoro subordinato, né come collaborazione nemmeno occasionale, né come lavoro accessorio, né come tirocinio e compensata con “borse lavoro” orarie a forfait genera un impiego di persone in attività lavorativa completamente extra ordinem, che espone i comuni e, comunque, le PA al grave rischio di realizzare lavoro irregolare, privo di titolo legittimo, compensato in modo da violare le regole poste dalle leggi di tutela del lavoro.
La strada dei voucher o delle borse lavoro e, comunque, di interventi che in realtà non consentono ai disoccupati di essere instradati verso opportunità di inserimento lavorativo reali, perché attività lavorative del committente pubblico non possono trasformarsi in lavoro subordinato, va certamente abbandonata.
Altri, più corretti e non esposti ai pericoli di illegittimità rilevati sopra, possono essere gli strumenti dei quali i comuni hanno facoltà di avvalersi.
Il primo lo abbiamo già visto: i comuni possono svolgere attività di intermediazione, volta, cioè, non ad acquisire come asfittico committente di voucher i lavoratori, bensì a proporre i disoccupati in cerca di lavoro alle aziende in cerca di lavoratori.
Un secondo strumento è quello di utilizzare la leva del committente pubblico di appalti. I comuni possono in maniera molto più efficace dei progetti per voucher o borsa lavoro avvicinare ad esperienze lavorative concrete e meno precarie i disoccupati, mediante il notissimo strumento degli appalti di servizi diversi da quelli socio-sanitari a cooperative di tipo B. Basta aver cura che le cooperative impieghino effettivamente lavoratori appartenenti alle categorie che i comuni individuano come target, mediante la corretta configurazione dei contratti di appalto [2].
E’ da ricordare, a proposito, che il nuovo codice dei contratti:
a) lascia indirettamente salva la normativa riguardante gli appalti alle cooperative sociali di tipo B, cioè la legge 381/1991;
b) all’articolo 112 regola espressamente gli appalti “riservati”, prevedendo che “ le stazioni appaltanti possono riservare il diritto di partecipazione alle procedure di appalto e a quelle di concessione o possono riservarne l’esecuzione ad operatori economici e a cooperative sociali e loro consorzi il cui scopo principale sia l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate o possono riservarne l’esecuzione nel contesto di programmi di lavoro protetti quando almeno il 30 per cento dei lavoratori dei suddetti operatori economici sia composto da lavoratori con disabilità o da lavoratori svantaggiati ”;
c) estende l’accezione dei “lavoratori svantaggiati” che possono essere inseriti negli appalti riservati: non si tratta più solo di quelli elencati dall’articolo 4, comma 1[3], della legge 381/1991, ma anche le “persone svantaggiate” e cioè quei soggetti [4] considerati particolarmente deboli nel mercato del lavoro, ai sensi del Regolamento (Ue) n. 651/2014 della Commissione del 17 giugno 2014.
Un terzo modo di procedere per i comuni potrebbe consistere nell’idea di convenzionarsi con i servizi pubblici/privati per il lavoro, girando loro le risorse delle quali dispongono, per effettuare insieme con detti servizi progetti di promozione dell’occupazione. In poche parole, la spesa invece di essere destinata in modo improprio a borse lavoro o voucher, potrebbe essere destinata a costituire, anche solo a titolo di co-finanziamento parziale. una “dote” in favore del disoccupato, che poi quest’ultimo va a spendere in servizi di aiuto alla ricerca attiva di lavoro realizzati nell’ambito di progetti condotti dai servizi pubblico-privati per il lavoro. I comuni, dunque, potrebbero selezionare progetti di accompagnamento al lavoro attivi nel loro territorio, condotti dai centri per l’impiego o dai soggetti autorizzati/accreditati, e compartecipare come partner, riservandosi un parziale cofinanziamento della spesa e alcune funzioni attive, come, tra tutte, quella dell’individuazione dei soggetti propri residenti da avviare ai progetti.
Con queste o altre modalità, i comuni non incorrono nei molti, troppi, inconvenienti derivanti dal creare opportunità di lavoro “forzate”, qualificandosi come committenti di lavori occasionali. Al contrario, gestiscono in modo virtuoso e corretto le possibilità che l’ordinamento fornisce loro per aiutare i disoccupati ad entrare nel mercato del lavoro in modo efficace, utilizzando strumenti e schemi in linea con le indicazioni del d.lgs 276/2003 e del d.lgs 150/2015, qualificandosi come punti rilevanti della rete dei servizi per il lavoro.
