Riforme a tanto al chilo
Luigi Oliveri
La stagione delle “riforme” in Italia sembra non esserci mai stata, ma invece è sempre presente ed eterna. Con l’aggravante che si tratta troppe volte di riforme frettolose, che trattano spezzoni della materia, creando più problemi della normativa riformata.
Troppe volte si tratta di interventi normativi dettati dall’urgenza, dalla necessità di evidenziare che “si fa qualcosa”, con totale sacrificio della qualità del risultato, ed annullamento dei processi di approfondimento, analisi e previsione dell’impatto.
Il Governo ed il Parlamento parlano molto di riforme, pur approvandone molte meno, recitando il mantra della loro necessità, soprattutto dovuta alla circostanza che negli ultimi 20 anni non si sono fatte e ciò è una delle cause prime della situazione di crisi dell’Italia.
Ovviamente, i fatti smentiscono totalmente questa propaganda, come dimostra la seguente e nemmeno molto ragionata e completa rassegna di riforme degli ultimi 20 anni:
– Elezione diretta del sindaco e presidente della provincia;
– Ordinamento finanziario e contabile degli enti locali;
– Ordinamento degli enti locali;
– Legge elettorale regionale;
– Decentramento amministrativo (pacchetto di riforme-Bassanini);
– Riforma della scuola 1 (Berlinguer);
– Riforma della scuola 2 (Brichetto-Moratti);
– Riforma della scuola 3 (Gelmini);
– Riforma del mercato del lavoro 1 (Treu);
– Riforma del lavoro a tempo determinato, 1, 2 e3;
– Riforma del mercato del lavoro 2 (cosiddetto pacchetto Biagi);
– Riforma del Titolo V della Costituzione;
– Riforma delle Fondazioni bancarie;
– Riforma del condominio 1 e 2;
– Riforme fiscali:
o Introduzione dell’Irap;
o Abolizione dell’Invim;
o Introduzione dell’Ici;
o Abolizione Ici sulla prima casa;
o Modifca almeno tre volte delle aliquote Irpef;
o Dall’Irpeg all’Ires;
o Riforma a getto continuo delle imposte e tasse locali per i servizi;
o Condoni di ogni tipo;
o Introduzione dell’Imu, poi della Iuc, Tar-Tasi;
– depenalizzazione del falso in bilancio;
– riforma dei servizi pubblici locali 2001, 2003, 2006, 2007, 2009, 2010; 2012 e 2013;
– riforma della pubblica amministrazione: 1993, 1998, 2001, 2005, 2008, 2009, 2010;
– riforma del procedimento amministrativo: 2005, 2009, 2013;
– riforma del commercio: 1997, 2011;
– riforma del diritto societario;
– riforma della legge fallimentare;
– riforme del diritto processuale civile;
– riforme a getto continuo e senza interruzione del diritto processuale penale;
– giudici di pace;
– conciliazione, eliminata e poi ripristinata;
– espropriazione per pubblica utilità;
– disciplina dell’edilizia;
– documentazione amministrativa (autocertificazioni), 2000 e 2012;
– Durc 2003;
– Appalti: 1994, 1997, 2000, 2003, 2006, 2008, 2010 (per restare solo alle principali);
– Introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione;
– Riforma delle telecomunicazioni (legge Gasparri);
– Privatizzazioni varie;
– soppressione della leva obbligatoria;
– riforme dell’Università;
– riforma del diritto alla privacy;
– riforma e controriforma delle prestazioni dei medici intramoenia;
– introduzione delle Agenzie autonome, scorporate dai Ministeri;
– riforma delle pensioni Dini, Maroni, Damiano e Fornero.
– riforma elettorale Mattarellum e Porcellum;
– riforme del codice della strada;
– riforma del processo amministrativo;
– riforma della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Il problema, allora, all’evidenza non è certamente quello della mancanza delle riforme.
Esattamente al contrario, probabilmente è quello dell’eccesso di riforme, ma, soprattutto, della loro qualità sempre più scadente, della loro approvazione convulsa, legata al momento, mai caratterizzata da una visione di anni.
L’esempio più sconvolgente è la quantità di modifiche pardon, riforme) al codice dei contratti pubblici: oltre 600 in pochissimi anni.
La nuova “stagione delle riforme” apertasi da qualche mese non cambia, purtroppo, caratteristiche. Prova ne sia la devastante e pessima riforma delle province, lo scarsissimo respiro della riforma “epocale” (?) della pubblica amministrazione, praticamente già congelata dalla legge di stabilità, come conseguenza della dissennata azione sulle province.
Adesso, si aggiunge l’ennesima riforma del mercato del lavoro, mediante il JobsAct, ovvero il d.lgs di attuazione della legge 183/2014 in materia di contratto asseritamente a “tutele crescenti”, che non fa in tempo ad essere approvato in Consiglio dei Ministri e già ripropone la diatriba: “l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori si applica o non si applica al lavoro pubblico?”.
La risposta la fornisce l’articolo 51, comma 2, del d.lgs 165/2001, sul punto chiarissimo: l’articolo 18 si applica, comprese le sue successive modificazioni ed integrazioni.
La tesi secondo la quale l’accesso al lavoro pubblico tramite concorso impedirebbe l’estensione dell’articolo 18 al lavoro pubblico (ma, se è così, perché, allora, l’articolo 51, comma 2, citato esiste?), appare oggettivamente debole e solo artificio retorico.
Ciò che si nota è che la riforma dell’articolo 18, ma, meglio dire, della tutela dei licenziamenti illegittimi, si presenta carente, frettolosa sotto molti aspetti, compreso anche quello della definitiva regolazione del rapporto tra articolo 18 e lavoro pubblico. Eppure, l’esperienza della legge Fornero c’era e i contrasti interpretativi insorti erano noti e conosciuti. Perché, dunque, incorrere nuovamente nell’errore di lasciare dubbi, anche se dubbi non ve ne potrebbero essere?
E perché non prendere atto che l’estensione, necessitata, dell’articolo 18 al lavoro pubblico ha influenze negative sulle tutele successive alla risoluzione del rapporto di lavoro. Si pensi all’inapplicabilità del “contratto di ricollocazione”, previsto dal JobsAct, a vantaggio dei lavoratori illegittimamente licenziati, che hanno avuto come benservito la sola indennità economica. Se il dipendente pubblico, licenziato, volesse provare a rientrare nel proprio alveo professionale, la p.a., dovrebbe rifare un concorso. E magari trovarsi il posto coperto da uno assunto per chiamata diretta. Le storture sono queste, non la cecità rispetto ad una norma chiarissima, l’articolo 51, comma 2, del d.lgs 165/2001, che, piaccia o non piaccia, estende l’articolo 18 ed ogni sua modificazione al lavoro pubblico. Si vuole evitare ciò? Occorre modificare l’articolo 51, comma 2, e poi spiegarlo ai lavoratori privati…
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