13/12/2019 – Rimborso spese legali per i dipendenti coinvolti in vicende giudiziarie: presupposti normativi e verifiche istruttorie

Rimborso spese legali per i dipendenti coinvolti in vicende giudiziarie: presupposti normativi e verifiche istruttorie
di Michele Deodati – Responsabile SUAP Unione Appennino bolognese e Vicesegretario comunale
In un momento in cui le casse pubbliche sono sempre più in sofferenza, il tema del rimborso delle spese legali a favore del dipendente coinvolto in vicende giudiziarie sta assumendo un rilievo sempre maggiore.
Nel caso deciso dal Consiglio di Stato con la Sentenza n. 8137 del 28 novembre 2019, un dipendente statale è stato sottoposto ad un processo penale nel quale è stato imputato per il reato previsto dall’articolo 326 del Codice penale, per aver rivelato una notizia destinata a rimanere segreta. Dopo la conclusione del giudizio penale, l’interessato ha chiesto all’Amministrazione di appartenenza il rimborso delle spese legali sostenute, ma si è visto respingere l’istanza. Il T.A.R., adito per ottenere l’annullamento del diniego, ha però respinto il ricorso, ritenendo non soddisfatti i requisiti per poter concedere il rimborso. L’interessato ha poi presentato appello al Consiglio di Stato, che con la sentenza n. 8137/2019 lo ha respinto in quanto, nonostante l’assoluzione, non sono stati ritenuti verificati tutti i presupposti richiesti dalla norma.
Pluralità di fonti normative
La materia dei rimborsi ai dipendenti e amministratori delle spese legali sostenute in procedimenti giudiziari manca di omogeneità, se consideriamo che per i giudizi civili, penali e amministrativi, la normativa di riferimento è diversa a seconda che si tratti di dipendenti di amministrazioni statali (art. 18 del D.L. n. 67/1997 convertito dalla L. n. 135/1997) oppure di dipendenti e/o amministratori degli Enti locali e delle autonomie territoriali (art. 67 del D.P.R. n. 268/1987).
Spostandoci sul fronte del giudizio contabile, lo scenario normativo è ancora diverso, e si trova nell’art. 3, comma 2-bis, L n. 20/1994, come modificato dal D.L. n. 543/1996, convertito dalla legge n. 639/1996.
Recentemente, non sono mancati ulteriori interventi del legislatore.
L’art. 7-bis, comma 1, del D.L. n. 78/2015, convertito con L. n. 125/2015, ha novellato il comma 5 dell’art. 86 del TUEL, ampliando la rimborsabilità delle spese legali per gli amministratori locali anche ai processi civili, amministrativi e penali, in presenza di determinati requisiti. Per effetto della delega contenuta nell’articolo 20 della L. n. 124/2015 (Riforma Madia), è stato emanato il D.Lgs. 26 agosto 2016, n. 174, che ha approvato il Codice della giustizia contabile, che all’art. 31 disciplina la regolazione delle spese processuali.
Rimborso delle spese legali ai dipendenti degli enti locali
In proposito, va ricordato che la materia è ancora regolata dall’Art. 28 del CCNL del 14 settembre 2000, per il personale del Comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali, che riproduce sostanzialmente il testo dell’art. 67 del d.P.R. 13 maggio 1987, n. 268. Si prevede che “l’ente, anche a tutela dei propri diritti e interessi, ove si verifichi l’apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall’apertura del procedimento, facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento”.
Malgrado questa impostazione, la giurisprudenza ha più volte evidenziato, come si desume dal dettato normativo, che nel nostro ordinamento manca un principio generale che consenta di affermare, indipendentemente dalla fonte normativa settoriale e a prescindere dai limiti in cui il diritto viene conformato, l’esistenza di un generalizzato diritto al rimborso delle spese legali sostenute dal dipendente.
Prestazione di assistenza legale ai dipendenti tra specifici presupposti e rigorose valutazioni
Perché l’ente locale possa legittimamente assumersi l’onere di prestare assistenza legale ai propri dipendenti, devono verificarsi specifici presupposti a fronte di rigorose valutazioni che gravano sull’ente. Solo così sarà possibile garantire una trasparente, efficace ed efficiente amministrazione delle risorse economiche pubbliche anche in una materia così spinosa. Questi dunque i presupposti che occorre verificare:
– connessione della vicenda giudiziaria con la funzione rivestita dal pubblico funzionario;
– tutela dei diritti ed interessi facenti capo all’ente;
– assenza di conflitto di interessi tra gli atti compiuti dal funzionario e l’ente;
– conclusione del procedimento con una sentenza di assoluzione.
Il requisito della diretta connessione di atti e fatti con l’espletamento del servizio e l’adempimento dei compiti d’ufficio
Riguardo ai “fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti di ufficio”, la giurisprudenza amministrativa ha rimarcato che la ratio sottesa alla norma in parola è quella di tenere indenni i soggetti che hanno agito in nome, per conto e nell’interesse dell’amministrazione dalle spese legali affrontate per i procedimenti giudiziari strettamente connessi all’espletamento dei loro compiti istituzionali, con la conseguenza che il requisito essenziale in questione “può considerarsi sussistente solo quando risulti possibile imputare gli effetti dell’agire del pubblico dipendente direttamente all’amministrazione di appartenenza”. Non è quindi sufficiente che l’imputato sia stato prosciolto con formula liberatoria, ma occorre che il dipendente sia implicato in fatti che si trovino in diretto rapporto con le mansioni svolte e che siano connesse all’espletamento del servizio e all’adempimento dei propri doveri d’ufficio.
