tratto da quotidianopa.leggiditalia.it
di Michele Nico – Funzionario della Corte dei conti
Giro di vite della magistratura contabile sul pagamento della retribuzione di risultato “a pioggia”, ossia senza la preventiva assegnazione di obiettivi specifici ai dipendenti e una seria valutazione che possa giustificare l’erogazione degli emolumenti aggiuntivi in rapporto alle prestazioni lavorative rese e agli obiettivi effettivamente raggiunti.
Con la sentenza n. 22 dell’11 luglio 2019 la Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale per il Molise, condanna il direttore generale, il direttore amministrativo, il direttore sanitario e il dirigente responsabile della gestione risorse umane di un’azienda sanitaria al pagamento di un complessivo importo di 290 mila euro oltre agli interessi legali, da rifondere all’ente di appartenenza per il danno erariale perpetrato con la liquidazione delle retribuzioni di risultato alla dirigenza sanitaria nell’anno 2009, in assenza di una previa definizione e assegnazione di obiettivi specifici ai dirigenti beneficiari e, conseguentemente, senza una vera e seria verifica del grado o della misurazione del reale conseguimento dei correlativi risultati.
Stante il fatto che nell’esercizio considerato l’azienda sanitaria non aveva assegnato obiettivi specifici, se non quelli istituzionali concernenti l’operatività ordinaria dei servizi erogati, il fondo della retribuzione di risultato era stato corrisposto alla dirigenza in quote non differenziate, con una decurtazione delle somme nei soli casi di assenza dal servizio oltre un certo limite di giorni per astensione facoltativa, aspettativa senza assegni, o nel caso di dipendenti a rapporto non esclusivo con l’azienda.
Questa dinamica ha comportato un verdetto di condanna per i vertici dell’azienda, ritenuti colpevoli di aver attuato uno spreco di risorse nella distribuzione dei premi ai dipendenti, ignorando inescusabilmente che il fondo per la retribuzione di risultato è destinato a promuovere il miglioramento organizzativo e l’erogazione dei servizi per la realizzazione degli obiettivi generali dell’azienda o dell’ente, finalizzati al conseguimento di più elevati livelli di efficienza, di efficacia e di economicità dei servizi istituzionali.
Come si legge nella pronuncia in commento, la via corretta per distribuire le risorse del salario accessorio è un procedimento composito articolato nelle seguenti fasi:
a) programmazione aziendale con cui la direzione strategica definisce gli obiettivi, strategici e gestionali, cui tutti i dirigenti (e dipendenti) debbono fare riferimento;
b) definizione da parte di ogni centro di responsabilità (unità operativa) dei propri obiettivi specifici coerenti con quelli aziendali;
c) assegnazione “dei pesi differenziali” del fondo, di modo che, a seconda degli obiettivi definiti, venga attribuita una quota in relazione alle esigenze annuali di gestione;
d) indicazione, da parte del responsabile della singola unità operativa, del punteggio individuale che tenga conto dei differenti apporti alla produttività dell’equipe;
e) verifica, da parte degli organi di valutazione, dei risultati raggiunti e, solo a questo punto, la distribuzione degli incentivi.
Solo nel rispetto di questo iter amministrativo la corresponsione dei premi di risultato può ritenersi corretta e legittima, in quanto strettamente correlata al raggiungimento degli obiettivi prestazionali prefissati.
Tenuto conto di ciò, il collegio censura l’operato dei convenuti affermando che “le condotte realizzate si dimostrano del tutto ingiustificate e contra legem, antigiuridiche e antidoverose, contrarie ai canoni di diligenza che avrebbero suggerito di ravvedersi, per quanto di rispettiva competenza, adottando ogni misura idonea a rimuovere la situazione di evidente illegittimità in corso, determinata dall’attribuzione di emolumenti generalizzati non legati alla produttività, in contrasto con i principi di sana gestione”.
Non è la prima volta che la magistratura contabile accerta un danno erariale nella distribuzione delle risorse del salario accessorio “a pioggia”, ossia fondate soltanto sulla mera constatazione della presenza in servizio e in maniera disancorata dal conseguimento di obiettivi prefissati.
E’ tuttavia utile ricordare che la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Campania con la sentenza 27 luglio 2017, n. 313, prendendo in esame un’analoga vicenda a seguito di contrattazione decentrata in una Prefettura, aveva disposto l’assoluzione dei dirigenti convenuti per carenza degli elementi psicologici del dolo o della colpa grave.
In quel caso il giudizio riguardava un contratto decentrato a seguito del quale era stata disposta un’erogazione di compensi al 99 per cento dei dipendenti, ancorando la liquidazione alla sola presenza in servizio dei lavoratori.
La Sezione aveva qualificato tale liquidazione come danno erariale, ma era giunta all’assoluzione degli imputati – non ravvisando nel loro operato una condotta gravemente negligente – in ragione della “cronica tardività con cui vengono sottoscritti, di anno in anno, gli accordi per l’utilizzo del fondo unico di amministrazione, sicché di fatto gli uffici acquisiscono conoscenza delle risorse disponibili dopo che si sono consumati i tempi per la pianificazione dei progetti”.
Per contro, non si riscontra traccia di una simile clemenza nella sentenza in esame, ove la Sezione Molise non ha scusato un’analoga condotta, ma si è limitata a riconoscere agli imputati una riduzione dell’addebito per le forti pressioni esercitate dalle organizzazioni sindacali in sede di contrattazione integrativa decentrata.
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