Tratto da: ildirittoamministrativo.it- Autore: Antonio Turtoro

Nell’ambito delle fonti sovranazionali occorre distinguere due macrosistemi: il diritto dell’Unione Europea e la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.

La differenza più rilevante tra le due fonti risiede nel modo di interagire con l’ordinamento giuridico interno, nonché nelle conseguenze derivanti da eventuali conflitti tra norme del diritto nazionale da un lato, e norme della CEDU o del diritto dell’Unione Europea dall’altro.

In particolare, le norme contenute nella Convenzione sono, secondo l’ormai consolidato orientamento della Corte Costituzionale, delle norme pattizie, le quali, per loro natura, non sono né direttamente applicabili nell’ordinamento interno, né possono produrre in esso degli effetti diretti.

Ne consegue che la loro legittimazione a influenzare l’ordinamento interno non deriva dall’art. 10 Cost, per il quale l’ordinamento giuridico italiano deve conformarsi alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, in quanto la norma in esame si riferirebbe non alle norme pattizie, ma solo a quelle consuetudinarie.

Deve altresì escludersi che le norme CEDU possano trovare il proprio fondamento normativo nell’art. 11 Cost., che consente all’Italia in condizioni di parità con gli altri Stati, a limitazioni  di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni.

Come osservato dalla Consulta, infatti, l’adesione alla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo non ha comportato per l’Italia limitazione alcuna di sovranità, onde il riferimento normativo che giustifica l’ingresso delle norme CEDU nel diritto interno dovrà essere rinvenuto in una norma diversa dall’art. 11 Cost.

Difatti, la norma costituzionale di riferimento viene individuata all’art. 117, co. 1 Cost, che impone allo Stato e alle Regioni di esercitare la potestà legislativa nel rispetto, oltre che della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, altresì dagli obblighi internazionali.

La fisiologica conseguenza di siffatta impostazione risiede nella impossibilità, per il giudice “a quo” che dovesse rilevare un conflitto tra la norma interna e la norma CEDU, di disapplicare la prima a favore della seconda, dovendo, piuttosto, sollevare una questione di legittimità costituzionale della norma interna, assumendo la violazione dell’art. 117 Cost.

Giova dare atto di un ulteriore orientamento talvolta seguito dalla giurisprudenza amministrativa, per cui la stipulazione del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) nel 2007, con la quale l’Unione Europea, quale ente dotato di personalità giuridica, avrebbe “comunitarizzato” i principi contenuti nella CEDU, aderendovi ed equiparandoli, sostanzialmente, alle norme comunitarie. Ne consegue che il giudice “a quo” potrebbe disapplicare la norma interna in conflitto con la norma CEDU, senza la necessità di sollevare una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost.

Trattasi tuttavia di un orientamento sconfessato dalla Corte Costituzionale, la quale ha precisato che il Trattato di Lisbona del 2007 abbia solamente concesso all’Unione Europea di aderire alla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ma che la procedura di adesione non è mai stata avviata, sicchè la CEDU dovrà continuare ad essere trattata quale parametro di legittimità interposto delle norme interne che si pongono in eventuale conflitto con essa.

Diversamente, si atteggiano le fonti del diritto dell’Unione Europea, caratterizzate dalla possibilità di produrre effetti diretti negli ordinamenti degli Stati membri, senza la necessità di un atto interno che ne recepisca il contenuto.

Beninteso, si fa riferimento ai regolamenti, per loro natura direttamente applicabili, e alle direttive “self-executing”, che sebbene non direttamente applicabili, conservano comunque un’efficacia diretta nei confronti degli ordinamenti nazionali, in quanto aventi contenuto chiaro, preciso e incondizionato.

Proprio, in considerazione dell’impatto che tali norme hanno sull’ordinamento nazionale, il cui fondamento normativo si rinviene all’art. 11 Cost., pocanzi menzionato, nel caso in cui il giudice “a quo” dovesse rilevare un conflitto tra esse e le norme interne, potrà disapplicare queste ultime senza dovere sollevare alcuna questione di legittimità costituzionale.

Detta soluzione viene accolta tanto dai sostenitori della cosiddetta teoria monista, quanto da coloro che credono nella teoria dualista.

In particolare, i giudici europei ritengono che l’ordinamento comunitario e l’ordinamento nazionale si integrino in un unico ordinamento, ove le norme europee sono gerarchicamente sovraordinate alle norme interne in virtù del principio del primato europeo, nonché della limitazione alla propria sovranità accettata dall’Italia con la previsione di cui all’art. 11 Cost.

Viceversa, la Corte Costituzionale, a partire dalla storica sentenza “Granital” del 1984, afferma che i due ordinamenti, benché coordinati, siano distinti e autonomi.

Orbene, se l’adesione all’una o all’altra impostazione non solleva problemi in ordine al conflitto tra norma interna e norma comunitaria, che come detto si risolve disapplicando la prima e applicando la seconda, è invece foriera di conseguenze in ordine alla sorte del provvedimento amministrativo emanato in contrato con il diritto unionale.