E’ stato pertanto ritenuto legittimo il rifiuto della domanda di rimborso delle spese legali sostenute da un dipendente, prosciolto da un giudizio di responsabilità penale per non aver commesso il fatto, “per mancanza di riferibilità immediata e diretta dell’agire dell’istante al volere dell’amministrazione”, dovendo l’imputazione riguardare, ai fini di detto rimborso, un’attività svolta in diretta connessione con i fini funzionali dell’ente e, quindi, imputabile allo stesso ente (Consiglio di Stato, sez. IV – sentenza 5 aprile 2017, n. 1568).
Il requisito della coincidenza di interessi
Ai fini del diritto al rimborso delle spese legali, ulteriore presupposto è la coincidenza di interessi tra il dipendente e l’amministrazione, intesa appunto come immedesimazione del soggetto, quale organo, con l’amministrazione di appartenenza. Il rapporto di immedesimazione organica che lega l’amministrazione al titolare di un proprio organo comporta, infatti, l’imputazione alla prima degli atti compiuti dal secondo nell’espletamento delle competenze demandategli. Quanto alla ‘connessione’ tra i fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali, la giurisprudenza ha più volte chiarito che si deve trattare di condotte (estrinsecatesi in atti o comportamenti) che di per sé siano riferibili all’Amministrazione di appartenenza e che, di conseguenza, comportino a questa l’imputazione dei relativi effetti. Tale connessione sussiste – continua la Sentenza del Consiglio di Stato n. 8137/2019 – qualora sia stata contestata al dipendente la violazione dei doveri di istituto e, all’esito del procedimento, il giudice abbia constatato non solo l’assenza della responsabilità, ma che esso sia sorto in esclusiva conseguenza di condotte illecite di terzi, di natura diffamatoria o calunniosa, oppure qualificabili come un millantato credito (l’esempio è quello del funzionario accusato di corruzione, ma in realtà estraneo ai fatti, perché vittima di un’ attività calunniosa o di un millantato credito emerso dopo l’attivazione del procedimento penale). C’è però un limite al funzionamento di questo strumento giuridico di imputazione: il rapporto di immedesimazione organica si interrompe quando la persona fisica titolare dell’organo agisce per fini diversi e ulteriori rispetto ai compiti affidati e quindi alla funzione attribuita ex lege alla P.A., con la conseguenza che detto comportamento costituisce esclusiva ed autonoma manifestazione della personalità dell’agente. La condotta oggetto della contestazione deve essere espressione della volontà della Amministrazione di appartenenza e finalizzata all’adempimento dei suoi fini istituzionali.
Nel caso dei dipendenti statali, l’art. 18 del D.L. n. 67/1997 sia applica quando il dipendente sia stato coinvolto nel processo per l’aver svolto il proprio lavoro, e cioè quando si sia trattato dello svolgimento dei suoi obblighi istituzionali e vi sia un nesso di strumentalità tra l’adempimento del dovere ed il compimento dell’atto o del comportamento (e dunque quando l’assolvimento diligente dei compiti specificamente lo richiedeva), e non anche quando la condotta oggetto della contestazione sia stata posta in essere ‘in occasione’ dell’attività lavorativa.
Per contro, la norma non si applica quando la contestazione in sede penale si sia riferita ad un atto o ad un comportamento che:
a) di per sé costituisca una violazione dei doveri d’ufficio;
b) sia stato comunque posto in essere per ragioni personali, sia pure durante e ‘in occasione’ dello svolgimento del servizio, e dunque non sia riferibile all’Amministrazione;
c) sia potenzialmente idoneo a condurre ad un conflitto con gli interessi dell’Amministrazione, ad esempio quando, malgrado l’assenza di una responsabilità penale, sussistano i presupposti per ravvisare un illecito disciplinare e per attivare il relativo procedimento.
Sentenza di assoluzione e assenza di conflitto di interessi
Ulteriori requisiti attengono alla sentenza di assoluzione ampia e all’assenza di conflitto d’interesse. Ciò significa che nei giudizi penali la declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come il proscioglimento con formule meramente processuali, non equivale ad una pronuncia di assoluzione nel merito, con conseguente insussistenza del diritto al rimborso delle spese sostenute. Nel medesimo senso, l’assoluzione del dipendente con la formula “il fatto non costituisce reato” non rappresenta un proscioglimento pieno per l’imputato e lascia ampi margini di dubbio sull’effettiva assenza di situazioni di conflitti di interesse. La sussistenza di una colpa grave, se comporta l’irrilevanza penale della condotta per mancanza dell’elemento soggettivo del dolo, evidenzia un possibile conflitto di interessi con l’ente sotto il profilo della violazione dell’interesse dell’ente ad una gestione inspirata al principio di buon andamento ed all’imparzialità di cui all’art. 97. Allo stesso modo, la costituzione di parte civile dell’ente è emblematica di un conflitto che non consente il rimborso delle spese legali, essendo del tutto evidente, in tali casi, il conflitto d’interessi tra l’ente e il dipendente.

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