La fabbrica di poltrone che non chiude mai, dove i manager pubblici sono più dei dipendenti
ROMA Si è propensi a credere come qualcosa di ovvio che le aziende pubbliche possedute da comuni, province e regioni rispondano a comuni, province e regioni. Che quello che fanno sia soprattutto offrire servizi pubblici locali. Che il numero dei loro dipendenti sia superiore a quello degli amministratori. Invece non è così. Anzi, è tutto il contrario. Le oltre 7 mila società partecipate da enti locali costituiscono ormai un esercito che si autogoverna da solo, spesso addirittura sconosciuto ai generali che dovrebbero guidarlo. Solo il 35% di quelle aziende si preoccupa di far arrivare acqua, luce e gasnelle case degli italiani, di far girare bus e metropolitane, di assistere anziani e disabili. Il 40% svolge invece generiche attività “strumentali” (per lo più professionali) e il restante 25 non si sa affatto cosa faccia. Un terzo del totale, inoltre, ha più amministratori che dipendenti e un’altra buona fetta riceve finanziamenti pubblici che superano di gran lunga la produzione offerta di beni e servizi.
Proprio mentre il governo tenta l’affondo finale per tagliare almeno una parte delle 7.181 aziende pubbliche locali, la Corte dei conti le fotografa impietosamente nel loro stato di totale anarchia, mettendo in risalto soprattutto il ruolo di distributori automatici di poltrone che quegli organismi stanno ormai assumendo in misura preponderante. I magistrati contabili sono periodicamente chiamati a monitorare oltre a spese, sprechi e costi, i piani di razionalizzazione di ciascuna amministrazione locale, a cominciare proprio dallo sfoltimento delle “partecipate”, già previsto dalla legge di stabilità 2015.
Sfoltimento di cui però, almeno finora, non si vede neppure l’ombra. La Corte de i conti è costretta già in partenza a ridimensionare la platea sotto indagine: delle 7.181 partecipate locali, solo 4.217 hanno dati di bilancio disponibili e confrontabili. Sulla base di questo elenco, regioni, province e comuni hanno presentato i piani con i tagli richiesti, ma tutto sono questi piani meno che di razionalizzazione. Tanto che la Corte dei conti scrive: «Gli esiti delle istruttorie svolte evidenziano diffusi comportamenti di disapplicazione della normativa, soprattutto per la difficoltà degli enti di esercitare compiutamente i poteri di indirizzo e di controllo nei confronti delle proprie partecipate». Gli enti locali non dispongono neppure della “completa mappatura” delle società possedute. La Corte dei conti parla infatti di «rappresentazione lacunosa e parziale delle partecipazioni possedute, che ha impedito in molti casi di intraprendere le necessarie azioni correttive».Nei loro piani si possono leggere passaggi quasi surreali. Come quello in cui la regione Calabria decide che il piano stesso non è obbligatorio ma solo indicativo. O come quello in cui la regione Lazio per sfoltire l’elenco delle sue società ne crea una nuova. Glielo consente lo statuto grazie a una riserva di legge. Alcuni comuni lombardi, dal canto loro, dimenticano di indicare l’acquisizione di nuove partecipazioni e non si sentono in dovere di dimostrare l’indispensabilità delle loro aziende. La Toscana interpreta a suo modo la legge liberandosi solo delle partecipazioni minoritarie. E le province di Ancora e di Ascoli Piceno si rifiutano di dismettere società con un numero di dipendenti inferiore a quello dei dirigenti. L’elenco delle fantasie interpretative locali continua ancora per pagine e pagine, in un crescendo che smonta pezzo dopo pezzo la legge dello Stato.
Il mosaico dei dati a disposizione dei magistrati contabili dimostra in realtà come la funzione di quegli organismi che si vogliono salvare a tutti i costi sia non solo quella di fornire servizi ai cittadini quanto di catalizzare consenso politico. E i loro azionisti, invece di indirizzarli e controllarli, tagliando i rami secchi, fanno da argine ad ogni tentativo di razionalizzazione. Ed ecco spuntare allora le 1.279 partecipate con più amministratori che dipendenti, che entro un anno dovrebbero sparire, o le quasi tremila con meno di 20 impiegati ciascuna, molte delle quali sono scatole vuote. Ecco le 2.753 società che non offrono servizi ai cittadini, gran parte delle quali in perdita. Ma il consenso politico si fa anche assumendo senza badare a costi: così nelle imprese totalmente pubbliche il costo del personale sale fino ad arrivare a un terzo dell’intero fatturato, con punte del 78% in Basilicata, del 59 in Calabria e del 53 in Campania. Il consenso si fa infine chiudendo ogni porta alla concorrenza e avvantaggiando solo gli amici: su 22.342 affidamenti di lavoro, le gare sono soltanto 150. In tutto questo, il conto economico sembra l’ultima delle preoccupazioni: se nel complesso “gli organismi in utile superano quelli in perdita”, al Sud succede il contrario e in due regioni – Sicilia e Campania – il rosso supera il fatturato. Nel complesso, poi – dice la Corte dei conti – «c’è una prevalenza dei debiti, 82,3 miliardi, sui crediti».
Raddrizzare un quadro così inclinato verso il clientelismo non è per niente semplice. Ci prova il governo con il decreto Madia, appena approvato, che cerca di dare una stretta più forte di quella quella, inefficace, della legge di stabilità 2015. Gli enti territoriali avranno sei mesi di tempo per fare una ricognizione seria delle società possedute e un anno per liquidare quelle non necessarie che non rispettano le regole. Quali? Le scatole vuote, quelle con bilancio in rosso per 4 anni negli ultimi 5 esercizi, quelle con più amministratori che dipendenti, quelle con fatturato sotto un milione di euro. Sarà possibile mantenere o creare solo imprese che realizzano opere pubbliche o che offrono servizi di interesse generale. Ed è in questa formulazione forse troppo ampia che potrebbe rimaterializzarsi quella sfrenata fantasia interpretativa che ha consentito finora a regioni, comuni e province di mantenere lo status quo.
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