Accogliendo la tesi della separatezza degli ordinamenti, infatti, si negherebbe alla norma comunitaria di fungere da parametro di legittimità dell’atto amministrativo medesimo, neutralizzando così il principio del primato europeo del diritto comunitario nella sfera di disciplina dell’azione ammnistrativa.

Invero, il problema è stato parzialmente sdrammatizzato dalla Consulta, la quale, a partire dal 2010, riconosce il principio del primato europeo, pur rimanendo irremovibile in ordine all’affermazione dell’autonomia e separatezza dell’ordinamento nazionale e di quello comunitario.

Per comprendere appieno le conseguenze derivanti dall’accoglimento dell’una o dell’altra tesi, occorre preliminarmente distinguere due ipotesi differenti di illegittimità del provvedimento amministrativo. Laddove infatti questo si ponesse direttamente in conflitto con la norma comunitaria, si verificherà l’ipotesi della illegittimità comunitaria diretta; ove invece il provvedimento fosse conforme a una norma nazionale, la quale, a sua volta, si pone in conflitto con la norma comunitaria, l’illegittimità comunitaria sarà di tipo mediato o indiretto.

Ciò premesso, i sostenitori della tesi monista ritengono che a prescindere dalla tipologia d’illegittimità che viene in rilievo, la conseguenza sia sempre quella della annullabilità dell’atto. Dal momento in cui ordinamento comunitario e nazionale si integrano, costituendo di fatto un unico ordinamento, risulterà del tutto indifferente la fonte della norma concretamente violata con l’emanazione del provvedimento amministrativo illegittimo, in quanto la patologia di cui questo è affetto sarà in ogni caso la violazione di legge.

Invero, a siffatta impostazione aderisce anche parte della giurisprudenza amministrativa nazionale che, sul solco dell’ormai avvenuto riconoscimento, anche da parte della Corte Costituzionale, del principio del primato dell’Unione Europea, afferma che il regime dell’annullabilità, a ben vedere, risulti altresì maggiormente compatibile con la disciplina del processo amministrativo, rimanendo fermi a sessanta giorni i termini per impugnare il provvedimento annullabile, nonché per la vincolatività che il ricorso opera nei confronti del giudice.

Di diverso avviso è, tuttavia, la giurisprudenza maggioritaria. In guisa dell’accoglimento della teoria della separatezza da parte della Consulta, infatti, il Consiglio di Stato continua a operare un distinguo tra illegittimità comunitaria diretta e indiretta.

Nel primo caso concorda con le conclusioni dei giudici europei, ritenendo il provvedimento annullabile per violazione di legge ai sensi dell’art. 21 octies della L. 241/90.

Nel secondo caso, viceversa, si discosta dall’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea e dalla giurisprudenza amministrativa minoritaria nazionale, ritenendo necessario operare un altro e ulteriore distinguo, a seconda che la norma nazionale sulla cui base viene emanato il provvedimento, ma che si pone in conflitto con il diritto comunitario, sia attributiva o regolativa del potere.

Laddove la norma (da disapplicare) sia la fonte del potere amministrativo, il provvedimento emanato nell’esercizio di detto potere sarà nullo o inesistente per difetto assoluto di attribuzione ai sensi dell’art. 21 septies della l. 241/90.

Viceversa, ove la norma in conflitto con la norma comunitaria non fosse attributiva ma solo regolativa del potere, avente a sua volta la propria fonte in una diversa norma, allora il provvedimento sarà da ritenersi annullabile.

In sostanza, sostiene il Consiglio di Stato, che per sacrificare la sorte del provvedimento amministrativo affetto da illegittimità comunitaria indiretta sia necessario verificare, caso per caso, quale sia la norma che attribuisce all’Amministrazione il potere di emanare quel dato provvedimento, onde accertare la compatibilità con l’ordinamento comunitario.

Invero, giova dare atto di una terza tesi sostenuta da giurisprudenza e dottrina assolutamente minoritaria, per la quale il provvedimento amministrativo illegittimo, al pari di quanto accade per le norme, debba essere disapplicato. Trattasi di un orientamento tuttavia sconfessato dai giudici di Palazzo Spada, stante la sovrapposizione inammissibile di atti amministrativi e atti normativi.

Per completezza, giova infine sottolineare che la Corte di Giustizia ha sottolineato come in tutti i casi in cui vi sia un provvedimento illegittimo non sorga in capo alla P.A. l’obbligo di agire in autotutela, trattandosi questo di un rimedio discrezionale ma che soprattutto può essere attuato solo in presenza di un interesse pubblico rilevante.

Come è evidente, l’illegittimità comunitaria, tanto diretta che indiretta, non va ad incidere nel merito del provvedimento quanto sulla sua legittimità.

Invero, è stata individuata un’ipotesi in cui sorge suddetto obbligo e cioè quando cumulativamente siano soddisfatte le seguenti condizioni: a) che il provvedimento sia divenuto definitivo a seguito dell’emanazione di una sentenza; b) che la sentenza non abbia coinvolto in alcun modo la Corte di Giustizia; che vi sia istanza del privato in tal senso.

 

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