1. Sono autorizzati allo svolgimento delle attività di intermediazione:
a) gli istituti di scuola secondaria di secondo grado, statali e paritari, a condizione che rendano pubblici e gratuitamente accessibili sui relativi siti istituzionali i curricula dei propri studenti all’ultimo anno di corso e fino ad almeno dodici mesi successivi alla data del conseguimento del titolo di studio;
b) le università, pubbliche e private, e i consorzi universitari, a condizione che rendano pubblici e gratuitamente accessibili sui relativi siti istituzionali i curricula dei propri studenti dalla data di immatricolazione e fino ad almeno dodici mesi successivi alla data del conseguimento del titolo di studio;
c) i comuni, singoli o associati nelle forme delle unioni di comuni e delle comunità montane, e le camere di commercio;
d) le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale anche per il tramite delle associazioni territoriali e delle società di servizi controllate;
e) i patronati, gli enti bilaterali e le associazioni senza fini di lucro che hanno per oggetto la tutela del lavoro, l’assistenza e la promozione delle attività imprenditoriali, la progettazione e l’erogazione di percorsi formativi e di alternanza, la tutela della disabilità;
f) i gestori di siti internet a condizione che svolgano la predetta attività senza finalità di lucro e che rendano pubblici sul sito medesimo i dati identificativi del legale rappresentante;
f-bis) l’Ente nazionale di previdenza e di assistenza per i lavoratori dello spettacolo e dello sport professionistico, con esclusivo riferimento ai lavoratori dello spettacolo come definiti ai sensi della normativa vigente.
2. L’ordine nazionale dei consulenti del lavoro può chiedere l’iscrizione all’albo di cui all’articolo 4 di una apposita fondazione o di altro soggetto giuridico dotato di personalità giuridica costituito nell’ambito del consiglio nazionale dei consulenti del lavoro per lo svolgimento a livello nazionale di attività di intermediazione. L’iscrizione è subordinata al rispetto dei requisiti di cui alle lettere c), d), e), f), g) di cui all’articolo 5, comma 1.
3. Ferme restando le normative regionali vigenti per specifici regimi di autorizzazione su base regionale, l’autorizzazione allo svolgimento della attività di intermediazione per i soggetti di cui ai commi che precedono è subordinata alla interconnessione alla borsa continua nazionale del lavoro per il tramite del portale clic lavoro, nonché al rilascio alle regioni e al Ministero del lavoro e delle politiche sociali di ogni informazione utile relativa al monitoraggio dei fabbisogni professionali e al buon funzionamento del mercato del lavoro.
4. Entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione il Ministero del lavoro e delle politiche sociali definisce con proprio decreto le modalità di interconnessione dei soggetti di cui al comma 3 al portale clic lavoro che costituisce la borsa continua nazionale del lavoro, nonché le modalità della loro iscrizione in una apposita sezione dell’albo di cui all’articolo 4, comma 1. Il mancato conferimento dei dati alla borsa continua nazionale del lavoro comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 2000 a euro 12000, nonché la cancellazione dall’albo di cui all’articolo 4, comma 1, con conseguente divieto di proseguire l’attività di intermediazione.
5. Le amministrazioni di cui al comma 1 inserite nell’elenco di cui all’articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, svolgono l’attività di intermediazione senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
5-bis. L’iscrizione alla sezione dell’albo di cui all’articolo 4, comma 1, lettera c), dei soggetti autorizzati secondo il regime particolare di cui al comma 1, lettere c), d), e), f), e f-bis), nonché al comma 2 del presente articolo, comporta automaticamente l’iscrizione degli stessi alle sezioni dell’Albo di cui alle lettere d) ed e) dell’articolo 4, comma 1.
a) non avere un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi;
b) avere un’età compresa tra i 15 e i 24 anni;
c) non possedere un diploma di scuola media superiore o professionale (livello ISCED 3) o aver completato la formazione a tempo pieno da non più di due anni e non avere ancora ottenuto il primo impiego regolarmente retribuito;
d) aver superato i 50 anni di età;
e) essere un adulto che vive solo con una o più persone a carico;
f) essere occupato in professioni o settori caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che supera almeno del 25 % la disparità media uomo-donna in tutti i settori economici dello Stato membro interessato se il lavoratore interessato appartiene al genere sottorappresentato;
g) appartenere a una minoranza etnica di uno Stato membro e avere la necessità di migliorare la propria formazione linguistica e professionale o la propria esperienza lavorativa per aumentare le prospettive di accesso ad un’occupazione stabile ”.
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